Home Before Dark e il fascino oscuro della provincia americana
Home Before Dark è un'ottima crime story ambientata in provincia, ma la serie Apple+ è solo l'ultimo esempio di come l'orrore ami i piccoli paesi.
Tra i nuovi prodotti disponibili su Apple+ c'è una piccola perla chiamata Home Before Dark. Se avete il timore di trovarvi di fronte l'ennesima variante sul tema "ragazzini in bici che affrontano il Male in provincia", sappiate che ci sono effettivamente dei ragazzini che viaggiano saltuarimente in bici e che affrontano il Male in provincia, ma lo fanno senza la pesantezza della copia, padroneggiando una detective story scritta con competenza e vera freschezza.
La protagonista è Hilde Lisko, interpretata dalla spettacolare Brooklynn Prince, ed è una bambina di 9 anni, quindi niente adolescenti in fase pre-puberale. Hilde è figlia di un giornalista e lei stessa trascorre il suo tempo stampando giornali autoprodotti con le news di quartiere, con la passione cristallina e incrollabile tipica dei bambini, un approccio molto più vicino a Stephen King che a Stranger Things, ma ne riparliamo più avanti. Rimasto senza lavoro, il padre di Hilde è costretto a fare i bagagli e a portare tutta la famiglia nel piccolo paese di Erie Harbor, nella casa dove è cresciuto e che ha abbandonato con slancio alla prima occasione utile.
Il passaggio da New York al paesello d'origine è durissimo, anche perché pare che gli ex compaesani abbiano una mortale antipatia per il giornalista, che ovviamente ha alle spalle un passato fatto di trauma, senso di colpa e segreti. A portare a galla le colpe dei padri sarà Hilde, l'unica capace di rovistare nella sporcizia accumulata dalla comunità uscendone pulita e integra come era entrata. La scrittura e la costruzione dei personaggi rendono Home Before Dark divertente da vedere, ma non solo.
Lo show creato da Dana Fox and Dara Resnik è anche capace di veicolare messaggi importanti evitando il citazionismo estremo o lo spiegone didascalico, pur utilizzando uno schema narrativo e un background culturale ormai diventato un classico dello storytelling americano.
La storia crime o horror ambientata nel piccolo paese è infatti ormai comune e consolidata in ogni tipologia di narrazione, e la malvagità nascosta nella provincia è diventata un topos universalmente riconosciuto. Da brava figlia della provincia, sono cresciuta con le raccomandazioni degli adulti che mi mettevano in guardia dalle minacce della grande città.
Crimine, violenza, sporcizia, depravazione, erano tutti affari da città, niente a che vedere con la vita tranquilla del paese, con il calore di casa, dei vicini che si conoscono tutti... Crescendo, la bella cartolina dipinta dai genitori inzia a sgretolarsi, vengono fuori le storie di droga, i suicidi, le aggressioni, gli adulti dai quali era meglio stare lontani, tutte le piacevolezze reperibili in qualsiasi comunità umana. Perché si sa, tutto il mondo è paese.
Se poi diamo un'occhiata alle statistiche, il senso di sicurezza dato dal piccolo centro urbano vacilla ancora di più. Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti pubblicò un rapporto sui crimini violenti registrati tra il 2003 e il 2012. Dell'intero corpo di violazioni, il 21% era a carattere domestico, perpetrato da familiari o partner, il 32% era avvenuto per mano di persone conosciute, e solo il 38% era imputabile a completi sconosciuti. Inoltre, il 77% delle violenze domestiche era avvenuto nelle immediate vicinanze oppure all'interno della casa della vittima. Tanti saluti al pazzo assassino che ti uccide senza motivo mentre cammini per le strade di una metropoli.
L'aura romantica del piccolo paese parla di armonia sociale, vita semplice, magari a contatto con la natura, lontana dalla perdizione della città e, spesso, della modernità. Nella provincia è più facile far finta che il tempo si sia fermato, che i ritmi di lavoro siano più gentili e che la qualità dell'esistenza sia migliore. Le persone sono meno stressate, le case sono più grandi, i prodotti costano meno, qui si dà valore alle tradizioni e ci si può permettere di mettere su famiglia con tanto di portico e staccionata bianca, come nei film. Il rovescio della medaglia prevede però che gli stessi elementi che costituiscono il fascino della provincia siano anche alla base delle sue più barbare aberrazioni.
Come abbiamo ben visto dalle statistiche, famiglia e amici costituiscono la principale fonte di possibili agressori, ancor più se inseriti in un contesto di isolamento dove le idee legate a diritti civili, parità di genere, integrazione e tecnologia faticano ad arrivare.
Vuoi per ritrosia, vuoi per mancanza di risorse economiche, ma in provincia arriva sempre tutto dopo. O non arriva affatto. Lontana dalla pluralità di voci e stimoli dei grandi centri, la provincia ha il brutto vizio di nascondersi dietro alla tradizione, religiosa o culturale che sia, ripetendosi mentalmente che va tutto bene perché si è sempre fatto così. Il cambiamento è qualcosa che viene guardato di sbieco, così come i forestieri, bersagli perfetti per una xenofobia che emerge spesso nelle cominità particolarmente affezionate alle proprie radici storiche.
La routine, e il fatto che tutti sanno sempre tutto di tutti, favorisce inoltre una spiccata attenzione per l'apparenza, per il "oddio cosa pensaranno i vicini", per il perbenismo di facciata e per il gossip più velenoso. Vedete bene che la molotov è pronta per il lancio, basta una piccola scintilla e il fuoco si mangia tutto.
Tra i grandi precursori della storia crime e horror ambientata nei piccoli paesi, ci tengo particolarmente a citare una delle autrici più sottovalutate della letteratura americana, Shirley Jackson. Il suo lavoro di scarnificazione del mito della provincia come luogo incantato ha aperto la strada a tutta l'evoluzione narrativa avvenuta in seguito, compresa quella attuata dall'autore che ha lanciato la riscoperta critica di Jackson nel 2006, Stephen King.
Con la satira spietata di The Lottery, racconto del 1948, e con quello che è forse il suo capolavoro assoluto, We Have Always Lived in the Castle del 1962, Jackson ha saputo rappresentare tutta la grettezza bigotta del tradizionalismo rurale, la cattiveria e la malignità nascosta dietro ai sorrisi posticci e l'orrore sanguinario dei segreti di famiglia, luogo d'eccellenza in cui si annidano oscurità e marcio.
Stephen King ha raccolto in pieno l'eredità di Jackson e l'ha trasportata nel mondo della cultura pop. La stragrande maggioranza dei lavori di King è infatti ambientata nei piccoli paesi del suo amatissimo Maine, dall'esordio con Carrie, passando per i cult Le notti di Salem, Pet Sematary, ovviamente It e Cose Preziose, fino ai romanzi più recenti come The Outsider.
L'orrore kinghiano ha bisogno del falso senso di sicurezza dato dai luoghi del cuore, si nutre di speranze disilluse, di promesse non mantenute, e ha bisogno di bambini. Quale migliore ambientazione, quindi, della provincia tranquilla dove si va a costruire il nido lontano dalla frenesia della città tentacolare?
Come pochi altri al mondo, King ha saputo dare struttura all'essenza dell'horror di provincia, quella che John Langan nel saggio The small-town horror definisce "la tensione tra quello che sembriamo essere e quello che veramente siamo, un interesse che esprime una profonda ansia verso la nostra identità, verso le forze sotterranee che ci guidano."
Non a caso i bambini di It sono gli unici a vedere i segni del Male, perché non sono ancora stati risucchiati dal vortice dell'apparenza perfetta, dal buon viso a cattivo gioco, e sono ancora in grado di smascherare le ipocrisie che corrodono la vita degli adulti dall'interno.
Uno degli elementi costanti della narrazione dell'orrore in provincia è infatti il sovrapporsi tra minaccia esterna e colpe indigene. I migliori esempi di storia horror o crime nei piccoli centri isolati sono infatti immancabilmente ibridi, magari partono come semplici reazioni a una minaccia, per poi finire a rovistare nelle soffitte dimenticate, nelle memorie soppresse e nel passato di persone insospettabili che invece hanno più colpa di quanto siano disposti ad ammettere.
Pensiamo ai lebbrosi di The Fog di John Carpenter, a Freddy Krueger, a Venerdì 13, a Scream, ma anche a un sottogenere dalla recente fioritura critica, il folk horror, che condivide molti elementi cruciali delle narrazioni di provincia declinandoli in un contesto più prettamente europeo.
Questa attenzione ai peccati originali spazzati sotto al tappeto risplende nelle produzioni seriali che hanno scelto i piccoli paesi come teatro delle loro scelleratezze. Il trend che ha portato alla realizzazione di Home Before Dark ha radici belle solide e, stranamente, il primo titolo che cito non è Twin Peaks.
La prima serie tv famosa per gli omicidi in provincia è infatti La signora in giallo, beccati questa David Lynch. La piccola immaginaria Cabot Cove (Maine!) è stata probabilmente la città con il più alto tasso di delitti del mondo dal 1984 al 1996, dato che molti tra i casi affrontati dalla regina della detective story televisiva avvenivano proprio a pochi passi da casa sua.
A Twin Peaks rimane comunque il primato in quanto a malvagità assoluta, a intrighi sepolti nell'ombra e a disfunzione familiare, i tratti salienti per una buona storia di orrore in provincia. Da allora di misfatti e sciagure in piccoli paesi se ne sono successi a bizzeffe.
Pensiamo soltanto all'invasione di vampiri a Sunnydale, costruita sulla bocca dell'Inferno in Buffy l'ammazzavampiri, ai successivi vampiri di True Blood a Bon Temps, al sottosopra di Hawkins in Stranger Things, alla violenza impensabile di Sharp Objects, agli infinti intrighi di Riverdale e alle avventure demoniache delle Terrificanti avventure di Sabrina a Greendale.
Oggi più che mai la provincia fa paura, perché la sua resistenza alla modernità e la sua distanza dal benessere delle metropoli ne fanno un bacino politico di malcontento e pulsione conservatrice dalle conseguenze nefaste. Più spaventosa di mille assassini, più letale di ogni vampiro. Venite in provincia, a volte ci annoiamo, ma a volte giochiamo con Satana.