Boris e la ricerca dell'erede. È davvero necessaria?
Un'analisi del successo della serie tv Boris, dagli esordi non esaltanti fino al meritato riconoscimento, con cui ci interroghiamo sulla necessità e la possibilità di un seguito.
Quando nel 2007 Boris irrompe sulla scena italiana, lo fa con la delicatezza travolgente e distruttiva di un’esondazione. Sino a quel momento i prodotti seriali italiani, eccezion fatta per alcune rarissime anomalie, quasi sempre di nicchia e misconosciute, viaggiavano su binari di genere ben definiti dai quali la comedy (la buona comedy) era sistematicamente esclusa.
Ora, sia chiaro, parliamo di un contesto completamente diverso da quello attuale, un contesto nel quale non c’erano servizi di streaming così
capillari come oggi, il binge watching era spesso confuso con un’attività da fare all’aperto con un binocolo (no maliziosi allowed) e le serie tv erano ancora viste come una rampa di lancio per giovani attori prima dell’approdo al cinema o un qualcosa a cui tornavano nella fase calante della propria carriera.
Non eravamo ancora entrati nell’epoca d’oro delle series e, men che meno, di quelle prodotte in Italia. Per questi e per
altri motivi ancora, il fragore provocato da Boris fu enorme, anche se non esplose tutto insieme.
Inizialmente, infatti, la messa in onda su Fox registrò ascolti tutt’altro che esaltanti.
Era come se ci fosse un’enorme diga che impediva lo strabordare di quest’onda d’urto. In quella diga, però, c’era una minuscola crepa causata dalla magica unione fra il passaparola e i torrent. E mano a mano che la gente parlava di questa nuova serie, la frattura si allargava sempre di più fino a quando, voilà… esondazione!
Da quel momento in poi, tutti i paradigmi e le infrastrutture propri della serialità all’italiana vengono destrutturati pezzo per pezzo, travolti dall’ironia affilatissima messa in gioco dai tre sceneggiatori della serie (quelli veri, senza yacht di lusso): Luca Vendruscolo, Mattia Torre e Giacomo Ciarrapico. I tre tenori hanno tirato su un’impalcatura in grado di riflettere tic e nevrosi dell’Italia, questo grande paese fondato sulla locura e sulle raccomandazioni.
Dietro le sfuriate di René, i capricci di Stanis, le crisi mistiche di Mariano Giusti, infatti, c’è l’analisi pietosa e cinica del mondo del lavoro in Italia, dei suoi protagonisti come archetipi da riconoscere, c’è la descrizione delle logiche di potere valide nel backstage de Gli occhi del cuore così come in ogni altro ambiente.
Boris è considerato ancora oggi uno dei più importanti punti di svolta della serialità italiana, entrato a pieno titolo nel pantheon delle produzioni più amate di sempre, i suoi refrain fanno ormai parte della cultura di massa e dei social (ricordiamo l’appena trascorsa “Festa del Grazie”) e i suoi personaggi sono riconoscibili.
Come tutte le cose amate da un’amplissima fetta di persone, anche Boris segue la stessa parabola a cui abbiamo assistito decine di volte in passato, una parabola che dopo il “ritiro dalle scene” prevede un’ondata di nostalgia arginata solamente da una cosa: l’ossessiva ricerca di un degno erede. Solo che questa, come tutte le ossessioni, porta spesso ad aspettative deluse e frustrazioni, perché quando il termine di paragone è inarrivabile cercare a tutti i costi qualcosa che lo eguagli è, semplicemente, controproducente. A prescindere dai valori assoluti.
È successo con i vari “nuovi Messi”, con i “nuovi Game of Thrones” con i “nuovi Gassman”. Ovviamente, la trafila continua con i “nuovi Boris”. Con questo non si vuole dire che la pletora di eredi a cui di volta in volta veniva affibbiata un’etichetta del genere si siano rivelati pessimi nel proprio campo di riferimento ma semplicemente che, confrontandoli con le aspettative, sono diventati con il tempo qualcosa di diverso, in molti casi non paragonabile con il modello di partenza.
Uno dei problemi del marketing relativo ai nuovi prodotti culturali è la paura che il pubblico non li apprezzi o non ci si avvicini per quello che sono, quindi si sente il bisogno (da parte dei produttori, dell’industria, degli uffici di comunicazione) di identificarli con qualcosa d’altro che, invece, il pubblico conosce bene e ha apprezzato in passato.
Ed è così che se in una serie scritta da Vendruscolo e Ciarrapico troviamo Giorgio Tirabassi, Caterina Guzzanti, Luca Amorosino e Massimo De Lorenzo ecco che abbiamo un nuovo erede anche se poi, andando a guardare bene (ma neanche troppo) ci si rende conto che no, Liberi tutti con Boris non ha nulla a che vedere.
Oppure ecco che entriamo nelle corsie di un ospedale romano seguendo Valerio Mastandrea mentre ha a che fare con Antonio Catania, Paolo Calabresi e, ancora, Tirabassi, il tutto scritto da Mattia Torre, e subito si parla di “Boris fra le corsie di un ospedale”. Quando in realtà La linea verticale, oltre a essere una delle produzioni italiane meglio riuscite degli ultimi 10 anni almeno, è anni luce lontana dalla serie ambientata fra gli studi di Cinecittà, per tematiche e intenzioni. Sia chiaro, attirare il pubblico con riferimenti che aiutino la decodifica di qualcosa di nuovo è una mossa di marketing più che legittima, ma qui si vuol far notare la leggerissima differenza che esiste fra un disclaimer che recita “Dagli autori di” o “Con il cast che abbiamo visto in” con il vendere qualcosa spacciandolo per altro.
Poi succede che la meravigliosa Linea verticale (disclaimer: vedetela. Sta su RaiPlay) non raggiunge il grande pubblico e conquista un decimo del successo che avrebbe meritato e che un prodotto buono come Liberi tutti, pur con i suoi difetti, viene liquidato con un “Eh, ma era meglio Boris”.
Questi sono solo due esempi sui molti che si sarebbe potuto fare, di certo i più eclatanti, simbolo del fatto che l’ossessiva ricerca di un sequel spirituale spesso è la cosa più controproducente che si possa fare, sia parlandone in termini economici che artistici.
Mettiamocelo in testa, un prodotto come Boris non lo avremo più e, a conti fatti, è giusto così.
La sua fortuna è dovuta anche ad una serie di fattori che si sono incastrati alla perfezione. La capacità di prendersi in giro da solo e di parlare con sarcasmo dello stesso settore a cui apparteneva, i protagonisti amabili e velenosi al tempo stesso, le scelte di cast sono tutti elementi particolari che in quel preciso momento storico hanno rappresentato qualcosa di sconosciuto al grande pubblico. Ora quel momento è passato e presentare una serie basata sulle stesse dinamiche perderebbe anche quel velo di novità a cui gran parte della fortuna di Boris è debitrice.
A questo si aggiunga il fatto che con il passare degli anni Boris è stata idealizzata e molte cose che quindici anni fa funzionavano alla perfezione oggi magari, riviste con un occhio più maturo, dopo lo svezzamento alle serie e al cinismo a cui siamo stati sottopost*, sono meno efficaci. Sia chiaro, è giustissimo così, sono davvero poche le opere che restano completamente inalterate dal trascorrere del tempo, anche se questo non può in alcun modo influire sul loro valore contestuale.
La ricerca di novità, influenzata sì dal passato senza però ricalcarlo passo dopo passo, è il motore che ha portato molte serie degli ultimi anni non solo ad avere un enorme successo di pubblico, ma anche a essere riconosciuti come prodotti qualitativamente e artisticamente eccellenti (o comunque a innalzare gli standard a cui eravamo abituati).
Ed è anche per questo che una millantata quarta stagione di Boris viene vista con un misto di speranza e terrore. Ci è andata bene con il film perché forzare la mano?
Un ultimo appunto. I tre tenori di cui ho parlato prima sono purtroppo diventati due. Mattia Torre, il terzo “collega”, (così veniva chiamato da Ciarrapico e Venduscolo nel loro saluto apparso a schermo al termine di Liberi tutti), è morto il 19 luglio 2019. Quando parlo di sinergie positive che hanno portato all’enorme successo intergenerazionale di Boris, la prima e più importante è proprio fra i tre sceneggiatori. Senza di loro, intesi come gruppo, è inutile provare a replicare.
Ve li immaginate voi i Chicago Bulls che vincono così tanto senza Michael Jordan? Io no.