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Blonde, l'arroganza del male gaze

Il problema di Blonde non è se la protagonista sia la vera Marilyn o no, non è neanche di quanto il film sia aderente al libro a cui si è ispirato. Il problema di Blonde è la misoginia.

 

Chiaramente lo sguardo con cui si racconta la storia non vuole essere misogino, anzi probabilmente il film vorrebbe segnare una distanza tra sé ( il punto di vista di chi lo ha diretto) e lo sfruttamento delle donne. È il manifesto delle buone intenzioni andate a male.

 

Alcune letture vogliono vedere il film come un film scomodo, una riflessione originale, addirittura audace. Eppure non vedo niente di nuovo in questo tipo di prospettiva, che diciamocelo non ha nulla a che fare con un discorso intorno alla fama, al successo o alla visibilità che proprio volendocelo mettere è a margine e comunque con una declinazione di genere a senso unico e - ça va sans dire - sessuocentrico .

 

Ogni scena urla: «poverina! È stata veramente tanto maltrattata, ingannata, sfruttata, abusata» e «Che orrore l'industria cinematografica dell'epoca! Cattivissimi questi manager, produttori e amanti». Impossibile non rilevare che siamo un pò fuori tempo massimo, come se non ci fosse mai stato Weinstein e il movimento #metoo. Come se non si fosse prodotta parecchia letteratura sulle narrazioni delle violenze a partire dalle esigenze delle vittime (o sopravvissute come spesso si preferisce dire).

A dirla tutta sembra un discorso tra uomini sul corpo di una donna. La scena emblematica dell'arrivo alla prima di "A qualcuno piace caldo" è una carrellata di volti maschili deformati. L'indicazione è chiara: sono mostri, quasi con la bava alla bocca. Devono far provare ribrezzo. Il messaggio è "gli uomini fanno schifo". La logica sottesa è una netta divisione: gli altri uomini sono così, non io. Io che li descrivo così impietosamente non sono come loro, io sono meglio. Autocompiacimento, autoindulgenza sono gli ingredienti chiave. È un gioco facile quanto strumentale.

 

L'operazione non denuncia una brutale verità, ma contribuisce all'immaginario di cui tale brutalità si nutre. Aggiunge un tassello in più, un nuovo livello allo sfruttamento stesso. E lo fa bene, intorbidendo le acque, perché effettivamente riesce a disturbare, produce in chi guarda disgusto e riprovazione.

 

Movimenti di macchina, effetti e montaggio inquietano e lasciano in alcuni momenti un senso di viscido addosso.

 

Se l'intento esplicito è prendere le distanze dalla "mercificazione" delle donne, di fatto il film non fa altro che sfruttare e cannibalizzare l'immagine di una donna. Marilyn o non Marilyn non è importante, usare il fanta-biopic è utile per agganciare al discorso: ne sfrutta l'immagine sovrascrivendoci sopra una storia pornografica e morbosa (pornografico non è un insulto in genere, uso pornografico qui nell'accezione che si usa ad esempio nella locuzione "pornografia del dolore"), mostrando una presunta e/o fantasticata intimità, che quasi sembra rubata. In certe sequenze quasi si potrebbe dire di essere più dalle parti della " Diffusione non consensuale di immagini intime" ( ovvero la pratica che in modo scorretto viene chiamata "Revenge Porn") che del film di denuncia.

 

Il personaggio descritto dal film Marilyn-o-non-Marilyn viene rappresentato come esclusivamente passivo, subisce tutto, non ha mai un momento di espressione di sé, non esiste di fatto . Non si mostrano pensieri, passioni, amicizie, interessi. Lei non c'è, né come Marilyn né come Norma Jeane. La capacità di autodeterminarsi viene sistematicamente evitata, rimossa chirurgicamente.

 

Anche quando rapidamente si libera dalla violenza domestica, la sua volontà non viene rappresentata in nessuna forma e misura. Sembrerebbe quasi che dopo solo nove mesi, si trova divorziata da Joe Di Maggio senza sapere come. Il desiderio, la caparbietà di portare avanti una propria carriera non viene mai esplicitata come propria determinazione, al più viene rappresentata come un capriccio, una fissazione. Nessuna traccia neanche nascosta di volontà di prendere in mano la propria vita e dargli una direzione. La donna Marilyn/NonMarilyn viene caratterizzata esclusivamente da costrutti fondanti del patriarcato: desiderare un uomo che ti protegga (un «papi» letteralmente) e diventare madre.

 

Ma non basta, Dominik vuole entrare nel corpo del suo personaggio e lo vuole fare in modo eclatante, Marilyn/non Marilyn è una bambola a cui si può fare di tutto e alcune azioni vengono evidenziate come particolarmente umilianti. Ne escono male tutti: lei soprattutto interpretata da Ana de Armas resa quasi monocorde nella direzione Dominik , ma anche il sesso tout court.

 

È un avvertimento: donne il sesso vi umilia. Le riprese ginecologiche e i dialoghi con feti immaginati sono poi troppo vicine ai manifesti dei sedicenti "provita" per spenderci ulteriori parole.

 

Insomma tutto torna. È un discorso paternalista, che spaccia le donne come povere vittime indifese e incapaci non solo di difendersi, ma anche di prendere decisioni - giuste o sbagliate - sulla propria vita. Ancora una volta assistiamo all'ennesimo sguardo maschile che vuole raccontare l'esperienza di donne vere o immaginate, reali o simboliche, contribuendo a creare un immaginario sessista e misogino in cui di fatto si reitera l'assunto che le donne sono inconsapevole carne da vendere e non hanno alcuna capacità di scelta o, in altri termini, di agency, totalmente in balia della volontà maschile. Inesistenti insomma.

 

Sappiamo bene invece che chiunque sia vittima di qualsiasi atto violento o abuso, non è mai solo una vittima. Il femminismo - anche se fa fatica a trovare una quadra sull'uso del termine vittima - sicuramente ha evidenziato l'importanza del riconoscimento della capacità di mobilitare risorse, della tenacia, delle specificità di ogni singola donna che anche quando vittima, esprime.

 

Le donne vittime/sopravvissute a violenze e abusi hanno una propria personalità, un carattere, dei desideri, hanno fatto e fanno scelte, si prendono responsabilità.

 

Sappiamo che continuare a indulgere in una rappresentazione vittimistica è dannoso e utile esclusivamente a nutrire l'ego di chi vuole salvarle o smarcarsi dalla cultura patriarcale e dal novero degli uomini violenti, "bestiali " (Ritengo le bestie, gli animali non umani, degni di rispetto tanto quanto noi umani; uso il termine "bestiale" perché il film nella rappresentazione data del maschile vuole sicuramente ammiccare al concetto di "animalità incontrollata") e/o insensibili.

 

Non è necessario sottoporsi a queste dueoreequarantasetteminuti di noioso voyeurismo-esibizionismo non consensuale a meno che non vogliate fare esercizio di riconoscimento dei dispositivi narrativi che continuano a invisibilizzare le esperienze reali delle donne.

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