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Abbiamo intervistato il regista di Mortal Kombat (e visto qualche minuto del film)

Ah il grande umorismo della vita, quello che ti colloca a parlare del nuovo film di Mortal Kombat mentre vivi a pochi passi dal cinema con le insegne ormai consumate dal sole dove hai visto il primo. Sì ok sei chiuso in casa, si ok pure il cinema è chiuso e oddio speriamo riapra, ma siamo sempre nell’umorismo di cui sopra.

E dunque un nuovo Mortal Kombat, pensato per chi aveva visto il primo e magari oggi ne approfitterebbe per vederlo coi figli, d’altronde pure i protagonisti hanno figliato (persino loro e tu no, ah!) e che ovviamente non può essere un film degli anni ’90, tutto techno e gente che va in overacting, no dev’essere serio.

E quello che ho visto qualche giorno fa in esclusiva è senza dubbio questo, un film serio, pettinato, fotografia giusta, color correction da pranzo di gala. Scorpion che fa il bravo padre di famiglia e va a prendere l’acqua al pozzo per moglie e figlio, anzi per tutto il villaggio, pure quelli vicini. In un contesto da Giappone feudale in cui il buon guerriero si ritira dopo le fatiche.

Poi arriva Sub Zero e tutto diventa una sinfonia di schiaffi, rampini e combattimenti coreografati al millimetro. La scena è inquadrata bene, gli attori, ovviamente, adatti al ruolo, l'esito incerto e la coreografia perfetta. C'è qualche momento più esagerato, anche perché parliamo di Subzero, ma tutto sembra pensato per trattenersi in vista del dopo, un dopo che spero di vedere ad aprile e in cui so già esserci personaggi che non si sono visti nel trailer.

Nel frattempo, questi primi 13 minuti sembrano confermare i sentori del trailer: meno esagerazione, più voglia di fare bei combattimenti realistici con pochi momenti di fantastico calibrati in una miriade di mazzate. Diciamo che se è tutto così per me possono anche aprire bocca senza dire niente nelle fasi di dialogo e me lo vedrei comunque, anzi, possono anche non parlare per tutta la durata del film.

Passa qualche giorno e mi ritrovo faccia-a schermo-a faccia con il regista di Mortal Kombat, Simon McQuoid, alla sua prima esperienza con un lungometraggio dopo anni di clip e spot.

E che non gliela fai qualche domanda? Ovvio, ecco qua che ci siamo detti.

Mortal Kombat è una saga che porta con sé un sacco di materiale, sia visivo che narrativo, cosa vi ha ispirato di più?

Onestamente non abbiamo preso molto dai film, forse niente. Penso che il gioco si sia evoluto molto rispetto ai primi film, anzi parliamo solo del primo, il resto è meglio dimenticarlo. I personaggi e l’essenza sono quelli ma volevamo fare un film con un tono differente. Si capisce fin dal trailer. Ovvio che ci sono elementi di humor, ma anche una certa gravitas per leggi che governano questo universo. Ciò che ho detto a tutti durante la produzione è che dovevano trattare Mortal Kombat in modo diverso, come una saga di libri in cui il primo era il primo videogioco. Non volevo cadere nelle trappole tipiche dei videogiochi che diventano film, volevo sfruttare bene l’enorme fonte narrativa del gioco e il paragone coi libri mi aiutava a far capire il tipo di approccio che chiedevo.

Con quale spirito ti sei avvicinato alle scene di combattimento? È un film tratto da un videogioco che vuole essere anche un film di arti marziali o viceversa? Conta di più l’adattamento o il combattimento?

Beh quando vai alla fonte di Mortal Kombat il suo DNA è quello di un qualcosa legato ai combattimenti. Ovviamente c’è tutto un mondo attorno che è comparabile a quello di un grande film fantasy, non voglio nominarli per evitare paragoni impropri, ma in ogni film fantasy ci sono molte scene d’azione, mondi paralleli, magie. In Mortal Kombat c’è tutto questo e merita rispetto, merita una messa in scena e un progetto che sia adeguato alle dimensioni di questo universo narrativo. Dunque, ho pensato che fosse importante essere fedeli dal punto di vista stilistico, dovevamo essere brutali e realistici.

Sapevamo di essere in competizione con ottimi film di arti marziali, quindi dovevamo creare qualcosa di spettacolare, viscerale e potente. Un altro aspetto importante è stata la varietà, non volevo che i combattimenti fossero troppo simili tra di loro. Anche l’approccio alle Fatality è stato importante. Non potevamo inserire tutto, altrimenti avremmo avuto un rating assurdo e il tono sarebbe stato eccessivo. Abbiamo cercato di usare quelle che avevano senso per i personaggi e dal punto di vista narrativo, cercando di bilanciare il gusto per il divertimento, senza sconfinare nel ridicolo.

Il primo film era un manifesto degli anni ’90: era camp, era assurdo, era pieno di musica da discoteca ed era pensato amando il gioco ma senza prendersi troppo sul serio. Chi andrà a vedere il nuovo Mortal Kombat probabilmente è andato a vedere quel film e adesso ha dei figli e una vita completamente diversa, magari cercherà quella stessa emozione o forse no. Tu più volte hai evidenziato il tuo rispetto per il materiale originale, l’attenzione che ci stai mettendo e l’approccio concreto. Pensi che sia anche un segno di quanto sia cambiata l’importanza dei videogiochi negli ultimi 30 anni nel panorama dell’intrattenimento?

McQuoid: Assolutamente sì. Personalmente rispetto moltissimo i videogiochi, pensa all’incredibile capacità di narrazione di The Last of Us 2, sono videogiochi che sono meglio di alcuni film. Cerco tuttavia di non fare troppe comparazioni perché videogiochi e film hanno bisogno di ingredienti differenti e spesso si fa l’errore di guardare solo alcuni elementi per metterli a paragone e non funziona così. Gioco e ho giocato, la mia ultima esperienza è stata Journey, quindi so bene cosa accade nel cervello di chi lo fa, conosco quella voglia di tornare in un mondo che ti attrae, in cui senti di essere totalmente calato. Ricordo di aver avuto sogni legati ai videogiochi!

E sì certamente gli spettatori di oggi sono gli stessi di un tempo e forse oggi sono più portati a vedere una versione più brutale, più autentica dei combattimenti. Cioè che voglio forse è cercare un certo senso di giustizia per i videogiochi, per il modo in cui vengono trattati. Voglio rendere qualcosa di incredibile… credibile e rispettarlo. Ecco perché ho cercato di girare più scene possibile sul posto e non appoggiarmi quando possibile agli effetti speciali, di renderli meno invasivi. Volevo ottenere la sensazione che si ha giocando: tu credi a ciò che stai vedendo, sei emotivamente connesso, voglio che guardando il film lo spettatore non pensi “è un film, è un videogioco, è un film tratto da un videogioco”, voglio solo che sia connesso con ciò che sta vedendo”

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