Quando vi ho parlato di Wakanda Forever vi ho parlato di una mancata attenzione verso il popolo del Wakanda stesso, una sorta di piccolo tradimento verso quello che era stato il grande lavoro fatto con il primo Black Panther e la fierezza della cultura del suo popolo: ovvero la maestosità di rimanere attaccati alla propria radice, la regalità di secolari generazioni che hanno forgiato l’identità di un popolo intero. Se in Wakanda Forever mancava, l’ho ritrovato abbondantemente in The Woman King e una volta finito ho visto tramutarsi l’accostamento memetico in un paragone ben più che sensato, direi quasi schiacciante, la stessa Viola Davis - del resto - ha ringraziato Black Panther per l'esistenza del film, e la ragione vi sarà evidente.
Aiuta il fatto che il film sia basato su eventi reali, o meglio lo sia nel proporre il regno del Dahomey durante lo schiavismo occidentale e in lotta con gli Oyo. Entrambi trattano o hanno trattato con gli schiavisti in una certa misura ma, nei due schieramenti, è quello degli Oyo a essere il più feroce e tirannico nei confronti del Dahomey. The Woman King si apre proprio nella reazione al rapimento di alcuni cittadini del Dahomey da parte degli Oyo: l’invio delle guerriere amazzoni che sono realmente esistite al tempo.
Alcuni esploratori del 1800 riportano di un corpo scelto di donne che fin dalla tenera età venivano addestrate all’arte della guerra, tanto da stupire per le loro fattezze mascoline con cui loro stesse finivano per definirsi, tanto da equipararsi a dei fabbri che plasmano il proprio corpo per diventare “uomini”. Mettendo nel contesto tale affermazione, le amazzoni del Dahomey dimostravano forza, risolutezza e spirito di sacrificio, elementi che il film azzecca in pieno nel rappresentare le protagoniste della vicenda, capitanate da Viola Davis nei panni del generale Nanisca agli ordini del re Ghezo (John Boyega).
La trama del film si focalizza unicamente sul corpo in questione dal punto di vista di una nuova arrivata in tenera età, la quale segue tutti i riti d’iniziazione e finisce per unirsi prematuramente alla vendetta contro gli sgherri di Oyo e gli schiavisti portoghesi in un tripudio di lotte contro la violenza sessuale, la tratta degli schiavi e il razzismo. Salvando qualche plot twist qui e lì, il fil rouge di The Woman King è classico come il più classico dei film a sfondo storico e questo a mio giudizio è innegabile, ma è giusto ridurre tutto il suo valore a una trama semplice ma funzionale? Assolutamente no, The Woman King è molto di più.
Il film è sorretto dai suoi ben strutturati personaggi, capaci di raccontare spaccati e ideali in poche scene a testa. Ogni membro delle amazzoni messo davanti alla telecamera dalla sceneggiatura finisce per influenzare la crescita della protagonista e nel farlo, proprio perché insegnanti o compagne, finiscono per aggiungere tessere al puzzle culturale dietro il recluso spazio delle amazzoni. Si crea un microcosmo di emozioni e tradizioni che viene comunicato con naturalezza sia nella lotta che nel riposo, c’è rispetto della provenienza di questo spaccato storico, c’è accuratezza dietro quella leggera patina da Hollywood che rende alcune cose inevitabilmente moderne. Più e più volte ho avuto l’impressione che il film non volesse comunicare molto a me, maschio bianco, ma allo stesso tempo ne riuscivo a riconoscere il valore assoluto della sorellanza sullo schermo, dell’affetto che il dolore finisce per forgiare nella necessità e di quanto il sacrificio per la libertà comporti abbandonare una fanciullezza che forse non c’è mai stata.
The Woman King è tutt’altro che banale o stantio, lo è per chi è vecchio e gli sta bene che le culture africane vengano solo spettacolarizzate nei supereroi, tutto il resto è una rappresentazione caricata e anche sbagliata no? Non sta a noi giudicare, né a me se è per questo. Tuttavia il cast ce la mette tutta per sfondare la barriera universale e far arrivare le emozioni quando devono, anche straziando in alcuni momenti. Questo riesce solo attraverso una costruzione che alterna fasi dove c’è spazio per sentirsi inclusi nei quartieri di queste fiere Agojie, momenti in cui anche lo spettatore viene a conoscenza di segreti dolorosi con una naturalezza che disarma e ferisce, tanto da far calare il silenzio. Cicatrici e traumi sono mostrati senza filtri proprio come lo sono i segni materiali sui corpi nudi delle donne nel cast, mai completamente coperte e scudate dalle loro vicende passate quanto basta per darsi il coraggio di prendere le lame senza armatura, metaforiche o reali che siano.
Certo, The Woman King segue un percorso prevedibile, la fine la sappiamo fin dall’inizio e il nome del film è per sé un attestato di quello che deve essere il corso del personaggio principale. È come ci si arriva però a fare la differenza, è l’intensità del cast che viene fuori nelle ordalie dei personaggi a farmi credere che film del genere non li fanno quasi più nella società dove il dolore, perfino per la morte di un re, figlio o fratello non ha conseguenze anche dopo il suo superamento e i sottotesti culturali finiscono nella caciara delle botte.
L’unico vero neo che mi sento di indicare è una decisa e palpabile forzatura di una storia d’amore che sembra essere incastrata a forza come un pezzo di un gioco a forme per bambini messo palesemente fuori posto. E infatti il sentimento è esplorato solo nella privazione dello stesso per poi espletarlo senza troppa resistenza, mischiandolo a un pentimento di cui avremo potuto fare a meno. Concentratevi solo sulle Agojie dunque, perché uno spettacolo del genere merita di essere testimoniato e tramandato a generazioni che non appartengono di certo alla nostra o alla precedente, che ancora pensa di pontificare sull’intensità di una cultura che non è di sua appartenenza.