L’altro giorno stavo giocando a Slay the Spire. In realtà gioco spessissimo a Slay the Spire, per cui non è strano che ci stessi giocando anche l’altro giorno. Più strano è che a un certo punto abbia mollato tutto per correre sullo store Nintendo, dove, preso da un raptus insiegabile (o spiegabile con il fatto che poco prima avevo letto un articolo a riguardo), ho acquistato Streets of Rogue.
Streets of Rogue è un gioco divertentissimo pieno di esplosioni e gorilla, e mi ha fatto venire voglia di tornare a giocare a Slay the Spire. O per lo meno mi ha fatto riflettere sul caso, sulla randomizzazione, sull’RNGesù, il capriccioso dio dell’informatica che ti restituisce solo risultati a caso e se è in vena di dispetti ti rovina la giornata.
Parto dall’inizio. Streets of Rogue è Deus Ex virato GTA delle origini, o se preferite Smash TV in versione immersive sim. Racconta la storia di The Raid, in sostanza: c’è una città costruita a lasagna (parole del gioco) con i poveracci in fondo e i ricchi che vivono ai piani alti, e in cima c’è il cattivissimo Sindaco, che ha ottenuto il potere grazie a vuote promesse elettorali e svariati episodi di corruzione e violenza. C’è poi la Resistenza, uno squinternato gruppo rivoluzionario che recluta continuamente nuovi volenterosi che vengono prontamente spediti nel tritacarne con il compito di arrivare in cima alla città e uccidere il Sindaco. Tutto questo significa che, come in The Binding of Isaac e Nuclear Throne ed Enter the Gungeon e un milione di altri sparacchini visti dall’alto e con le robe casuali usciti negli ultimi lustri, si parte dal basso e si sale di piano in piano, corrompendo, irretendo, minacciando, rubando, trafugando, raccontando barzellette o massacrando ogni cosa che si muove.
Come quel gioco là citato nel titolo (Rogue, non Streets, che è invece un bellissimo disco dei Savatage), anche in Streets of Rogue funziona che morire significa ricominciare da capo e ripartire da zero. Come gli epigoni moderni di quel gioco là, però, morire significa anche accumulare risorse e sbloccare l’accesso a nuovi giocattoli, per non lasciare il giocatore con la sensazione di aver sprecato il suo tempo. E infine, come Deus Ex e Prey e Thief e System Shock, il risultato finale di ogni partita (= uccidere il Sindaco) si può ottenere in una miriade di modi diversi e inaspettati.
Streets of Rogue è un gioco di sistemi, di ingranaggi che funzionano in un certo modo se lasciati agire liberamente e che, se incrociati con altri ingranaggi, possono dare vita a risultati inaspettati e imprevedibili. È il genere di gioco per cui un pacchetto di sigarette è un bonus per chi lo fuma, ma si può anche accendere dentro il condotto di areazione di un edificio per intossicare tuti i presenti. È il genere di gioco dove puoi versare dell’acqua per terra, gettarci sopra una buccia di banana, attirare un robot assassino, farlo scivolare sulla buccia di banana, gettare qualcosa di elettrico nell’acqua per friggerlo sul posto. È il genere di gioco dove c’è una pozione che ti trasforma in un gigante e dove gli scienziati pazzi tengono i gorilla nelle gabbie e liberarne uno significa farsi un amico con i pugni giganti.
È come una scatola di Lego, che regala nuovi pezzi al giocatore a un ritmo costante: sfasciare bidoni della spazzatura e scassinare cassaforti non è solo divertente ma consigliato, perché dentro il bidone potrebbero esserci dei soldi e dentro la cassaforte una nuova arma.
Ed è qui che torno (tra un attimo, giuro) a Slay the Spire, e all’unico grande inghippo di Streets of Rogue. Che non è solo suo, intendiamoci: sempre in questo periodo è uscito il simpatico RAD, una storia postpostapocalittica ambientata in un mondo rimasto fermo agli anni Ottanta e dove l’elemento di casualità è rappresentato dalle radiazioni della terra post-atomica, che mutano gradualmente il protagonista e lo trasformano in un orrido ibrido tra un uomo e un bonus dei videogiochi.
Ecco, nonostante le superficiali somiglianze con il re incontrastato del genere (The Binding of Isaac), anche RAD soffre dello stesso problema che piaga Streets of Rogue. E credo che il nodo della questione stia tutto nella differenza tra caos e caos controllato.
Streets of Rogue e RAD hanno imparato più di una lezione non solo dai classici del genere, ma anche da Diablo e da un certo stile di design che con un termine orrendo potrei definire “loot-centrico”. E cioè: diamo un sacco di roba al giocatore, sempre, ogni due passi, e lasciamo che sia il caso a scegliere se questa roba è utile e trasformativa o è solo l’ennesimo minuscolo pezzo di Lego. Streets of Rogue trabocca di roba da raccogliere, senza alcun riguardo per la logica: una cassaforte potrebbe contenere una nuova arma, una misteriosa siringa oppure cinque dollari, e un bidone della spazzatura potrebbe essere pieno di cibo (utilissima e rarissima fonte di cura) o nascondere solo tre stronzissime monetine.
L’impulso è quello di sfasciare tutto nella speranza di beccare qualcosa che dia una spinta alla run, il che significa che i primi due/tre piani sono sempre meno divertenti partita dopo partita: il rush di adrenalina che ti regala aprire finalmente una cassaforte che hai impiegato dieci minuti a raggiungere scema un po’ ogni volta che la ricompensa è solo l’ennesimo MacGuffin. Vale lo stesso per RAD: lo stesso contenitore potrebbe contenere un preziosissimo dischetto (l’equivalente di una “chiave per il dungeon” di Zelda) o una noiosissima cassetta (l’equivalente dei soldi), il che spesso spinge il giocatore a rinunciare a un combattimento o a esplorare una caverna perché la ricompensa potrebbe non essere all’altezza.
Il confronto con Slay the Spire (eccolo!) potrebbe sembrare ingeneroso, eppure il meccanismo di base che regola la crescita del personaggio è sempre quello: ogni incontro regala una ricompensa, e ogni ricompensa è casuale e incoraggia il giocatore ad adattarsi alle circostanze. La differenza sta nel modo in cui il giochino di carte regola il caos: ogni elemento generato casualmente (le tre carte tra cui scegliere alla fine di ogni combattimento, le pozioni, le potentissime reliquie, gli eventi casuali) viene pescato da un pool limitato di possibilità, che riduce la casualità e incoraggia una conoscenza approfondita degli elementi in gioco.
Immaginate che ogni bidone della spazzatura di Streets of Rogue e ogni cassaforte di Slay the Spire sia una slot machine: nel primo caso il premio potrebbe essere qualsiasi cosa, dal seme di mela alla nave spaziale, e la sua natura è interamente lasciata nelle mani del motore di gioco; nel secondo caso la scelta è tra un numero limitato di elementi, tutti costruiti per avere sinergie più o meno forti tra loro: la responsabilità della scelta ricade a quel punto sul giocatore, e ogni scelta innesca una catena di azione-reazione che riverbera per il resto della partita. In Slay the Spire l’elemento di casualità diventa manipolabile in una certa misura, e la bravura del giocatore sta nel tenere sotto controllo l’RNGesù, non abbandonarsi mollemente tra le sue braccia.
Ripeto che il paragone tra i due giochi potrebbe sembrare ingeneroso o fuori luogo, il mio punto è che questa nozione di caos controllato e controllabile è quella che sta alla base dei migliori “giochini casuali generati proceduralmente” di questi anni. Isaac, per esempio, che da solo sarebbe meritevole di un saggio di approfondimento, riconosce l’importanza della gerarchia nella distribuzione di ricompense, qualcosa che a Streets of Rogue manca quasi completamente. Tutto in Isaac (se non lo conoscete, è quel gioco dove un bambino spara le sue lacrime per uccidere cacche e tumori) è casuale, ma a differenti livelli: da un lato ci sono monete, bombe, chiavi e altri oggetti, diciamo così, di bassa qualità, che possono comparire in qualsiasi momento e in ogni stanza e la cui presenza o assenza è regolabile solo in minima parte dalle azioni del giocatore.
Dall’altro ci sono gli oggetti di valore, quelli che si trovano (generalmente) in stanze speciali, che possono essere bonus permanenti, mutazioni del personaggio, nuovi tipi di proiettili o altre balordaggini e possono da soli cambiare il volto di una run. Dividendo e gerarchizzando le ricompense casuali, Isaac fa sì che ogni stanza del tesoro, anche alla tremillesima-e-rotti partita, sia un’esperienza significativa, e potenzialmente, con la giusta combinazione di elementi, possa dare vita a qualcosa di mai visto prima. E, ancora una volta, la conoscenza del sistema e del (ampio ma limitato) spettro di possibilità entro cui si muove ogni metaforico tiro di dado permette al giocatore di manipolare e tenere a bada l’RNGesù.
Questa gerarchia del caos è il (mica tanto) segreto dietro a tutti i migliori roguelite (sigh): Enter the Gungeon e Nuclear Throne hanno seguito la strada di Isaac, Spelunky sfrutta una struttura da tipico gioco d’avventura (con tanto di negozi dove comprare gli oggetti migliori del gioco), più di recente c’è stato Dead Cells che ha la sua forza nelle sinergie e nella conoscenza di certi punti di riferimento fissi all’interno del caso. E al contrario alcuni dei rappresentanti recenti più interessanti del genere (Unexplored, Tangledeep, Below) perdono un po’ del loro mordente nel momento in cui si abbandonano al caos più sregolato e puntano sull’effetto slot machine, sulla compulsione a raccogliere tipica del videogiocatore medio.
E sì, mi rendo conto che può sembrare un’assurdità sostenere che il caos migliora se ha più regole. Ma ehi, è così.