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Stray: quando un miagolio non basta

Qualche giorno fa come tanti avevo il DualSense in mano e vomitavo palle di pelo mentre, premendo cerchio, facevo miagolare un piccolo gatto arancione alle prese con l’avventura della sua vita.

Come molti ho fatto foto, ho registrato video e li ho condivisi con amici con tanto di “ohhhhh! Checcarino” mentre continuavo a rifarmi le unghie sul divano di turno. Bello, tutto molto bello: il gatto c’è, il mondo c’è… manca il gameplay. O meglio, c’è qualcosa di appena abbozzato per tutta la durata dell’avventura e c’è qualcosa di timidamente più strutturato in un paio di sezioni che, senza nessuna sorpresa, rappresentano la parte migliore della produzione.

Non mi dilungherò ulteriormente su queste sezioni anche perché sono così breve e concise che se le descrivessi vi avrei derubato dell’unica cosa realmente di valore all’interno del titolo di BlueTwelve Studio e pubblicato da Annapurna.

Voglio, invece, concentrarmi sul resto. Su tutto quello che non funziona ma che, in un modo piuttosto criptico riesce a non farti sentire il suo peso nell’economia dell’avventura.

Sì, certamente la durata estremamente ridotta di Stray contribuisce a non farti avvertire, pad alla mano, i suoi enormi limiti e la bellezza tremenda del suo mondo di gioco riesce a tenerti incollato nascondendo sapientemente tutto quello che non va.

Ma è appena appoggiate il pad sul tavolino che Stray vi soffocherà con tutta la sua estrema sufficienza (quindi finitelo in un’unica sessione altrimenti poi è difficile tornarci) riportando alla memoria quella Night City che in tempi non sospetti ha avuto lo stesso identico impatto sul pubblico.

Cyberpunk 2077 metteva in scena un’ambientazione pazzesca, ricca, dettagliata, viva dimenticandosi però del giocatore, quasi come se questo fosse una semplice parte di una scenografia mai utilizzata a dovere.

Night City aveva poche, pochissime, iterazioni: un quadro da guardare da lontano senza potersi avvicinare troppo in cui V ha vissuto il suo “piccolo” dramma. Noi lo abbiamo seguito, lo abbiamo apprezzato (ho apprezzato davvero Cyberpunk 2077 al netto di tutto) ma l’amaro in bocca è qualcosa che ancora oggi si fa fatica a digerire.

Stray fa la stessa cosa ma lo fa in maniera più intelligente, partendo dalla durata contenuta e finendo al suo peculiare protagonista che fa da reale collante fra il mondo virtuale e quello sul divano su cui stiamo giocando.

Il gatto è la “raison d’etre” dell’intera produzione: le azioni feline, il musetto carino, le interazioni (seppur contenute) con il DualSense sono letteralmente fantastiche e, in un certo senso, si sposano perfettamente con quanto costruito.

Il mondo è disegnato anche per un gatto e il grado di soddisfazione nel “gattare” in giro è realmente palpabile ma, come si diceva in apertura, tutto nasce e muore sullo strusciarsi sulle gambe di un androide.

Luca Annunziata
Coltivavo una notevole aspettativa rispetto a Stray: era un titolo che m'aveva affascinato moltissimo durante lo State of Play in cui era stato presentato, mi sbilancio addirittura nel dire che era uno dei titoli per il quale ho comprato una PS5. Ci vedevo un'enorme possibilità: un open world da esplorare da un punto di vista unico e originale, e molto mi aveva incuriosito quanto era stato mostrato in un appuntamento Sony successivo in cui era stato mostrato parte del gameplay. Purtroppo quel che ho visto, una volta che il gioco è uscito, è una frazione da quanto mi aspettavo: chiariamoci, mi sono divertito moltissimo nelle 5 ore pulite pulite che mi sono servite a terminare la campagna. Ma perché si ferma tutto qui? Sarebbe stato bello avere più possibilità di esplorare il sottosuolo, certo, ma anche banalmente poter continuare a girovagare liberamente una volta completata la trama principale. Senza contare che, come dice Salvatore, quanto il gioco ti permette di fare è una frazione di quanto un gatto farebbe nella realtà. Mettiamola così: sono felice che alla fine Stray sia arrivato nel pacchetto Extra di PlayStation Plus. Sborsare 27 euro, quanto costa il titolo su Steam, una volta giocato mi avrebbe indispettito non poco.

Stray mette in scena un mondo che, senza mezzi termini, è fantastico: un futuro post-apocalittico e cyberpunk fatto di epidemie, scienziati, creature create in laboratorio e computer senzienti. Funziona tutto, dalle piccole storie di ribellione in una società fatta ormai solo da androidi alla grande storia di B-12 che ci accompagna nella nostra epopea felina.

Quel che non funziona è lo spreco, assolutamente ingiustificabile, di un mondo simile: le interazioni non solo solo ridotte all’osso ma non ci sono proprio. Come detto si può fare il gatto, ma fare il gatto non ha nessun impatto (tranne che sul finale) su quello che accade attorno a noi.

Farsi le unghie sul tappeto di una casetta, miagolare o sonnecchiare su un cuscino non ha assolutamente nessun valore nell’economia del mondo di gioco che continua a farsi i fatti suoi mentre noi interagiamo con lui.

Il che è assolutamente funzionale alla natura del protagonista: un gatto non ha nessun valore in un mondo del genere, nessuno fa caso alle sue azioni. È giusto, fa parte del pacchetto che BlueTwelve Studio ha messo in scena per nascondere il resto e non subire l’effetto Night City durante la sessione di gioco.

Innegabile come, spenta la console, ci si chieda “ma perché?”. Perché sono successe determinate cose? Perché è pieno di edifici non esplorabili? Perché nessuna delle mie azioni al di fuori dello script narrativo non ha valore? Perché se faccio cadere un barattolo di vernice per motivi di storia succede qualcosa ma se lo faccio normalmente nessuno ci fa caso? Perché posso essere un gatto solo a metà?
Già, tutte le azioni feline, miagolio escluso, sono disponibili solo ed esclusivamente in punti fissati: non puoi saltare a piacimento, non puoi usare la zampetta per buttare giù quello che vuoi, non puoi sonnecchiare dove ti pare. Sei un gatto solo quando lo script te lo concede e puoi vivere il mondo come se fossi un androide solo quando il gioco decide che puoi farlo.

Non sei nessuno, sei solo una briciola infinitesimale all’interno di un universo che avrebbe voluto raccontare molto di più ma che si è perso per strada ad accarezzare un gatto.

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