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Sono Solo N3rdate - Storie di GameBoy in spiaggia e scottature

Tutte le grandi storie d’amore all’italiana che si rispettino iniziano al mare. Sotto il caldo Sole di luglio, in gioventù, con la sabbia che brucia il palmo dei piedi e non vedi l’ora di buttarti in acqua.

 

Il mare estivo, si sa, è una tradizione e, come tale, ha i suoi riti. Se per molti la “cassetta degli attrezzi da spiaggia” prevede borsa frigo, sdraiella e tanta voglia di fare nuove amicizie, per chi scrive non è affatto così.

 

Per me, come per tanti altri figli degli anni ‘90, tutto il necessario per potersi concedere una giornata di mare è racchiuso in una scatola di plastica piena di circuiti e chip. Una scatola magica, capace di trasformare altre cassette di plastica in mondi nuovi e meravigliosi. Una cosa così affascinante, nella sua semplicità, da risultare totalmente indispensabile per i momenti di relax.

Ecco, se tutte le storie d’amore che si rispettino iniziano d’estate in spiaggia, tra me ed Il Game Boy è stata passione fin da subito. Una passione che non si è mai spenta, tramutata oggi in un amore smisurato verso una console che non mi ha mai abbandonato.

Di GameBoy e di società

Era usanza comune di molti ragazzi e bambini - e gran parte dei nati negli anni ‘90 in città di mare possono confermare - scendere al mare armati di fumetti, carte da gioco e del Game Boy.

 

Non importava se poi non si sarebbe giocato o letto, l’importante era avere tutto a portata di mano. L’incontro con gli amici del mare iniziava sempre con le stesse frasi. In base alla risposta che davi, venivi definito in una determinata categoria di utente della spiaggia.

Hai portato il mazzo?

A quel punto entravi nel giro dei giocatori di carte. Tutta la mattinata era scandita da scambi, palesi truffe e lotte all’ultimo sangue con regole inventate. Era come giocare in borsa, ma molto più rischioso. Qui il pesce piccolo doveva star bene attento alle sue holo prima edizione di Charizard, Venusaur e Blastoise.

Una caciara totale.

C’ho il cavetto, famo scambi?

La massima espressione della società dei ragazzini al mare. Il cavetto argentato che univa vite umane tra loro. Due individualità che da tali diventavano uno. Era utilizzato soprattutto tra chi giocava coi Pokémon.

 

Nella totale semplicità ci si univa in un compromesso a due, totalmente pacifico, senza rischi. Decisi i termini dello scambio, i dati digitali passavano all’interno dello stranissimo filo ricoperto di gomma e, terminato il tutto, le controparti si congedavano tornando entrambi ai propri ombrelloni.

Eccolo, il momento topico.

Vieni a fare il bagno?

No, manco per sogno. Te lo scordi che vengo a fare il bagno. Ritrovarsi sull’asciugamano, sotto l’ombra, col Game Boy acceso tra le mani era il momento più rilassante della giornata. In pochi ritraggono questa scena, forse perché diffusa quasi esclusivamente sui litorali laziali e toscani. Giocare ai videogiochi sotto l’ombrellone era un’usanza di molti, rimasta un rito per alcuni.

 

Come detto sopra, quello col Game Boy era un rapporto d’amore. Sotto l’ombrellone, nel tuo totale disinteresse per i discorsi degli adulti, avevi l’occasione di ritagliarti un momento tutto tuo. Per molti poteva sembrare asocialità, ma per te era semplice amor proprio.

 

La sfida principale era certamente quella di rincorrere l’ombra. E’ praticamente impossibile giocare al Game Boy sotto la luce del sole pieno così come lo è farlo al buio. Ma è proprio quello schermo senza retroiluminazione, incastonato in una cassa di plastica colorata, con un odore inconfondibile, ad averci fatto innamorare.

Game Boy al mare ed i 5 sensi

Il GameBoy al mare era un mix di sensazioni tutte diverse tra loro. Il semplice suono che emetteva l’interruttore quando - generalmente col pollice, ma anche con l’indice - lo si spostava da off a on era qualcosa che oggi metterei nelle cuffie a ripetizione per addormentarmi.

 

Era una successione di sensazioni perfettamente incastrate tra loro. L’interruttore scattava, emettendo un suono meccanico ma delicato; subito lo schermo si animava e trasmetteva il logo “Game Boy”, emettendo un altro suono, breve ma intenso. Un suono che ricordiamo tutti, perché rimasto uguale su tutte le discendenti della serie "Game Boy".

Ma l’esperienza di giocare al Game Boy al mare era anche una sfida per gli occhi. Aguzzare la vista per mettere a fuoco tutto ciò che era presente sullo schermo era puro intrattenimento. Un lavoro di decifrazione minuziosa delle immagini che, sotto il sole, difficilmente apparivano chiare.

 

Era bello - e lo è ancora - tutto questo, solo e soltanto unito all’odore del mare misto a quello della plastica riscaldata dalle mani che la stringevano. Oh, se la stringevano. Quando si gioca al Game Boy, solitamente, mentre i pollici sono impegnati tra pad direzionale ed i tasti A e B, le dita si incontrano sul retro, poco sopra il vano delle batterie, dove si trova la tipica etichetta di garanzia grigia.

 

La posizione delle mani ricorda quella delle persone che pregano, ed è giusto così. Come detto, quando si gioca al Game Boy al mare, ci si sta dedicando del tempo. E dedicarsi del tempo è sacro quanto la preghiera religiosa.

Il culto del Game Boy al mare

Tutte le storie d’amore hanno inizio d’estate al mare. Lo ripeto all’infinito, perché è vero. Ne sono testimone diretto perché il mio fedele compagno di viaggio con scocca viola trasparente - lo svergognato ha tutti i circuiti in vista - ha ancora una tasca tutta sua in ogni zaino che utilizzo.

 

Che sia per viaggiare, per andare a lavorare oppure - scontatissimo - per andare al mare. Certo, oggi le meccaniche sono diverse da tanti anni fa. Nessun ragazzino ti accoglie in spiaggia con le solite domande; non c’è una comunità solida alle tue spalle, non c’è l’intenzione di passare il tempo a distrarsi dagli argomenti dei grandi.

 

Oggi portare il Game Boy al mare, veicolo delle stesse identiche sensazioni di quindici anni fa, ti identifica come persona. A nessuno frega davvero nulla se sfoderi il Game Boy, ma tu sai di far parte di una generazione precisa, nata e cresciuta sugli stessi sacri riti.

 

Il fatto di condividere idee, gestualità, storie ed emozioni con tantissime altre persone è qualcosa di fantastico. Se ci pensate un attimo, è un’aggregazione totalmente spontanea. Una tribù fatta di pochi superstiti che non si conoscono nemmeno tra di loro. Una tribù i cui componenti sono accomunati irrimediabilmente dalla stessa storia, gli stessi interessi, la stessa età. Tutto grazie ad un aggeggio composto da fin troppa plastica per essere accomunato al mare - questo dovevo sottolinearlo, prima o poi.

 

Proprio come in una setta, portare il Game Boy al mare ti inquadra in uno schema comportamentale ben preciso.

 

Scendi in spiaggia e ti sistemi. Pianti l’ombrellone - che non manca mai, per ovvi motivi - sistemi le borse e stendi i teli.

Un po’ di riposo, magari una pennichella veloce e, una volta ambientato, si può iniziare. Nei momenti vuoti, quelli più noiosi, puoi scappare facilmente, azionando l’interruttore grigio scuro in alto a destra.

 

Una macchina del tempo, che di fatto è come portarsi un tempio sacro sempre in tasca. I sensi stimolati sono gli stessi di una volta, ma oggi hanno un sapore tutto diverso.

 

Il suono dell’interruttore ti ricorda di quando eri bambino; il *blink* della schermata del logo ti fa sentire a casa.

 

C’è un rito, poi, che si ripete sempre uguale. La tecnologia avanza, fa cose incredibili, ma questo gesto non muore mai: soffiare dentro le cassettine che non partono.

È una cosa totalmente inutile, ma funziona. Fa bene all’anima. Se da bambino era un qualcosa che ci rendeva dei veri tecnici della macchina da gioco, oggi con questo soffio deciso buttiamo fuori tutte le nostre tensioni.

 

Ma sì, è come la meditazione. Un soffio e stacchi dal lavoro; un soffio e non pensi più alle responsabilità che hai; un soffio, e si aprono mondi da esplorare, non più nuovi, ma sempre accoglienti. Un soffio e sei a casa tua.

 

The Legend Of Zelda - Link’s Awakening

In cima alla lista dei giochi più significativi per la mia crescita di giocatore, c’è sicuramente questa perla antichissima.

Uscito nel ‘93, ma arrivato tra le mie mani molto tempo dopo (intorno al 2000), questo RPG dalla durata di circa cinque ore mi ha rapito dall’inizio alla fine.

 

Tanta esplorazione, nonostante la scarsità di oggetti nascosti da trovare, condita con una storia semplice ma capace di stupire con dei colpi di scena inaspettati.

 

Lo ammetto, ci misi molto più di cinque ore per completarlo. Vuoi l’inesperienza, vuoi che ero in possesso di una copia francese del gioco, proseguire non era affatto semplice. Però ho imparato un po’ di francese.

 

È per colpa di questo titolo se, oggi, mi butto a capofitto su ogni nuovo Zelda che esce. Se riuscirono a sfornare un vero capolavoro con quel poco che c’era ai tempi, è giusto dargli fiducia ancora oggi.

Link’s Awakening è il giusto mix tra partita chill e dungeon impossibile da completare, con una trama che intrattiene e non stanca mai, nemmeno dopo l’ennesimo replay.

 

Con questo gioco imparai l’arte di osare, di esplorare e quella di dar sfogo alla curiosità. Fu così che scoprii la meccanica delle galline che ti attaccano in massa - ahia!

Pokémon Versione Oro

Un gioco immenso. Forse il migliore della serie Pokémon. Seguito di Rosso e Blu, l’avventura ambientata nella regione di Johto ha totalmente condizionato i miei gusti di videogiocatore.

 

Ancora oggi non riesco a stare lontano da qualsiasi monster collector che mi venga proposto. Anche il più palesemente ispirato ai mostri tascabili. Soprattutto quelli pixellosi - senza nulla togliere alle rese moderne.

 

Doppia regione, doppio Pokédex, doppi Capipalestra e tante meccaniche nuove. Nella stessa generazione - in Pokémon Cristallo - venne introdotto il genere femminile per il personaggio principale. In questa versione (Oro e Argento) la differenziazione si limitava ai Pokémon.

 

Era fantastico far accoppiare i mostriciattoli alla pensione, schiudere le uova e trovare i cromatici - ciao, Gyarados rosso. Il mondo di gioco, poi, era variegato e ben caratterizzato. Johto è una regione che sprizza leggenda da tutti i pori, ed ogni suo angolo lo ribadisce con fermezza.

Pokémon era letteralmente un MMORPG ma senza Internet. Tu giocavi da solo, creavi il tuo impero personale e poi, al mare, grazie al cavetto Link scambiavi e lottavi con altri Allenatori. Era un ecosistema funzionante che oggi, nonostante l’innovazione tecnologica, ha perso un po’ di fascino.

 

Certo, parla un nostalgico, ma a Pokémon gioco ancora e noto la differenza. È più raro, oggi, ritrovarsi di persona per fare scambi. Con ciò non dico che fosse “meglio prima”, semplicemente il tutto ti forniva un’esperienza diversa.

 

Oggi non posso più giocare ad Oro quando vado al mare. La cartuccia ha la batteria scarica ed i dati sono totalmente persi. Rimane in camera in una teca - meritato riposo.

Un GameBoy al mare, ecco chi siamo

L’anthem di una generazione. Il rito religioso di una setta di appassionati videogiocatori. Un simbolo della gioventù felice che si è vissuta. Il Game Boy al mare siamo un po’ tutti noi.

 

Nel corso dei suoi studi sulla definizione di cultura, la sociologa Wendy Griswold arrivò alla definizione degli oggetti culturali. Un oggetto culturale è un qualcosa a cui una collettività ha attribuito un senso, che tutti coloro che fanno parte di quel gruppo riconoscono allo stesso modo. Un significato condiviso, incorporato in una forma ben specifica.

 

Coloro che riconoscono questo significato condiviso, sono individui che riconoscono loro stessi in una medesima cultura. Ecco, il Game Boy può essere considerato un vero e proprio oggetto culturale.

E, perché no, un grandioso compagno per le più afose giornate al mare.

 

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