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Scheletri di Zerocalcare, l'analisi del professore, il vissuto del contemporaneo

30 Septemre 2018, Paris : Portrait du dessinateur italien Zerocalcare à Paris

Zerocalcare, Scheletri: gli intellettuali e la cultura pop

Di Lorenzo Barberis

In un periodo in cui il fumetto sembra ottenere un sempre maggiore interesse culturale dal mainstream, Zerocalcare ha ottenuto una nuova copertina de L’Espresso che, in modo un po’ enfatico, lo presenta come “L’ultimo intellettuale”. Una formula un po’ vuota e generica, che può indicare sia l’ultimo in ordine temporale, cosa su cui si potrebbe ancora concordare, o l’estrema ridotta di una razza perduta, aprés lui le deluge. E questo è forse un po’ eccessivo, sia pure nell’ambito di una classica forzatura giornalistica che, magari, non ci avrebbe stupito troppo attribuita, per dire, a Saviano.

Zerocalcare, che ha fatto dell’understatement la cifra della sua comunicazione, dentro e fuori dai suoi fumetti di autofiction, si è ovviamente schermito nel corso dell’intervista stessa. Come già da lui affermato in precedenza su sollecitazione di Michela Murgia, non si ritiene intellettuale.

 

Inoltre, Zerocalcare non si vede comunque “organico” all’Espresso e alla sinistra istituzionale, da cui lo dividono molti punti: ad esempio la sua opposizione alle politiche – anche del campo progressista - di cui ha parlato appunto ne “La città del decoro”, uscito su Repubblica, e che torna sullo sfondo anche qui (naturalmente, Zero dichiara subito al primo incontro col giovane graffitaro che le sue tag non gli danno alcun fastidio).

Del resto, certo “ultimate”, risolutorio, definitivo è falsante, d’accordo. Ma intellettuale, perché no? Non nel senso falsamente sacrale che ha assunto, ma semplicemente nell’idea originaria, di qualcuno che combatte una battaglia culturale con strumenti principalmente di pensiero, quelli in fondo emersi dal calderone dell’Illuminismo – i giornali, la satira, l’eloquenza nei salotti, l’enciclopedia, i pamphlet – e perfezionatisi nel corso dell’Ottocento.

Come spiega l’ottima voce Treccani a cura di Zygmunt Bauman, un concetto – quello di intellettuale – che trova la sua definizione nello Emile Zola che si fa difensore di Dreyfuss nel caso che per la prima volta contrappone nettamente due schieramenti europei, i progressisti positivisti e i reazionari antisemiti (uno scontro che avrà un tragico seguito).

Non a caso Saviano, il primo nome che veniva in mente come intellettuale letterato di questa ultima decade, ha una sua foto con alle spalle la celebre prima pagina del J’Accuse di Zola, creando una implicita continuity Naturalisti-Veristi-Neorealismo classico che conduce fino a lui. Ma Saviano, appunto, accetta (insieme a ben altri rischi) l’etichetta di intellettuale, e di buon grado.

Chiaramente bisogna accettare che ognuno si definisca come meglio crede: e se quindi Zerocalcare rifiuta l’etichetta, va bene così. Ma a volte l’understatement (che, da piemontese, apprezzo molto, come insegna il Pendolo di Foucault...) in fondo chiede di essere contraddetto, e quindi vediamo perché, se Zero non è un intellettuale, la sua opera in particolare è tutt’altro che riducibile ai “disegnetti” (in un aggiornamento, quasi, della retorica dell’”umile artigiano” che ha una lunga storia nel fumetto).

Innanzitutto, questo “Scheletri” è un’opera con una struttura piuttosto raffinata.

Ancora una volta, lo stile volutamente, sapientemente dimesso di Zerocalcare la dissimula, laddove altri autori, legittimamente, troverebbero il modo di sottolinearlo al lettore.

Però, la parte thrilling, il whodunnit (chi l’ha fatto? Chi sono proprietario e colpevole del dito mozzato con cui si apre la storia?), funziona e crea un incastro tutt’altro che banale, utilizzando flashback, flashforward, ellissi temporali e una abile dissimulazione da prestidigitatore fumettistico con cui Zero ci conduce al colpo di scena finale (che ha un significato anche in relazione a un messaggio “politico” dell’albo: nelle periferie, forze di riscatto e forza che tendono alla distruzione sono inestricabilmente intersecate – anche nelle stesse insospettabili persone).

In second’ordine, “Scheletri” è un’opera apertamente “politica”: un po’ come tutte quelle di Zerocalcare, certo. Ma qui tale dimensione appare più forte, proprio nella misura in cui non vi è alcuna edulcorazione – che, in opere passate, si poteva in parte ancora trovare: a parte il caso ovviamente diverso di Kobane Calling, apertamente dedicato all’intricata questione curda – della complessità e delle contraddizioni delle periferie, Rebibbia e non solo. Il lato oscuro della periferia appariva già in opere come nell’episodio nel volume collettivo “La rabbia”. Qui però si interseca pienamente a una narrazione più ampia, con una durezza maggiore che anche l’autore ha riconosciuto.

Resta poi l’elemento chiave di Zerocalcare, la capacità di raccontare le paranoie di una generazione: in questo caso il passaggio all’università e il conseguente spaesamento, che diviene sempre più angoscioso per il protagonista man mano che si va a impaniare in un insuccesso scolastico che non riesce a gestire.

Zerocalcare racconta questa sofferenza psicologica con notevole realismo e verosimiglianza, cercando anche di far intuire al lettore più giovane un avvertimento chiaro, anche se non didascalico, su come evitare di affondare nelle stesse sabbie mobili: parlare, comunicare, non aver paura di stabilire un dialogo con chi ci sta vicino.

Indicazioni importanti e molto meno banali di quanto sembri, per chi si sa qualcosa di NEET, dispersione scolastica e problemi psicologici correlati, che Zerocalcare ha la capacità di inserire in modo piano, senza retorica, in un contsto non “didattico-educativo” che, però, giunge a un vasto pubblico giovane, tra liceo e anni universitari.

Similmente, “Scheletri” sottolinea in modo analogamente garbato il potere salvifico della letteratura e dell’arte (tutte le arti, incluso il fumetto e il videogame).

Una cosa verissima e che però, di nuovo, scritta nei termini che ho usato appare subito professorale: Zerocalcare la sa mediare a un pubblico vasto e non già catechizzato in modo naturale, senza forzature.

Non è, infatti, un discorso costruito a tavolino, ma un racconto di esperienze personali, variamente rielaborate, dietro cui si intuisce una certa carica di genuinità.

In particolare, in questa sede non possiamo non apprezzare l’elogio delle sale giochi come luogo d’incrocio culturale dove i videogame si incontrano con Truffaut, Svevo, il bushido – e l’eroina e le tute d’acetato, ovviamente.

Un fermento che ricordo in prima persona, in tutt’altra periferia dell'impero, dove similmente quei luoghi fumosi e poco raccomandabili erano però più vitali culturalmente di quelli paludati e ufficiali, più ricchi di stimoli per il me stesso più giovane a varie fasce d’età (il ragazzino ingenuo delle elementari, ma anche lo studente universitario che iniziava ad avere un quadro più ampio). Per certi versi, mi rendo conto che mi mancano anche adesso.

Infine, ma mi sembra quasi superfluo soffermarmi su questo aspetto, quasi il doveroso tributo da pagare all’analisi fumettistica, c’è la padronanza ormai consolidata di Zerocalcare sul suo segno, un segno che ha costruito nelle 3000 pagine che rivendica di aver scritto nella full immersion lavorativa della sua età adulta, con un orgoglio quasi operaistico, quello che traspare soprattutto nelle famigerate, estenuanti sessioni di dedica, senza limiti di tempo e di richiesta, un testardo e orgoglioso spirito da anti-vip che, naturalmente, ha cementato il rapporto con un fandom vasto e ammirato.

Ma su questo, in realtà, c’è meno da dire, perché è il segno che si è solidificato in Zerocalcare in un decennio di approfondimento. Va notato, come al solito, la retorica dell’understatement che è ormai parte della sua narrazione: a partire dalle vignettature sghembe come il lettering (e però entrambi, in realtà, perfettamente leggibili e funzionali), che suggeriscono una in realtà studiatissima approssimazione.

Così è per il segno, apparentemente morbido, molle, e quindi “estivo”, direbbe Pazienza, rilassato: le articolazioni di gomma, senza gomiti e ginocchi (nel fumetto, ironicamente, Zero personaggio si fa sfuggire che deve solo imparare a disegnarli per lanciarsi nel fumetto), l’espressività caricaturale che però sa farsi epica al momento giusto, l’onnipresenza del simbolismo – i rimandi agli anni ’80, asciugatisi nel tempo, e l’eterna allegoria quasi dantesca dei demoni interiori reificati in creature diaboliche perfettamente rispondenti ai tramuti dei loro ospiti.

Insomma, al termine di questa ricognizione, volevo cercare di dimostrare perché Zerocalcare poteva essere, in parte, il nostro intellettuale (nostro, di noi difensori di una inestricabile conciliazione di cultura alta e cultura pop, Leopardi e The Last of Us, asparagi e immortalità dell’anima).

Ma, alla fine, credo di aver capito perché non vuole scegliersi questo ruolo, come non vuole neppure divenire più in generale la coscienza critica di una sinistra ai minimi storici: Zerocalcare ha un suo modo per influire sulla realtà e ottenere una visibilità importante sul mainstream – Repubblica, L’Espresso, la mostra al Maxxi, ma anche in una direzione totalmente diversa la collezione di statuine dedicate ai suoi personaggi.

E questo modo di, se vogliamo, "essere intellettuale" passa per negare di esserlo, per conservare una “street cred” che ha fin qui mantenuto con una autodisciplina che ha dell’ascetismo (non a caso proviene da una cultura “straight edge” che implica un ben determinato rigore etico).

Comunque, magari Zerocalcare non vuol essere il nostro intellettuale, ma al suo giovane vandalo (simile in questo rapporto, in parte, al giovane Blanka cui dà ripetizioni private nelle strip, ma molto più ricettivo e predisposto) mette in mano, guarda caso, proprio Zola, in una delle scene emotivamente più forti per un vecchio docente di lettere come me. Dopo aver detto, testuale, “Io di classici non so un cazzo...”. Certo, Zero. Come no.

Avere 30 anni - Zerocalcare racconta la Generazione Y

di Francesco Tanzillo

Ebbene pare che non si possa evitare di scrivere di Zero e di Scheletri.

Comunico nella chat redazionale di NC, cedendo alle richieste del Boss che mi voleva su di un pezzo che mi vedeva generazionalmente coinvolto e che probabilmente, se il Barberis non mi avesse tolto le castagne dal fuoco trattando della parte più oggettiva dell’ultima opera di Zerocalcare, non so se avrei scritto.

In realtà non apro subito Pages per creare un nuovo documento.
Mi butto sotto la doccia, l’unico angolo di quiete della casa, per raccogliere le idee.

Lì, tra lo shampoo e il bagnoschiuma al burro di karité annaffio l’idea di una narrazione dall’interno, non solo da fruitore del fenomeno ma anche da elemento coinvolto. Non so se funzionerà, ma è una strada.

Non si può parlare di Zerocalcare senza parlare della sua generazione, della Nostra generazione.

Zero non è un fenomeno complesso, risponde alla semplice logica per la quale un prodotto che piace vende.

Nella sua semplicità è interessante notare come questo principio essenziale sfugga alla logica di molti che vorrebbero che un fumetto dichiaratamente indipendente e schierato a sinistra fare parte di una nicchia isolata e un po’ sfigata, l’idea fintamente romantica per la quale un autore sia schivo, dimesso e ignorato dal pubblico che non capisce il vero genio.

Immagine quanto mai fasulla con la quale tendono a proteggere il piccolo recinto dove si ergono a difensori del Fumetto Indipendente Vero.

Il fatto che Zerocalcare piaccia (e quindi venda) dovrebbe essere un elemento di unione piuttosto che di divisione, una bandiera sotto la quale fare fronte comune per quegli ideali e quei valori che autori e lettori condividono.

Zero piace (e quindi vende) perché minimo comune denominatore di una generazione, anzi, di più di una generazione accomunata da passioni che diventano background culturale comune, di un territorio ideale più che geografico, e di uno schieramento politico quando non sfocia militanza vera e propria.

La Sua Rebibbia è più di un quartiere geolocalizzato, diventa nonluogo nell'accezione più ampia del termine possibile, è il microcosmo che vive alla periferia di tutti i centri urbani; presenta stereotipi, personaggi e vita che puntuale si ripete in forme e dinamiche simili.
La sua storia è la nostra storia, raccontata da qualcuno che scardina il problema dell'aneddotica trasformandolo la vicenda in un racconto universale.

I suoi fallimenti e i suoi problemi sono i problemi e i fallimenti che accomunano una generazione di figli che non è ancora sicura di reggersi sulle proprie gambe e che cerca esternamente conferme.

L’Espresso nel dare il titolo di intellettuale a Zero fa vera provocazione contro l’atteggiamento autoreferenziale di cui sono afflitti i “circoletti intellettuali” proverbialmente sempre troppo lontani dal popolo per avere un quadro della situazione concreto e reale.

Atteggiamento di cui anche l’Espresso si è reso colpevole contribuendo a crearli, i circoletti e Zero in copertina come interprete del tempo presente diventa anche l'occasione per riconquistare terreno sul piano popolare.
Gli stessi circoletti ai quali la nostra generazione è estranea come una festa alla quale non siamo stati invitati perché non vestiamo bene, abusiamo del free bar e usciamo troppo spesso in terrazza a fumare.

Il motivo per il quale non riesco a parlare in maniera “seriamente critica” di Scheletri è per il semplice motivo è che il libro sembra venire fuori con una spiazzante naturalezza, o quanto meno, lucidità, una consapevolezza alla quale aspirare come obiettivo per riuscire a mettere ordine nella mia vita e riporre tutto l'irrisolto, gli scheletri, nell'armadio per poterci convivere non dico serenamente, ma almeno in maniera funzionale.

Con Zerocalcare si riconosce intellettualmente non soltanto lui o il genere fumetto popolare indipendente ma un’intera generazione che ha la capacità di produrre qualcosa che sia un prodotto intellettuale nuovo, puro e cristallino, superando la dipendenza di ideali, forme e narrazioni delle generazioni precedenti.

È un attestato di maturità con la quale la nostra generazione afferma di Esistere.

Michele Rech è fallace, imperfetto e perciò realistico.
Non un è santino da adorare post mortem senza che abbia la possibilità di ribattere all’uso che viene fatto della sua opera o del suo pensiero.
Proprio per la sua vitalità ha una naturale ed efficace capacità di intercettare lo spirito di tempi complessi come il presente che viviamo che sì, lo rende a tutti gli effetti un intellettuale, l'ultimo? Questo è un po' presto per dirlo, ma sicuramente quello che allo stato attuale ci rappresenta di più.

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