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Sally Face è il calabrone che non potrebbe volare, ma che lo fa lo stesso

Mi sono imbattuto in Sally Face diverso tempo fa. Credo di esserci arrivato per via di quei percorsi a suggerimenti: se ti è piaciuto Undertale ti potrebbe piacere Yuppie Psycho; se ti è piaciuto Yuppie Psycho… potrebbe piacerti Sally Face. Valutazione su Steam: estremamente positiva.
Mmm, proviamo.

Prodotto e sviluppato da Portable Moose, che è un nome dietro cui in realtà c’è il solo Steve Gabry, Sally Face sta in quel sottobosco di “giochi indie” come appunto Undertale, ma anche Omori o Lisa di cui parliamo con lo stesso affetto, ammirazione e, a essere onesti, spirito elitista di cui potevamo parlare negli anni Novanta dell’album dei Sonic Youth che ci ascoltavamo, almeno nella mia città, in pochi ma molto buoni.
Di cosa parla, per chi non è mai incappato in questo titolo?

Sally Face è, per farla breve, un punta e clicca in apparenza old school come meccaniche. La storia, molto complessa, ci vede nei panni di Sal Fisher, un ragazzino di quindici anni, sfigurato da un incidente terrificante che l’ha costretto a indossare una protesi facciale.
Il gioco ci mette nei panni di Sal dalla sua adolescenza – quando si trasferisce col padre nella contea di Nockfell, in uno strano condominio infestato da fantasmi e demoni – fino a diversi anni dopo, quando si sarà messo nei guai a causa di un terribile evento su cui verrà fatta luce poco a poco.

Per quanto Steve Gabry abbia detto di non aver avuto intenzione di farne un horror, l’atmosfera che si respira è indubbiamente cupa: abbondano degrado, violenza, splatter.
Il condominio in cui si svolge la storia, gli Addison Apartments, è un vecchio casermone con appartamenti tutti uguali e tutti ugualmente squallidi, bagni sporchi, distributori perennemente guasti e un piano in disuso, in cui ovviamente le presenze spettrali sono particolarmente attive.
La musica che ci accompagna è, come potete ben immaginare, altrettanto disperata e pesante. Il tema che avvolge le nostre vicende negli Addison Apartments è quello di una dolente chitarra elettrica, a cui se ne alternano altri più vivaci – ma sempre spettrali – in 8 bit quando affronteremo dei minigiochi col nostro Super Game Gear, oppure veri e propri brani death metal.

Ora, com’è in generale Sally Face?
Vi dico la verità: ho passato la prima run a odiare il gioco dal punto di vista di gameplay e meccaniche.

La struttura, prima di tutto. Sally Face ha una divisione a episodi che, per quanto non ammicchi alla serialità televisiva come Alan Wake o la quasi totalità dei titoli Telltale, tiene comunque viva l’attenzione con cliffhanger e stratagemmi narrativi che spesso pescano da lì.
A differenza di tutti gli altri giochi a episodi, però, non tiene minimamente conto delle scelte fatte di volta in volta. Ogni puntata ha una struttura chiusa, senza che le nostre azioni precedenti abbiano un peso su quelle presenti o future e senza la costruzione di una rete di amicizie e inimicizie che possiamo vivere in un Walking Dead o in Life is strange.
Di per sé non sarebbe un gran problema: anche altri giochi come Kentucky Route Zero hanno capitoli relativamente indipendenti gli uni dagli altri e restano stupendi.

Il problema di Sally Face però è dare per scontato che chi gioca abbia seguito per forza un determinato percorso tra diversi offerti. Ci sono due modi, ad esempio, di terminare il primo episodio: in uno veniamo a conoscere Megan, uno degli spettri del palazzo, nell’altro no, nemmeno sappiamo della sua esistenza.
In seguito, però, si darà per scontato che con Megan siamo diventati amici, e questa amicizia sarà un perno importante della storia. È facile immaginare che, se abbiamo seguito in precedenza la strada più breve, non avremo idea di chi sia questo personaggio che di colpo sembra diventare centrale.

Non aiuta neanche il fatto che a volte il plot va così dritto in una direzione che da non darci il minimo sospetto di poter deviare. Senza contare che a volte il gioco avvisa di essere a punto di non ritorno e a volte no, generando confusione.
A questo si aggiungono indizi invisibili perché disegnati male sullo sfondo, punti di salvataggio messi a una distanza tale da rendere poco invitante ripetere dei passaggi, ritmi a volte farraginosi e decisioni di gameplay controintuitive. Piccolo esempio: a un certo punto scopriremo che un oggetto dato a un NPC, in un momento in cui il gioco ti strillava letteralmente di farlo, andava invece conservato per più avanti.

Tutte queste cose non danno mai l’idea di essere messe sadicamente apposta – cosa che già non sarebbe il massimo – ma semplicemente non revisionate abbastanza.
Insomma, prima run con il naso perennemente storto. Eppure…

Sal Fisher will have his revenge on Nockfell

A un certo punto del gioco, il migliore amico di Sal dice al protagonista: “l’importante non è che l’arte sia bella, ma che susciti emozioni”.

Può sembrare una considerazione banale, ma questa frase è il cuore di Sally Face sia negli intenti che nella realizzazione e, soprattutto, negli influssi e nelle reference culturali.
Per quanto infatti i personaggi siano influenzati dal metal, la verità è che Sally Face è puro grunge videoludico, un inno d’amore a tutto quello che è stata la scena musicale e culturale della Seattle dei Nirvana, dei Dinosaur Jr, dei Soundgarden e anche un po’, nelle parti più disperate, degli Alice in Chains. Lo è non a prescindere delle sue imperfezioni e della sua scarsa pulizia di game design, ma proprio in virtù di tutto questo.

Abbandonata per una volta la Sindrome di Stoccolma verso gli Anni Ottanta, Sally Face è ben radicato nel decennio successivo. Lo è in maniera esplicita con la storia che si svolge in quegli anni, ma anche nel tipo di approccio grafico usato per rappresentare i personaggi, quello di produzioni underground come Beavis and Butthead o le prime stagioni dei Simpsons. Fisionomie distorte fino a sfiorare – o toccare – la deformità, disarmoniche e allo stesso tempo molto più “reali” di quelle delle produzioni mainstream, contro cui si pongono in maniera apertamente conflittuale.

Non è solo una questione di character design, però. L’estetica che abbiniamo agli anni Novanta, falsata che sia dai ricordi, è ancora un oggetto piuttosto sfuggente fatta di maglioni sdruciti, camicie da boscaiolo, testi criptici e intimisti, muri di feedback e urla raschiate. Sarcasmo contro epicità, distorsioni ed errori sul palco contro virtuosismi e “sleghi” di chitarra.

Sally Face tutto questo lo incarna alla perfezione. Messa da parte subito la pretesa di fare il gioco ben levigato con i meccanismi catchy che funzionano alla perfezione, punta invece a un obbiettivo ben preciso: appunto, suscitare emozioni nel modo più grezzo e viscerale possibile.
Queste emozioni vengono veicolate dalla parte narrativa, che è quella che si sobbarca sulle proprie spalle praticamente tutto e che si fa beffe di una serie di meccanismi mainstream.

La trama principale di Sally Face inizialmente può sembrare un pasticcio di personaggi strambi, fantasmi, satanisti, alieni, possessioni ed elementi che a volte sembrano un po’ buttati lì a caso. In realtà gioca su una raccolta di indizi tramite minigiochi e collezionabili, che permettono di mettere insieme i pezzi e avere una visione più precisa su alcuni retroscena. Una volta ricostruito, il plot è comunque matto, ma matto coerente. Non che le forzature siano del tutto assenti, ma vengono assorbite in un quadro generale ben consapevole di quello che sta raccontando e come.
In Sally Face tutto mira a veicolare emozioni: emozioni dei personaggi e, dietro di esse, del loro creatore. Ci sono sogni carichi di metafore esistenziali e filosofiche e scene in cui protagonista e comprimari si confidano problemi o condividono un momento buffo o drammatico, ma comunque significativo a livello personale. Alcuni passaggi possono risultare ostici nell’ottica di un videogioco, perché magari poco chiari o poco “utili” in termini di gameplay, ma sono frutto di un’urgenza espressiva molto personale.
È di nuovo una schitarrata punk contrapposta a un assolo ben eseguito.

Soprattutto però, la potenza di Sally Face sta nei suoi personaggi e in special modo nel suo protagonista.
Sally Fisher è un personaggio sui generis, nato dalla filmografia del primo Tim Burton (che non casualmente è citato in maniera diretta in più di un’occasione) e, di nuovo, dall’estetica Anni Novanta.

Anche se il volto non ci viene mai mostrato, la collezione di occhi di vetro e di boccette di antidepressivi nella cameretta di Sal suggeriscono che sia sfigurato in modo davvero grave, e che non sia l’intrico di cicatrici “cool” alla Blackjack di Tezuka.
A livello di look, anche la protesi al viso non ha nulla di “misterioso” o affascinante, a parte esser stata rattoppata. I capelli, per finire il quadro, sono legati in un paio di codini che alcuni NPC suggeriscono essere “da bambina”. Mi piace soffermarmi su questo virgolettato sempre prontamente corretto da Sal, che invece nel gioco rivendica più volte l’assoluto diritto nell’acconciarsi o nel vestirsi come vuole, senza per forza dover rispettare dei canoni di genere.

Sal inoltre ha un carattere che ci viene presentato come gentile, di supporto, il più possibile non violento. È una persona affettuosa, con un’enorme facilità nel farsi nuovi amici e che dialoga con loro in qualunque circostanza. La cosa interessante è che questi amici possono essere il ragazzino che vive nel seminterrato, il bullo, ma anche il fantasma con il corpo squarciato e che appare tra frattaglie ectoplasmiche. A parte una piccola frase nel primo episodio, in parte retconnata più avanti, la principale caratteristica di Sal nelle relazioni è la sua totale assenza di giudizio.
Inoltre non è bravo a combattere, non è il personaggio misterioso e scostante: è un ragazzino che ha a cuore le persone a cui vuol bene, per inciso parecchie. Questo è anche l’unico strappo rispetto a quell’immaginario di cartoni e fumetti da cui invece Sally Face prende spunto dal lato grafico: non c’è lo stesso cinismo, ma una wholesome che viene invece usata contro il nichilismo degli antagonisti.
Anche piccoli dettagli della fisicità di Sal sono degni di nota: è il più basso e minuto della sua compagnia, altra cosa che in giochi o fumetti più classici spesso caratterizza maggiormente un ruolo da comprimario. Sal è invece protagonista, considerato il più carismatico tra i suoi amici proprio in virtù del suo essere così premuroso e poco impositivo o giudicante.

Un aspetto interessante della sceneggiatura, inoltre sta nel non mettere mai da parte i suoi problemi di aspetto, ma allo stesso tempo non renderli così determinanti nella percezione altrui. A nessuno importa particolarmente di cosa ci sia dietro la sua protesi, né rimangono impressionati dal vederne il volto: non è quello l’aspetto importante nel rapporto con lui.
Le occasioni in cui Sal vive il suo disagio ci sono, ma non è un personaggio mosso a suscitare compassione come Johnny Freak: è prima di tutto un personaggio figo che, al netto di tutte le sue sfortune, ti fa dire: “Vorrei essere come lui”. Quanta importanza abbia questo approccio, quanto ridiscuta in modo profondo il termine “figo” e quanto ce ne sia bisogno nelle storie, specie quelle che parlano di minoranze o personaggi cosiddetti “non conformi”, è qualcosa di enorme.
Lo stesso approccio alla diversità vale per il protagonista come, in misura meno appariscente, per ogni altro comprimario a modo suo imperfetto, bruttino, sciancato, pieno di problemi o addirittura non morto.

In tutto questo, per qualche strana magia, i difetti passano in secondo piano. L’impressione è che Sally Face, al pari dei gruppi di quella scena anni Novanta, non solo non sia preoccupato dal lasciare imperfezioni qua e là, ma che addirittura ne faccia una sua estetica precisa.
Questo gioco, per fare un esempio che forse solo le persone della mia generazione capiranno a fondo, è la musicassetta col nastro rigorosamente attorcigliato che vi ha passato qualche love interest o un amic* speciale.
È quella canzone dei Dinosaur Jr triste, allo stesso tempo stranamente cazzona, cantata con la voce rauca e macilenta di J Mascis.

Un piccolo rant finale

Com’è facile pensare, Sally Face ha avuto un impatto molto forte sul fandom, generando cosplay, fanart, perfino piccoli cortometraggi. Tanto per dire, in una sola giornata a Lucca Comics and Games sono incappato in tre Sal Fisher, e se consideriamo che stiamo parlando di un gioco che è proprio l’anticristo dei Triple A, non è un risultato trascurabile.
È tutto bellissimo, ma è allo stesso tempo triste vedere come nelle fanart, i personaggi siano stati ingentiliti nell’aspetto e resi invariabilmente carini.
Uno dei personaggi principali, Larry, passa quasi sempre dall’essere un ragazzo qualunque e non esattamente attraente, al tipico stangone rocker con l’aria cool.
Se questo procedimento è piuttosto fastidioso in generale (vi ricordate di Aloy, “abbellita” dalle patch dei fan ai tempi di Horizon Forbidden West?), è ancora meno sostenibile in un titolo che si rivendica in modo così orgoglioso il non voler essere “carini” per niente, almeno non nel modo in cui lo immaginerebbe il 99% della popolazione mondiale.

Insomma fandom, ma che male ti hanno fatto le imperfezioni?

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