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Mad Max: Fury Road — La recensione

Alla fine l’ho voluta scrivere lo stesso, anche se lo han già fatto tutti, perché se il successo di Mad Max è un corteo di auto cromate che rombano verso l’orizzonte cantando la sua gloria, voglio aggiungere il mio grido, sollevando bene in alto il volante. AMMIRATEMI!

Tranquilli, niente spoiler.

Ritroviamo Max così come lo avevamo lasciato, accanto alla sua V8, mentre mastica una lucertola ancora viva. Intorno a lui un mondo che ha modellato la sua religione intorno al culto del motore, dell’acqua e di chi la possiede. Poi il film preme sull’acceleratore e alzerà il piede solo ogni tanto, giusto per far raffreddare il motore, ma senza fermarsi mai.

Se il diavolo è nei dettagli allora Miller è il signore degli inferi. Ogni oggetto, auto, persona, scenografia, inquadratura e paesaggio ci raccontano qualcosa senza spiegarci mai niente in maniera plateale, basta vedere.

Donne grasse a cui viene estratto il latte come se fosse acqua della vita.

Colture rigogliose nascoste al popolo per il piacere di un piccolo gruppo di nobili deformi.

Un culto suicida che ha elevato il V8 a divinità. Forse la parte più bella del film.

Volanti che vengono distribuiti come ostie prima di una messa di distruzione.

Vernice spray cromata usata per benedire i martiri che chiedono una sola cosa: l’ammirazione.

Il mio arrivo è atteso nel Valhalla, sono cromato e pieno di ottani, ammiratemi!

Una corte di mostri d’acciaio in cui un pazzo suona la chitarra elettrica senza mai fermarsi, ebbro per la voglia di uccidere.

Sabbia, rabbia, ruggine, tatuaggi, bubboni, sangue, sudore, benzina e fiamme. Altro non serve.

L’unica pecca? Forse le spose, banali, semplici, belle e occidentali. Forse l’intento era proprio quello di farle apparire diverse e angeliche rispetto al mondo che abitano, ma sembrano uscite da un sfilata di intimo, non da un mondo distrutto.

Un film che gestisce i propri ritmi in maniera perfetta, che non è assolutamente “120 minuti di sparatorie e inseguimenti”, ma sa quando è arrivato il momento di far riprendere fiato allo spettatore, per poi iniettargli dritta nelle sinapsi un’altra infornata di scene memorabili.

La trama rispetta i canoni della serie, è essenziale, minima, forse ha un solo tentennamento: una redenzione e un perdono un po’ troppo sbrigativi, necessari per il proseguimento della folle corsa narrativa.

E Max? Max non è assolutamente il centro dell’azione, è solo uno dei tanti che vivono la storia, a volte le prende, a volte le dà, ma se si fosse chiamato Piero non sarebbe cambiato molto. Il suo è solo un nome che serve a far capire allo spettatore dove ci troviamo e di cosa stiamo parlando. Hardy è bravissimo nel lavorare di sottrazione, nel creare un eroe che è fondamentale senza farti credere di esserlo, per poi sparire quando il suo compito è terminato.

E gli altri? Tutti bellissimi, tutti perfetti, anche nella morte.

Ma perché parlare ancora? È inutile. Fury Road è un film talmente basato sulle proprie capacità visive e su un montaggio serrato e brutale che parlarne è come cercare di descrivere un colore, raccontare a parole un incidente d’auto: potrai dire chi è morto, ma non riuscirai mai a rendere perfettamente le lamiere contorte, il puzzo di benzina, il sangue sull’asfalto. Puro cinema in movimento.

George Miller trent’anni fa ha scritto un film che ha cambiato la storia del cinema, ora è tornato a ricordarci perché lui sì e gli altri no.

Che splendida giornata!

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