Fa strano dirlo adesso ma c’è stato un momento in cui i giochi difficili non avevano la parola “souls” nel nome e non erano sviluppati da From Software.
Sembra un’epoca lontana ma non bisogna nemmeno andare a scavare troppo nella libreria per trovare i giochi difficili.
Certo, c’erano i cabinati con giochi programmati per spillarti monete ma anche le console casalinghe hanno avuto la loro percentuale di lacrime e sangue.
Avevamo Ghouls n’ Ghost anche a casa, del resto.
È nell’aggiornare la formula dello “scorrimento 2D” nell’action Adventure 3D che poi declina verso lo Stylish Action à la Devil May Cry che troviamo nuove vette di difficoltà.
Come dimenticare la difficoltà draconiana di Devil May Cry 3?
Gli stylish hanno avuto il loro fulgido momento di gloria e la loro pletora di imitatori, chi svolgeva il compitino e chi invece infondeva la giusta vena creativa e si approcciava a questi titoli con il giusto spirito.
Prima del tramonto del genere con il DmC di Ninja Theory e l’evoluzione filologica apportata da Platinum Games con Bayonetta un altro titolo dalla difficoltà brutale ha scavato un solco profondo nella mente dei videogiocatori, Ninja Gaiden, e nella mia nello specifico, con Ninja Gaiden 2.
Sono titoli tornati incredibilmente alla ribalta della critica con il recente Nintendo Direct che ne annuncia una remastered delle conversioni per la PS3, le famigerate versioni SIGMA sconfessate dal padre padrone della serie, quell’ Itagaki genio e sregolatezza che prima ci ha regalato le morbide rotondità di Dead or Alive (e le gioie del Beach Volley) per poi lasciare la barca all’indomani dell’uscita di Ninja Gaiden 2, fondando una sua band e imbarcandosi nel fallimentare progetto Devil’s Third, accompagnato dallo spernacchiamento di critica e utenza.
Sta di fatto che il Team Ninja sta bene, ci saluta, e continuato a perseguire un percorso identitario ben preciso nonostante l’abbandono del suo eccentrico leader.
Con le console di scorsa generazione (PS4, XONE) il Team ha apportato il suo contributo al genere che possiamo serenamente classificare come tra i più rappresentativi degli ultimi anni, il soulslike, con un impronta senza dubbio caratteristica.
Se i titoli From Software rappresentano lo Yang, Nioh è il loro Yin.
Entrambi giochi sono orientali ma guardano in direzioni culturali e ideologiche completamente diverse: estremamente conservatore Nioh con la sua estetica samurai e molto più aperto alle influenze gotiche e fantasy occidentali Dark Souls.
Sono due viaggi speculari, se vogliamo, considerando come il primo Nioh avesse un protagonista occidentale che con la sua fuga dalla Torre di Londra inizia un’avventura che lo porta a confrontarsi con la peculiare demonologia orientale.
I Souls si muovono all’esatto opposto in quanto il giocatore viene metatestualmente forzato nei panni di Miyazaki a rivivere la sue esperienza di videogiocatore giapponese che si approcciava a titoli non localizzati per il mercato orientale e di cui quinti coglie solo nebulosi tratti della storia.
Comunicare un titolo come Nioh è incredibilmente più facile delle criptiche situazioni dei Souls e la loro forse eccessiva riduzione al monomito.
Nioh resta però un gioco estremamente vincolato alla sua cultura di appartenenza per una serie di scelte di design fino alla struttura intrinseca del gioco, a partire dalla scelta, apparentemente obsoleta, dei comandi di attacco sui tasti frontali.
È la prima cosa che salta all’occhio, o meglio, è un approccio tattile e quindi filosofico completamente opposto rispetto ai giochi di From Software.
I dorsali sono diventati quasi ovunque la prassi per collocare i comandi di attacco leggero e pesante.
La posizione dei comandi di attacco in Nioh invece è estremamente più tradizionalista, collocata sui tasti frontali, e la sua vocazione per le combo, e quindi accoglie almeno in parte la pesante eredità dello stylish action.
È una scelte che condiziona tutto l'approccio del giocatore.
Il titolo di Team Ninja, essendo quasi completamente privo della pesantezza strutturale che grava sull’azione dei titoli From suggerisce erroenamente al giocatore un approccio a testa bassa, istintivo. E niente è più sbagliato perché Nioh abbraccia la filosofia punitiva di From ibridandolo con i picchi di difficoltà tipici della loro produzione: la precisa esecuzione delle combo, che si traduce in una grande consapevolezza di ciò che sta succedendo in gioco.
Già incastrare alla perfezione le combo in Ninja Gaiden 2 faceva la differenza tra la vita e la morte, adesso quel meccanismo è applicato alla barra della Stamina (in questo gioco specifico chiamato Ki) e quindi non tollera esitazioni o errori perché consumato il Ki non puoi sperare di cavartela con il caro vecchio adolescenziale botton smashing.
Il sistema di combattimento dà la possibilità di accelerare la ricarica della Stamina con la pressione di un pulsante. Questo meccanismo si chiama, poeticamente, Ritmo Ki, e già il nome ammicca ad una precisa partitura tra attacco, attesa e recupero per rendere l’azione fluida e quindi letale.
È forse una delle cose più divertenti del gioco che rende il sistema di combattimento unico insieme alla tre “pose” da combattimento disponibili per ogni arma che quindi aumentano esponenzialmente le possibilità offensive del giocatore.
Ogni posa implica una posizione delle armi relativa al corpo e consequenzialmente la velocità dei colpi, la loro intensità e la quantità di Stamina consumata.
Per i giocatori più tecnici questa è una manna dal cielo. È divertente variare il proprio approccio a seconda dello spazio di movimento che si ha a disposizione, della taglia dei bersagli e del tipo di nemici.
La varietà è la vera forza del gioco che mette sul piatto una spropositata quantità di armi della tradizione orientale dalle classiche katane, alle falci, agli artigli, i tonfa, e finanche le enormi odachi.
C’è però un contro, questa varietà si traduce in una meccanica di looting spinta con armi e armature con diversi gradi di rarità e ogni pezzo è reso sostanzialmente unico dalle abilità intrinseche dell’oggetto, come bonus al ki, valori di resistenza, bonus di attacco, parametri di corruzione (le armi corrotte vi parleranno mentre siete in combattimento).
Il loot è bello, bellissimo, se fosse supportato da una gestione dell’inventario più razionale.
Che, oddio, detto così sembra terribile, ed in parte lo è, ma credo questa gestione caotica sia solo un’altra manifestazione dello spirito orientale fatto di menù, statistiche e confronti tra pezzi che faranno la gioia di un maniaco delle stats ma che a me, turista delle ossessioni compulsive, manda ai matti per la sua incapacità di alleggerirsi o essere veramente ordinato.
Faccio un esempio: il menu delle armi non è diviso per tipologia. Ma quando vai a sacrificare quelle armi nei santuari le palette si moltiplicano e le armi sono ordinate per tipologie.
È una cosa che mi fa semplicemente impazzire.
E senza voler tirare in mezzo l’assoluta indistinguibilità dei vari pezzi.
La varietà, che per certi versi mi ha ricordato un approccio molto à la Diablo 3, si perde nella ricerca della “freccetta in su” e su 100 pezzi raccolti, se ne utilizzi un 10% è grasso che cola.
Il primo Nioh fu il mio primo soulslike, apprezzai l’approccio morbido, il level design strutturato, appunto, a livelli, senza la labirintica oppressione delle macroaree ognuna più pericolosa e ostile dell’altra.
Però aveva quei fatti lì della Stamina, del perdere le anime ad ogni morte per trovarle al risveglio sul campo di battaglia, che sono state un’ottima nave scuola dal momento che Dark Souls per spiegarti la sua filosofia ti lascia a terra picchiato a sangue.
Un annetto fa, in preda ad uno dei miei tradizionali momenti revival, ho rimesso su il primo Nioh trovandolo estremamente invecchiato, già non graficamente brillante alla data di uscita, sembrava provenire da un’altra epoca e lo stile così “nipponico” non aiutava.
Tangenzialmente, proprio un annetto fa usciva Nioh 2, ponendosi nel flow di giochi a tema Samurai, dopo Sekiro e prima di Ghosts of Tsushima, in un momento di vuoto della produzione di From Software, quindi chi voleva quella roba lì doveva andare a beccare nella ciotola offerta dalla mano artigliata di Tecmo Koei.
Qualche giorno fa è stata rilasciata la versione Completa della saga di Nioh, un pacchetto contenente le edizioni complete di tutti i dlc di entrambi i giochi e allo stato attuale è il miglior modo per approcciare Nioh su console di vecchia e nuova generazione.
Nioh 2 è stata una discreta sorpresa per come lima il sistema di combattimento, rivedendo il peso delle armi che adesso sono meno leggere e “più sensate”. Viene aggiunta una ulteriore barra dell’anima che si ricarica combattendo e che permette di fare mosse di natura demoniaca come una schivata potenziata essenziale in alcuni momenti di gioco e tutta una dinamica che rivede la “super” del primo capitolo e trasforma il protagonista in uno Yokai.
A proposito del personaggio, questo Nioh 2 perde il protagonista del primo episodio in favore di un editor tra i più divertenti ed accurati fino a, tipo, la Remastered di Demon Souls, ed è la gioia vera della costruzione del personaggio per la quantità di possibili variabili somatiche.
Tutto ciò chiaramente implica una grafica al passo con i tempi ma che non stravolge l’impostazione artistica del primo capitolo.
Niente è più lontano dal fotorealismo o dal minimalismo eppure Nioh 2 abbraccia il gusto kitsch nipponico tutto “dragoni e dorature” portandolo all’eccesso in una maniera che pare sconveniente per un titolo del 2020 ma che nonostante ciò nel suo squilibrio di elementi estetici invasivi trova la sua identità.
Nei momenti più concitati è tutto un inseguirsi a schermo di effetti luminosi netti per permettere al giocatore di leggere l’azione e di trovare la contromisura adeguata in combattimento, desaturazione della paletta cromatica quanto di arriva nel caliginoso regno degli Yokai dal quale i demoni della tradizione giapponese prendono la forza.
Lo stile pacchiano, quasi un Sacro Kitsch orientale, è corroborato da un character design dei nemici che pompa di testosterone i modelli degli Yokai del primo episodio per aumentarne il senso di minaccia e di estraneità soprannaturale.
Un design che attinge a piene mani dalla tradizione shintoista rileggendola in chiave contemporanea ed eccessiva.
A restare fermo al palo sono un level design che dallo stile ancora vetusto, grossomodo lineare che non brilla per varietà o articolazione delle mappe e una componente narrativa impalpabile che prosegue per filmati di intermezzo tra un livello e l'altro, che c'è o non c'è, lascia il tempo che trova ed è assolutamente non indispensabile per il felice godimento del gioco.
La Nioh Collection offre una mole di contenuti e ore di gioco spropositata ad un prezzo concorrenziale ed è consigliata sia agli amanti del buon vecchio stylish action, orfani di Itagaci, che ai Veri Credenti di From Software che attendono spasmodicamente notizia sullo stato di salute di Elder Ring.