Gli effetti speciali nel cinema nascono con il cinema stesso. Si tratta di una verità assoluta valida a prescindere da quanto vogliate tornare indietro con le lancette del tempo, arrivando anche agli albori della macchina da presa. I film, del resto, sono stati creati per stupire, incantare e trasformare l’impossibile in possibile per tutti quelli che hanno il coraggio di acquistare un biglietto al botteghino. Oggi gli effetti speciali si sono uniti indissolubilmente alla tecnologia, creando intere produzioni che con la tecnica del green screen hanno dato vita a universi sempre più dettagliati e immaginifici.
Il verde allo stesso tempo sembra rappresentare quasi un peccato capitale per la vecchia scuola cinematografa, specialmente se andiamo a impelagarci nell’ormai inarrestabile polemica tra Scorsese, Coppola e altri giganti del cinema d’autore contro il Marvel Cinematic Universe. Non è mia intenzione mettermi a scegliere un lato o l’altro di questa faida civile dell’intrattenimento, ma ritengo che la frase d’apertura di questo pezzo sia indicativa per quello che, in effetti, compone la base sia dei grandi film d’autore che di quelli della Marvel e su cui, entrambi, fondano la propria storia a prescindere dal grado di utilizzo dell’irreale.
Ed è in questa storia che ci si cala quando si varcano le soglie della mostra “La Meccanica dei Mostri” presentata al Palazzo delle Esposizioni di Roma, disponibile già da ora e fino al 6 gennaio 2020. Nel secondo piano dello storico edificio della capitale è possibile osservare come i sogni più famosi di Hollywood e oltre siano diventati realtà grazie alla bravura di Carlo Rambaldi, uno dei più grandi effettisti e artisti provenienti dalla nostra patria. Autore degli effetti speciali di capolavori immortali come King Kong, E.T., Alien, Profondo Rosso e molti, molti altri, questo pluripremiato – con Oscar – romano è riuscito a cambiare per sempre il modo di fare cinema, innalzando la qualità di questa particolare tecnica nel periodo più florido di Hollywood. Ha letteralmente rivoluzionato il settore degli animatronici, del trucco cinematografico e dell’effettistica, creando creature così iconiche che chiunque potrebbe riconoscere al primo sguardo.
La descrizione della vita di Carlo, punto di partenza del percorso, non può che essere narrata visivamente attraverso l’evoluzione del suo lavoro, osservandone come la passione e la creatività venissero fuori da ogni idea e bozzetto. Una particolare immagine, ritratto della sua casa e della via antistante, colpisce chiunque abiti a Roma come il sottoscritto, vedendo il paesaggio urbano più spartano della città diventare minuscolo di fronte a un bambino diligentemente seduto davanti al cinema sotto casa. La didascalia al suo fianco ci dice che quello è proprio il piccolo Carlo, una persona che passerà da geometra ad artista in un battito di ciglia, guardando le vie del suo luogo natale come un qualcosa di magico e indissolubilmente legato a quella che era la culla del cinema di un tempo: Cinecittà, il posto così amato da Fellini che per riprodurre una scena nel Grande Raccordo Anulare decise di costruirlo nel set invece che andarci.
I mondi di Rambaldi, o quelli che aiutava a costruire, erano fatti di una mistura tra realtà e pura fantasia, dove il metallo era il mezzo prediletto per dare una vita credibile a organismi decisamente extraterrestri. Per quanto la fantasia fosse necessaria, ciò che Carlo ci ha raccontato mentre plasmava gli arti di King Kong è che questi esseri possono esistere solamente se si prende in considerazione la base naturale e umana come progetto da cui partire per rendere viva la loro scheletrica meccanica. Dalla carne al ferro, le giunture non dovevano avere alcuna differenza dalla plausibilità per preservare l’illusione del grande schermo e, inoltre, ogni singola parte del “trucco” doveva essere gestita da un diverso esperto che con il tempo riusciva a comprendere e affinarne le gestualità dello specifico arto o muscolo, acuendone le espressioni e le emozioni. Non c’era quindi un solo uomo a muovere King Kong come un direttore d’orchestra, ma una squadra di tecnici, costumisti e attori con tute di scena che seguivano le indicazioni esatte di Rambaldi. Grazie a questa enorme collaborazione dietro le quinte, i professionisti di Rambaldi riuscivano a donare la vita a creature dalle dimensioni titaniche come quelle presenti in Perseo L’invincibile di Alberto De Martino del 1963, lasciando allo spettatore il compito di rimanere a bocca aperta di fronte a esseri impossibili.
Nei primi anni e con la tecnologia limitata esclusivamente alla praticità, gestire gli effetti speciali era un compito che definire complesso sarebbe una grave sottostima e la mostra lo rende chiaro fin dalle prime stanze espositive. Esplosioni, costumi e apparati meccanici mettevano a dura prova chiunque fosse coinvolto nella pellicola, richiedendo precisione costante e sforzi immani per riuscire a ottenere il risultato desiderato, non senza incidenti e perfino rare morti durante i primi periodi. Osservando le foto di alcuni dei set in cui ha lavorato Carlo sembra di essere davanti a vere fotografie di guerre fantascientifiche, dove uomini dai costumi temporalmente diversi tentano di destreggiarsi con tentacoli e appendici di alieni, esseri mitologici e figure d’acciaio enormi.
Che sia su una spiaggia o su un set ricostruito, anche la più piccola delle movenze e delle inquadrature nascondeva un lavoro troppo grande per lo spettatore da immaginare anche nella più pindarica delle sue fantasie. Spesso si pensa che bastava un costume o un modellino ben fatto per riuscire a rendere i trucchi migliori, tirando qualche filo e usando la misteriosa magia del cinema per fare tutto con facilità. Un pensiero comprensibile e che, tutto sommato, racchiude ciò che è l’anima della cinematografia. Chi non ha mai approfondito il terreno degli effetti speciali è dunque il visitatore ideale per la mostra alla mano, a patto di tenersi pronto a ritrovarsi spiazzato a ogni teca osservando semplicemente quello di cui Carlo aveva fatto la sua quotidianità.
Più si va avanti nel percorso, più l’arte della creazione si affina creando figure nitide, ambiziose e tremendamente reali, così tanto da emulare volti, persone e figure animali che causarono non ben pochi problemi alla produzione di pellicole come Una lucertola con la pelle di donna. Del resto però, quando i tuoi esseri animatronici vengono scambiati per vere creature senzienti maltrattate, allora significa che hai fatto un lavoro più che eccellente. Di questo, Carlo ne era sicuramente orgoglioso, tanto da renderlo un suo famoso aneddoto.
Il grosso dell’immagine dietro La Meccanica dei Mostri è ovviamente attribuito all’ampio spazio dedicato ad E.T., capolavoro indiscusso commissionato a Carlo Rambaldi da Steven Spielberg insieme agli alieni di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Del tenero extra-terrestre si può trovare di tutto, dalla genesi scheletrica allo studio anatomico, oltre che ai prototipi scartati di altri artisti. Al centro della sala con tutti i suoi ritratti troverete un E.T. posizionato come se si fosse appena schiantato rovinosamente al suolo, con mezzo busto aperto per far vedere i suoi polmoni luminosi e la parte inferiore del corpo sostituita da una serie di cavi e fili. Un po’ macabro come allestimento, ma è funzionale a dare l’idea di quanto una creatura con cui abbiamo stretto un legame affettivo possa essere in realtà frutto di una finzione totale, portandoci a distaccarci da essa una volta rotta l’illusione tipica del grande schermo. Magia pratica e trucco, come sottolineano alcuni documentari proiettate nelle salette, sono gli ingredienti base per intrappolare l’occhio dello spettatore e farlo sentire veramente coinvolto nel film, utilizzando gli effetti speciali come momento in cui dichiarare la potenza della regia.
Il lato dolente, quantomeno personale, dello spazio dedicato alle opere famose e agli oscar di Rambaldi è una significativa assenza di elementi riconducibili ad Alien, rappresentati solamente dalla testa di uno Xenomorfo appesa come un trofeo di caccia. Un tocco di classe per ravvivare l’ambiente, ma un’occasione sprecata considerando che la creatura di Ridley Scott è tanto iconica quanto il piccolo eroe di Spielberg. In compenso però ci sono due oggetti legati a Dune che quantomeno consolano tutti i fan della fantascienza più cruda e concreta, i quali troveranno comunque molto di cui potersi beare.
La mostra poi prosegue illustrando l’eredità di Rambaldi attraverso le opere di Makinarium, la quale è la perfetta sintesi tra la tradizione e le nuove tecniche. Parliamo infatti di una factory di creativi, artigiani e tecnici con sede proprio nella storica Cinecittà, nata nel 2015 in concomitanza con i lavori per Il racconto dei racconti. I progetti legati a questa pellicola costituiscono la maggior parte di ciò che si può ammirare all’interno della mostra del palazzo, facendoci vedere come l’arte dell’animatronica sia tutt’altro che un orpello del passato e che, anzi, si accoppia benissimo alle meraviglie della computer grafica. Il catalogo offerto dallo studio per Pala Expo è vario e fa navigare il visitatore nella spiccata creatività di un team estremamente eterogeneo.
Quello su cui voglio soffermarmi in particolar modo è l’attenzione che viene data alla qualità dell’artigianato italiano e al modo in cui esso abbia effettivamente contribuito a creare il cinema come lo conosciamo oggi. Rambaldi è stata una figura che di questo valore ne ha fatto una vita di carriere e successi, dimostrando con i fatti come la cura nei dettagli sia una caratteristica che gli artisti del nostro paese portano con orgoglio ormai da secoli. Ma in un mondo in cui il computer riesce a fare meraviglie impossibili, riuscire ad affermare ed enfatizzare il valore del proprio artigianato è un’impresa dal successo ancora più da sottolineare. Quando vi fermerete a osservare da vicino le armature del Soldato della famosa Barbarella, create dalla Sartoria Farani e dal Laboratorio Pieroni, non potrete non rimanere sopresi dalla qualità della pelle e del tessuto davanti ai vostri occhi, ricordandovi comunque di essere circondati da facce talmente reali da far spavento. Questa è la pura espressione dell’orgoglio di cui Rambaldi andrebbe ancora fiero, raccolto come una fiaccola immortale dagli artisti di Makinarium insieme a tutti gli artigiani nostrani che ancora oggi fanno del cinema un attestato di qualità nostrano.
La Meccanica dei Mostri, in definitiva, è una di quelle mostre in grado di cambiare la prospettiva di chi la vive, dando spessore a effetti o tecniche che da semplici fruitori è impossibile vivere nella loro complessità. Per noi italiani, e per me che ho passato la mia vita vicino Cinecittà e amando il cinema, è un onore seguire da vicino i passi di una vita come quella di Carlo Rambaldi, vedendo come la sua mano sia riuscita a plasmare le icone più famose della fantascienza e a modificare per sempre la cultura di Hollywood, il tutto con dei semplici “mostri”, se così vogliamo definirli.
Eppure, citando lo stesso artista, queste creazioni non potrebbero avere più umanità di quella che si è riusciti a immettergli, soprattutto quando durante il percorso si capisce che molta della loro natura è una copia carbone della nostra. Come rendersene conto? Semplice: già che siete lì fatevi un giro a Sublimi Anatomie e osservate come arte e scienza di uniscono nella rappresentazione del corpo. Beatevi anche di questa mostra presente nel primo piano del Palazzo e poi salite le scale per tornare all’arte di Rambaldi e di Makinarium, ripensate ai loro corpi immaginifici e al modo in cui i meccanismi interni si fondavano su mirabolanti scheletri abbozzati. Con un po’ di immaginazione e intraprendenza, riuscirete a vedere come queste due esposizioni non siano altro che un naturale e straordinario collegamento tra l’essenza e la rappresentazione, vissuta egualmente sulla nostra pelle o sulla tela di un cinema.