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La mia cosa preferita sono i mostri - Recensione

Ogni tanto esce un fumetto che, personalmente, apre l’orizzonte della mia curiosità verso un particolare aspetto della sua lavorazione: non parlo necessariamente di opere ritenute universalmente seminali, mi riferisco a quei lavori che, però, hanno letteralmente costretto me ad approfondire un dato aspetto o settore.
La mia cosa preferita sono i mostri ha sortito proprio questo effetto, mentre lo leggevo. Ma di questo parleremo più avanti.

Il volume in questione segna il debutto nel settore di Emil Ferris e la sua genesi ha già un certo allure di leggenda.
Nel 2001, infatti, la Ferris ha contratto la febbre del Nilo a causa di una puntura di zanzara: la debilitante patologia costrinse l’autrice a un lungo periodo di degenza ospedaliera ma, come la storia dell’arte ci ha insegnato con altri esempi eccellenti, la malattia e l’immobilismo forzato divennero l’occasione per affinare la propria tecnica narrativa e inventare il mondo diventato poi La mia cosa preferita sono i mostri.

La leggenda, però, non si ferma qui: il libro è stato infine pubblicato nel 2016 ma l’intero carico è rimasto fermo svariati mesi nel porto di Panama a causa del fallimento della compagnia di navigazione cinese che stava recapitando a destinazione i volumi.

Solo nel 2017 il libro, dopo mille peripezie, è arrivato sugli scaffali delle librerie. Per la gioia di buona parte degli appassionati, degli addetti ai lavori e dei semplici curiosi.

Il motivo di questa gioia è presto detto: La mia cosa preferita sono i mostri è un’opera immaginifica e ampia come solo una fantasia sterminata può produrre, pesca a piene mani nella tradizione del fumetto underground – principalmente statunitense – degli anni ’60 e ’70, restituendo al lettore un variegato e colorato mondo fatto di personaggi buffi, situazioni al limite del surreale e tremenda consapevolezza della quotidianità. Senza dimenticare – aspetto da non sottovalutare – un sottotesto legato al razzismo strisciante, ieri come oggi, nella società americana (e non solo!) e all’emarginazione del diverso.

La storia ha una serie di caratteristiche che la rendono molto particolare: è disegnata e raccontata come il diario di una ragazza adolescente, Karen Reyes, è interamente disegnata con delle penne a sfera (tipo bic, per intenderci) e infatti i colori sono principalmente nero e blu, con qualche incursione di rosso e minime apparizioni del verde (ci sono delle parti a colori ma sono veramente minime rispetto all’intera opera) e capovolge il classico stereotipo della narrativa supereroistica secondo cui il cattivo deve necessariamente essere brutto e deforme e il buono bello e dai tratti regolari.

Karen infatti è rappresentata (o dovremmo dire si rappresenta, visto che parliamo del suo diario) come un giovane lupo mannaro, con tanto di zanne aguzze e peli irti. Stessa sorte toccata ai personaggi che, nel corso del volume, appariranno come gli emarginati, le vittime dei bulli o delle avversità della vita: tutti sono disegnati come i mostri della tradizione classica (l’uomo lupo e Frankestein, ad esempio). Gli umani, anzi la G.E.N.T.E. (acronimo usato dalla protagonista, che sta per Grigi, Egoisti, Noiosi, Tristi ed Ebeti), al contrario, hanno sì fattezze umane ma notevolmente distorte da dentoni, occhi sporgenti, pustole e deformità varie.
Un capovolgimento del punto di vista che ci urla a piena voce di andare oltre le apparenze.

L’immaginario grafico non è l’unico aspetto su cui si basa la peculiarità de La mia cosa preferita sono i mostri: la storia, il primo volume di un intrigante giallo a tinte fosche, è ambientata a Chicago nel 1968 e vede il dipanarsi di un mistero (la morte della gentile vicina del piano di sopra di Karen) che affonda le radici nella Germania nazista e che tocca le vittime dell’Olocausto e la brutalità della guerra e delle azioni umane. Una storia che si intreccia con la Storia, quindi, della Seconda Guerra Mondiale e delle prime proteste di piazza, in cui i fili del privato si fondono con quelli del collettivo e i cui personaggi – curiosi, bonariamente mostruosi o brutalmente normali – dal fratello della protagonista, Deeze, alla drag queen Franklin, hanno sempre qualche segreto da nascondere.

Dimenticate l’impostazione classica delle tavole, quando e se vi approccerete a quest’opera: nulla di più lontano da La mia cosa preferita sono i mostri. Nelle pagine del ricco volume si avvertono tutti gli echi del lavoro di illustratrice della Ferris, la sua capacità di usare il bianco e nero per creare profondità e tensione, sottolineando con il colore solo lo stretto necessario, e le influenze del fumetto underground americano, dalle copertine delle riviste pulp come Weird Comics e Tales from the crypt – che fanno la loro comparsa riprodotte nel volume – agli autori come Robert Crumb, non fosse altro per la rotondità delle forme dei personaggi e la similitudine di alcuni temi trattati.

Arriviamo quindi all’aspetto che più mi ha incuriosito, leggendo questo graphic novel: il lavoro del letterista. Professione quasi sempre dimenticata, in alcuni casi clamorosi perfino bistrattata, su La mia cosa preferita sono i mostri va ammesso che fa buona parte del successo dell’opera. La grafia della giovane protagonista, le scritte in grande sul diario, i titoli dei paragrafi e tutti gli orpelli grafici (suoni ambientali, esclamazioni, ecc.) sono stati tutti tradotti, creati e impaginati in italiano. La resa grafica è estremamente simile all’opera di partenza, in un lavoro certosino che rende l’intero volume della Ferris perfettamente fruibile dal pubblico italiano nella stessa maniera con cui è stato pensato dall’autore originale.
Confesso che, in alcuni momenti, avrei voluto sedermi accanto a Lorenzo Bolzoni per vederlo creare quelle piccole perle che compongono il lettering di questo fumetto. O perlomeno vedere i vari passaggi, i tentativi a vuoto (se ce ne sono stati) e tutto il work in progress di un’opera così peculiare.

Tutti gli aspetti che compongono La mia cosa preferita sono i mostri convergono, quindi, verso un unico punto: l’eccellenza di un prodotto pensato e creato per intrattenere, divertire, intrigare e incuriosire un pubblico che da un lato si fa sempre più esigente e dall’altro chiede prodotti che continuino a stupirlo e incantarlo.
Stavolta Emil Ferris (e la Bao) ci sono riusciti.

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