Finalmente anche in Italia un documentario presentato 8 anni fa a Cannes. Che racconta la storia di un grande progetto cinematografico, naufragato sotto il suo stesso peso
È il 1975: sono passati 10 anni dalla prima pubblicazione di Dune, il capolavoro di Frank Herbert, che nel frattempo ha vinto Premio Nebula e Premio Hugo e ha anche già guadagnato un sequel su carta.
Difficile stabilire oggi se quello che Herbert aveva in mente, mentre scriveva il primo libro di quella che sarebbe diventata una serie di sei, fosse un universo articolato nello spazio e nel tempo come poi sarebbe stato nei cinque libri successivi: quello che è certo, lo era anche allora, è che ci troviamo difronte a un pilastro della fantascienza.
Dune è un romanzo invecchiato benissimo, scritto con un’attenta stratificazione di significati metaforici nascosti dietro vocaboli e immagini che possono risultare familiari ma che, grazie all’immaginazione dell'autore, si trasformano in un quello che è a tutti gli effetti un romanzo di formazione e allo stesso tempo un manifesto ecologista ante litteram.
È il 1975, dicevamo. A Parigi c’è uno strano personaggio che sfugge alle categorie più tradizionali con cui si catalogano gli artisti: Alejandro Jodorowsky è già stato nella sua vita un attore e un drammaturgo, poi un regista teatrale, ancora un regista e un attore cinematografico. Nella vita finirà per fare anche molto altro, dalla lettura dei tarocchi ai fumetti fino alla musica, ma non è questo il punto: nel 1975 Jodorowsky è uno dei più ambiziosi e visionari registi su piazza, reduce da due incredibili successi internazionali nel campo del cinema surrealista come El Topo e La Montagna Sacra, e si è messo in testa che il suo prossimo film cambierà per sempre la storia del cinema (o, forse, persino dell'umanità intera).
Jodorowsky pensa pure che sarà lui stesso a incarnare il ruolo di profeta di questa nuova era. Ha deciso che questo suo prossimo film sarà basato su Dune, il libro di Frank Herbert: libro di cui, fino a quel momento, non ha letto nemmeno una riga.
Il Dune di Jodorowsky non si farà mai: troppo estremo per l’epoca, a guardare i bozzetti e le idee che l'ormai anziano e in qualche modo risolto talento cileno snocciola in un documentario del 2013 diretto da Frank Pavich (che vede la partecipazione di tutti i protagonisti di quell’avventura, arrivato in sala in Italia grazie alla spinta del prossimo film diretto da Denis Villeneuve). Forse sarebbe un problema realizzarlo anche oggi quel Dune.
Tecnicamente per l’epoca era qualcosa di mai visto, qualcosa che oggi solo il contributo massiccio di CGI potrebbe portare sullo schermo: eppure Jodorowsky aveva già assemblato una squadra formidabile che avrebbe anche potuto farcela. Se non fosse stato che, sulla strada verso la realizzazione di questo film, il registra avrebbe finito con lo scontrarsi con sé stesso e la fama che si era costruito in quegli anni.
Per sua stessa affermazione, l’obiettivo di Jodorowsky era quello di cambiare per sempre la storia dell’umanità con un film: un gesto artistico fatto di celluloide e una visione totale a cui menti e mani eccelse come quelle di Moebius, HR Giger, Chriss Foss, Dan O’Bannon avrebbero contribuito. Nel cast avrebbe contato Mick Jagger e Salvador Dalì, con Orson Welles convinto a suon di bottiglie di vino e manicaretti a tornare sul grande schermo.
Avrebbe avuto una colonna sonora composta da gruppi rock come i Pink Floyd e i Magma.
Non sarebbe stato un semplice film: sarebbe stato un prodotto psichedelico che nell’ambizione di Jodorowsky avrebbe dato corpo a una visione nuova e originale del cinema, dell'arte stessa nel suo complesso.
Della produzione, dopo oltre due anni di preparativi, non si fece più nulla: un budget stellare da oltre 15 milioni di dollari (solo una stima che, verrebbe da dire oggi, era davvero ottimistica), un cast che avrebbe potuto creare scompiglio sul set, effetti speciali che rischiavano di diventare un fardello ingestibile per complessità e che richiedevano tecniche e strumenti che non erano ancora stati inventati, finirono per strozzare in culla il progetto.
Ma, soprattutto, i grandi studios all’epoca temevano ciò che Jodorowsky avrebbe fatto al loro cinema: l’artista sudamericano voleva cambiare le regole del gioco, voleva spingersi in territori nuovi e inesplorati, avrebbe finito per mettere in crisi il modello che ancora oggi punta sempre su un “usato sicuro” riciclando vecchie idee all’infinito invece che rischiare con qualcosa di innovativo.
Quello che accadde fu che gli studios produssero effettivamente qualche anno più tardi un sedicente colossal, diretto da David Lynch e prodotto da Raffaella De Laurentiis, che finì per essere ingabbiato in uno stile patinato e azzimato tipico del cinema di quegli anni e persino disconosciuto dal regista.
Il Dune di Lynch non viene ricordato certo come uno dei suoi capolavori, sebbene negli anni si sia guadagnato lo status di cult, e nel film in questione nonostante le molte licenze che lo sceneggiatore si prende rispetto alla storia originale sono di fatto spariti tutti quei valori e messaggi che i libri di Herbert portavano in grembo. Opere, quei libri, anch’esse in anticipo sui tempi proprio come le idee di Jodorowsky per il suo film: con la differenza che quelle idee che aveva in testa Herbert potevano fluire attraverso l’inchiostro e il suo talento su una pagina, potevano essere concepite e partorite da un uomo solo, mentre lo sforzo che le avrebbe dovute portare al cinema si rivelò troppo grande per essere realmente affrontato.
Anche Jodorowsky aveva tutta l’intenzione di portare la storia di Herbert verso una direzione diversa dalla conclusione del libro, puntava a un messaggio a metà tra il politico e lo spirituale: una comunione d’anime che ricorda un altro capolavoro che in questi giorni ha ricevuto una degna conclusione (stiamo ovviamente parlando di Evangelion), che avrebbe dovuto assieme alle immagini forti e ai colori sgargianti colpire l’inconscio degli spettatori per spingerli verso una illuminazione metafisica.
Forse fu anche questo a preoccupare i possibili finanziatori: che cosa avrebbe potuto fare quel regista dal carattere vulcanico con tutti quei soldi, quei grandi attori, quelle risorse che avrebbero inevitabilmente attirato moltissima attenzione?
L’eredità di quel film che avrebbe dovuto essere l’equivalente di un nuovo avvento messianico, e che invece si rivelò un fiasco, è ancora solida e perfettamente riconoscibile in tutto il cinema che è seguito dal 1977 a oggi.
Senza il Dune di Jodorowsky non avremmo avuto Star Wars, Flash Gordon, Alien, Indiana Jones, Blade Runner, forse non saremmo neppure arrivati a vedere film come Terminator o Avatar. La lista potrebbe continuare a lungo. Ciò che Jodorowsky aveva immaginato ha spinto una generazione un gradino più su sulla scala della fantasia: ha spinto una generazione di artisti a credere che tutto fosse realmente possibile, che fosse possibile anche trascinare i paludati studios di Hollywood al di fuori della loro comfort zone e dare vita a qualcosa di grandioso.
In questo senso, la visione di come quel progetto sia naufragato è in qualche modo anche catartica poiché racconta un gran fallimento di grande successo. Il documentario su “Il più grande film di fantascienza mai realizzato” (in inglese si gioca sulla coppia ever/never) è molto gradevole e in 90 minuti restituisce anche al neofita una vista completa di ciò che avrebbe potuto essere quel film. A noi appassionati resta invece un pizzico di delusione per non aver potuto vedere quell’opera compiuta: una delusione che speriamo possa venire stemperate dal prossimo Dune, che tra un paio di settimane arriverà al cinema.
Speriamo che questa volta sia un atto compiuto, definitivo: e che Jodorowsky, ancora vivace artista che ormai di anni ne ha 92, possa guardarlo e cogliere in questo film almeno un eco di ciò che avrebbe potuto e voluto fare.