Davide De Cubellis, classe ’77, è uno storyboard artist, illustratore, fumettista e docente.
La sua carriera lo ha visto impegnato in diversi settori, dal cinema alla pubblicità, passando per il fumetto e l’illustrazione.
Ha affiancando registi italiani, come Marco Risi, Paolo Virzì, Sergio Rubini, Daniele Luchetti, Emanuele Crialese, Michele Soavi, Ricky Tognazzi e non solo, tra cui Wes Anderson, Guy Ritchie, Mark Steven Johnson, Harald Zwart e Bill Fertik. È stato copertinista della quarta stagione di John Doe, di un color Fest di Dylan Dog, disegnatore di Martin Mystere e del sesto numero della collana Le storie Bonelli.
In occasione dell’uscita della prima stagione de Luna Nera, nuova serie tv fantasy in onda su Netflix a partire dal 31 gennaio, sono riuscito a intervistarlo. Il risultato lo trovate in basso, tra riflessioni sul fantasy in Italia, la fantascienza cinematografica, il lavoro dello storyboard artist e i suoi progetti futuri che ci capiterà di vedere.
Cominciamo dalla base: dammi una definizione precisa del tuo lavoro.
Io sono uno storyboard artist. Lo storyboard è uno strumento di previsualizzazione delle scene che dovranno essere girate. Quindi io disegno, accanto a un regista col quale instauro un dialogo, cercando di tradurre in frames tutto quello che lui immagina nella sua testa e cercando di costruire insieme a lui una sintassi delle inquadrature, per sviluppare al meglio la scena, risolvere tutta una serie di problemi, preventivare le scene per cui va definito il budget – perché magari hanno bisogno di interventi in cgi o in vfx e per una serie di altre utilità.
Il 31 gennaio esce Luna nera, che è il motivo principale di questa intervista. Una serie molto importante, nel panorama italiano, perché è di genere fantasy, perché scritta e diretta da sceneggiatrici e registi donna e perché – potenzialmente – potrebbe fare da apripista a una serie di produzioni simili. In che modo ci hai lavorato?
Ho lavorato con due delle tre registe, Susanna Nicchiarelli e Paola Randi. Con la prima avevo già lavorato a uno spot Armani con Cate Blanchett e lei, essendo la prima volta che usava lo storyboard era rimasta particolarmente colpita dalla possibilità di mettere su carta e visualizzare le scene prima di andare a girare. Per questo motivo mi ha chiamato per Luna nera e abbiamo lavorato ad alcuni episodi centrali. Non abbiamo lavorato all’intera puntata ma ci siamo concentrati su tre o quattro scene, principalmente quelle in cui intervenivano gli effetti speciali: una, all’aperto, raccontava di una sorta di rito di iniziazione, un’altra, stavolta in interno – che si vede anche nel trailer – in cui vediamo il luogo in cui si ritrovano le streghe.
Successivamente, sono stato chiamato dalla produzione perché Paola Randi aveva bisogno di visualizzare la scena finale della stagione: una scena enorme, molto complessa, in cui il lavoro di previsualizzazione con la regista risultava particolarmente importante. Paola è una persona incontenibile, è stato interessante lavorare con lei perché ha un modo di raccontare la sua visione delle scene molto dinamico ed evocativo, quindi non è per niente facile accompagnarla, ma una volta capito che insieme si poteva lavorare bene, abbiamo interagito al meglio. Il mio lavoro in questo caso è anche cercare di riassumere la visione del regista e portarla a compimento. Solo il lavoro intorno a questa scena ha richiesto ventuno pagine di storyboard, ognuna con circa dieci scene: duecentodieci frame. Frame è il termine più adatto in questo caso perché un’inquadratura può essere espressa da uno o più frames.
Un altro aspetto di Luna nera che trovo interessante è la composizione del cast e della produzione, quasi interamente al femminile e l’accento – a quanto dicono gli addetti ai lavori che hanno visto le prima puntate – sulla figura femminile nel corso della storia. Hai notato questa spinta, lavorando gomito a gomito con le registe?
Sì, da questo punto di vista la serie è sicuramente interessante. Uno degli scopi delle registe è stato proprio dare il punto di vista di una donna su una tematica molto delicata come la caccia alle streghe. Ho conosciuto anche alcune delle sceneggiatrici, tra cui Tiziana Triana, scrittrice del romanzo Le città Perdute - Luna Nera da cui è tratta la serie: da parte di tutte si percepiva la volontà di fare un prodotto fresco, che trattasse i temi – anche molto attuali – da un punto di vista finora inedito, almeno in Italia.
Saltando di palo in frasca, ho visto che hai lavorato anche a Wolfsburg, una serie horror sui lupi mannari che uscirà a breve. Cosa mi puoi raccontare al riguardo?
Wolfsburg è una serie horror ambientata negli anni ’60, il cui protagonista è un emigrante calabrese che si trasferisce in Germania e la sera prima di partire viene morso da non posso dire chi o cosa altrimenti farei degli spoiler.
Il progetto ha una genesi interessante perché doveva partire due anni prima con un regista, che poi è stato cambiato insieme a tutto il team. Io gli storyboard li ho fatti con Giuseppe Gagliardi, regista molto bravo di Tatanka, delle serie 1992, 1993, 1994 e Non uccidere. Con lui ho lavorato a tutti i dieci episodi che comporranno la serie, poi mi sono spostato a Padova per una serie di Guadagnino (We Are Who We Are) e nel frattempo il regista è ulteriormente cambiato, infatti in squadra è entrato Davide Marengo. Io in quel momento stavo lavorando a un’altra produzione e non sono riuscito a fare le modifiche agli storyboard che il nuovo regista – con cui ho lavorato a Notturno bus e The lithium cospiracy – aveva richiesto. Credo però che, nonostante qualche piccola modifica, il grosso delle scene rimarrà invariato, perché la maggior parte degli storyboard erano stati richiesti dal responsabile degli effetti speciali, Victor Perez, e modificare le scene che richiedono effetti si può fare, ovviamente, ma con molto anticipo o incidendo sul budget
Quindi è normale che ci siano delle modifiche costanti al lavoro degli storyboard artist, in corso d’opera e tramite il lavoro di altri colleghi?
In un sistema sano è normale perché le cose cambiano. Per farti un esempio, il mio lavoro su Wolfsburg è cominciato quando ancora non si sapevano le location e quindi ci siamo concentrati sulle scene in cui sarebbero dovuti intervenire gli effetti visivi, la cgi del lupo principalmente, focalizzandoci sull’azione, al di là del set reale dove quell’azione avrebbe avuto luogo. Ovviamente se immagini la scena in un ambiente e poi questo cambia radicalmente, puoi adattare la scena ma nel frattempo possono venirti altre mille idee e altri mille modi di raccontare la stessa cosa, al punto che un cambiamento sulla scena stessa e quindi sugli storyboard può aiutare.
Non sempre tutti gli aspetti di una produzione partono in contemporanea, quindi in progetti così complessi molto può cambiare in via di pre-produzione. Ho saputo che a dicembre stavano girando il promo. In certi casi gli storyboard possono essere utili anche per girare un promo che aiuti la produzione a procurare un aumento di budget, perché non sempre quanto scritto in sceneggiatura è tramutabile con adeguato sforzo economico in racconto per immagini.
Noi ci proviamo sempre, il che è bello.
Mi collego a questo ultimo punto per farti una domanda da fan del fantasy. Negli ultimi anni hai lavorato a buona parte delle produzioni cinematografiche e televisive italiane di genere. C’è una speranza, quindi, per vederne sempre di più e sempre fatte meglio?
Mettiamo da parte quello che penso personalmente del fantasy. Ti dico però che la speranza ci deve sempre essere, altrimenti questi lavori e le persone che si impegnano su questi grandi progetti non avrebbero ragion d’essere. Nell’attuale cinema italiano siamo un po’ tutti grandi sognatori che impiegano il massimo in un progetto pur tenendo in conto che alla fine il prodotto non sarà esattamente come l’abbiamo immaginato, perché magari il lavoro di oggi getterà le basi per lavori futuri migliori. E così via. Questo è l’approccio di chi spera sempre: anche alcuni critici, ad esempio Francesco D’Alò, hanno adottato lo stesso punto di vista, ossia che il cinema italiano – e tutte le persone che ci girano intorno – vanno incoraggiati anche quando i prodotti non sono al massimo. Solo in questo modo si può mettere in moto un circolo virtuoso che ci porterà a un miglioramento del settore, perché di brave maestranze e bravi autori ne abbiamo da vendere… I punti deboli sono budget, paura nell’affrontare format non collaudati e forse recitazione.
Quando riusciamo a produrre un prodotto competitivo o dai contenuti interessanti, come Gomorra, il prodotto viene acquistato in tutto il mondo e diventa un successo globale. Un esempio minore è Baby, che va fortissimo in America Latina.
A questo punto, però, la domanda è d’obbligo: qual è la tua opinione sul fantasy?
Da fruitore sono un appassionato del genere ma lavorarci per me è un po’ più faticoso. Ci sono tantissimi filoni del fantasy, al di là di quello legato all’immaginario tolkeniano, che potrebbero essere sviluppati perché trattano temi universali, grandi epopee, mondi e personaggi nuovi e così via. Va bene, prendiamo queste strade. Il problema è che, sia per il fantasy che per la fantascienza, tutto quello che noi immaginiamo partendo dalla realtà e cercando di inventare qualcosa che sia fantastico in senso lato, subirà gravemente il passare del tempo perché è limitato dal paradigma immaginativo nel quale viviamo e, soprattutto, nella messa in scena è soggetto alle innovazioni tecnologiche produttive del momento. Tra un qualsiasi film di fantascienza – tranne pochi esempi – e Il Padrino, quest’ultimo rimane attuale e godibilissimo, mentre gli altri subiscono l’influenza del tempo.
Mentre parlavi mi è venuta una domanda. Ci sono differenze tra lavorare per il cinema e lavorare per la televisione?
No, non ci sono grandissime differenze, almeno in Italia, perché le persone che fanno cinema poi si mettono a fare le serie o viceversa. Forse quando si lavora a una serie composta da più episodi, si ha più tempo da dedicare al progetto e alla fase pre-produttiva; così come nel cinema mi è capitato di dover procedere di corsa perché magari serviva dover mostrare una specifica scena a uno specifico reparto con pochissimo tempo di preavviso. Ma fondamentalmente ogni scenario è possibile.
L’ultima domanda è sul film tratto da La terra dei figli di Gipi, per cui hai lavorato a una scena in particolare. Hai potuto basare il tuo lavoro sulla graphic novel?
Uno storyboard artist normalmente non ha autonomia decisionale a meno che non sia il regista a concedergliela, caso che mi è capitato ma che non è assolutamente la norma. Non è stata questa la situazione de La terra dei figli perché Cupellini, con cui avevo lavorato solo a uno spot Dacia Sandero tempo fa, aveva un’idea molto chiara di come voleva la scena.
In più a lavorare su questa scena c’era anche un esperto di inquadrature sott’acqua che ha fatto chiaramente capire cosa sarebbe stato difficile da girare e cosa più fattibile. Quindi io ho seguito la traccia del regista, che è stato comunque molto fedele alla graphic novel pur mantenendo la sua forte identità autoriale e che sa benissimo come si utilizza il lavoro di uno storyboard artist, ossia per previsualizzare ed eventualmente condividere con altri quello che lui sta immaginando.
Con Michele Soavi, regista con cui ho un bellissimo e consolidato rapporto, le modalità di lavoro sono state diverse: abbiamo lavorato insieme alla prima stagione di Rocco Schiavone e in quell’occasione lui ha apprezzato il fatto che io conoscessi e tenessi molto in considerazione le tante problematiche legate alla produzione e al girare, perché ho provato a proporgli soluzioni semplici, massimizzando la messa in scena, con poche trovate “creative” ma di facile attuabilità. Quando abbiamo lavorato di nuovo a La Befana vien di notte non c’era quasi nemmeno bisogno di fare le riunioni: il regista mi dava alcune indicazioni e io potevo impostare le scene con una maggiore libertà.
Mi pare di capire, in conclusione, che diventa fondamentale conoscere a menadito la complessità di una produzione, per essere uno storyboard artist efficace.
Sì, infatti la differenza tra un fumettista e uno storyboard artist è che, oltre a essere un buon disegnatore devi conoscere tutta la sintassi del cinema – che è molto diversa da quella del fumetto –, le tecniche di ripresa, le lenti, le nuove tecnologie, molti altri aspetti legati alla produzione e sapere che una particolare soluzione deve poi poter essere attuata, in base a determinate tempistiche e condizioni. La mia domanda standard, quando comincio a lavorare a una scena, è “quanto tempo abbiamo per girare questa scena e quali mezzi?”. Solo dopo iniziamo ad impostare le inquadrature.
P.S.
Per chi se lo stesse chiedendo, l'immagine di copertina è il visual per progetto The Little Mermaid, regia di Sofia Coppola