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L'immaginario saturo della Fantascienza

Mi trovo nel mio appartamento, a trascorrere, da sola, questa quarantena dall'estetica post-apocalittica. Mi sveglio di cattivo umore, mi nutro di scatolette, cerco di dare un senso a delle giornate che, una dopo l'altra, si svuotano sempre di più. Il mio divano è un buco nero, un'entità spazio-temporale che comprime e contorce la materia umana di cui sono fatta.

La pandemia l'ho sempre immaginata come un gioco sadico alla sopravvivenza. Uno scenario alla Cormac McCarthy, fatto di buoni e di cattivi, di spiritualità e di carne - o, al limite, qualcosa come La Peste di Camus o Cecità di Saramago: siamo esseri umani, siamo egoisti, ma alla fin fine è la solidarietà che ci salva. Mai avrei immaginato di ritrovarmi da sola, in un appartamento dotato di tutti i comfort di cui il capitalismo mi permette di disporre, a controllare dal balcone quanta fila c'è al supermercato per evitare di incrociare l'amministratore di condominio ipocondriaco -- e pure mezzo intristito da una videochiamata insoddisfacente con il figlio.

E perché mai non l'avrei immaginato? Perché, tutto sommato, è banale.

Disclaimer: lungi da me voler sminuire quello che sta accadendo -- il Virus (e lo chiamerò così per dargli un tono letterario) è una cosa seria, che merita il massimo rispetto e la massima considerazione.

Proverò a spiegarmi.

Quando frequentavo il liceo, avevo un professore di chimica che adorava la fantascienza (cliché?). Tra una spiegazione e l'altra, si assicurava sempre di infilare, in modo più o meno pertinente, un film tra i suoi preferiti. Per spiegarci cosa fosse il Ph, ci fece vedere Andromeda, di Robert Wise -- che, a ripensarci, mi pare particolarmente calzante nel periodo attuale. I fan della fantascienza già ne conosceranno la trama: in una piccola città ai margini del deserto del New Mexico, un virus di origine sconosciuta decima la popolazione, riducendo in polvere il sangue di coloro i quali lo contraggono.

Una squadra di scienziati riesce a trovare l'origine del virus e a debellarlo, studiando due casi inspiegabilmente sfuggiti al contagio. I topoi della fantascienza ci sono tutti: un nemico alieno da combattere -- in questo caso un pericolo biologico --, degli eroi in tuta isolante, la scienza come alleata, complotti e giochi di potere, gli Stati Uniti d'America e la loro corsa forsennata allo spazio. Non a caso, il film uscì nel 1971, a due anni appena dall'allunaggio e in un decennio in cui tutto era ancora possibile.

La fantascienza ci ha insegnato a fluttuare nello spazio dei possibili, « [...] all'universo infinito dell'era della produzione, la science-fiction aggiunge la moltiplicazione all'infinito delle sue stesse possibilità »  scrive Baudrillard. L'ha fatto con Star Trek, con l'Invasione degli Ultracorpi, con la massa informe e gelatinosa del Blob. L'ha fatto soprattutto tra gli anni '40 e gli anni '90; l'ha fatto prima del prepotente affermarsi della tecnologia nelle nostre vite e nel corso dei decenni non è certo rimasta uguale a se stessa: ha modificato le sue forme, si è integrata con le macchine e, piano piano, si è anche spenta.

A decretare la morte della fantascienza, Ridley Scott, nel 2007, in occasione della mostra del cinema di Venezia. Con lui, Antonio Caronia, membro del collettivo milanese Un'ambigua Utopia, che, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, si è occupato di discutere i rapporti tra fantascienza, immaginario e politica. «I generi della letteratura popolare sono, più di altri, fenomeni storici contingenti, che nascono e muoiono in simbiosi con i processi socialiscrive Caronia e «Una letteratura pensata e declinata al futuro non ha più nulla da dire, e quindi impallidisce e si stempera, nella società del “tempo reale”».

La caratteristica principale della fantascienza è forse proprio la sua futuribilità. Che sia ottimistica o distopica, ha sempre a che fare con un universo che possiamo solo immaginare. Che cosa, però, contraddistingue i giorni nostri? La controparte della futuribilità, ovvero l'assenza di futuro, la riduzione progressiva dello spazio dei possibili.

«Il ventunesimo secolo è oppresso da un soffocante senso di finitezza e di sfinimento. [...] La lenta cancellazione del futuro si è accompagnata a un ridimensionamento delle aspettative.» (3) nota Mark Fisher. L'immaginario va di pari passo al reale, in una produzione che è sempre istantanea. La comunicazione è in tempo reale, l'informazione è in tempo reale, la soddisfazione del desiderio è in tempo reale. Tutto accade rapidamente, ma è allo stesso tempo stagnante, sembra non andare da nessuna parte: le prospettive lavorative, le relazioni, la lotta contro i mulini a vento del cambiamento climatico e di un sistema economico che comincia a mostrare le sue incrinature.

La fine, in ultima analisi, del mito del progresso -- l'incidente ideale di Crash di Ballard, la fusione tra l'uomo e le lamiere della macchina, uno scontro finale che diventa spettacolo tanto tremendo quanto pornografico: un'esaltazione futuristica della guerra, che però si conclude nel nulla dell'istante.

Allo stesso tempo, si accompagna il nulla della verità. Il reale viene sgretolato dai media, fatti di immagini che si rigenerano perpetuamente da se stesse. Il proliferare di notizie, di contenuti, di meme esaurisce il nostro senso di realtà in un citazionismo continuo che non guarda certo al futuro e che ricicla il passato in maniera nostalgica -- anche nel caso della fantascienza.

Quella sci-fi, così, diventa più che altro un'estetica decorativa: la troviamo sulle t-shirt dei grandi marchi, nelle serie tv, assorbita in prodotti culturali iperreali. «La science-fiction non sarebbe più, in questo senso, un romanzesco in espansione con tutta la libertà e il naif che le derivano dal fascino della scoperta, ma piuttosto evolverebbe implosivamente, a immagine della nostra concezione attuale dell'universo, cercando di rivitalizzare, riattualizzare, riquotidianizzare dei frammenti di quella simulazione universale che per noi è diventato il reale».

Possiamo narrarla come vogliamo, ma questa pandemia non aggiunge niente di nuovo a quanto già immaginato in precedenza. L'immaginario è saturo, tanto da diventare banale. E così, giorno dopo giorno, non ci resta che rileggere lo stesso libro, riguardare lo stesso film. Nella speranza che tutto questo finisca presto e che il Virus abbia almeno l'effetto positivo di riconnetterci a ciò che esiste -- la noia, la solitudine, la sofferenza, un mondo che rischia di non essere più, se non ci riappropriamo del principio di realtà.

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