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Il Game Boy, il mio compleanno, il gender

Ho letto troppe storie che iniziano con “sono nerd da quando…”, stabilendone le origini attraverso il primo dispositivo utilizzato; io avevo imparato presto che la tecnologia era lo strumento che mi permetteva di rivedere i miei cartoni preferiti, di registrare le canzoni di cui non sapevo il titolo ma che mi piacevano tanto. Non avevo la minima idea di quale stregoneria ci fosse dietro la connessione tra un telefono ed un PC che si trasformavano in una finestra aperta sul mondo, per anni ho fantasticato sul Net Yaroze senza sapere di cosa stessi parlando, e credo che essere nerd sia anche questo: essere affascinati e appassionati di qualcosa che, anche se non comprendiamo appieno, ci spinge a desiderare e conoscere e possedere, fino al diventarne massimi conoscitori.

Ma questa è una storia parallela, una riflessione col senno di poi.

Mi mancano i cabinati.

In verità, da bambina, io non sapevo affatto cosa significasse essere nerd o meno: avevo le Barbie, i Lego, la mini macchina da cucire che mia madre conservò con cura fino al mio 26esimo compleanno — dicendomi che l’aveva nascosta perché aveva paura mi facessi male e che solo dopo “un paio d’anni” ero pronta per poterci giocare, ed altri passatempi analogici. Ma m’interfacciavo in modo naturalissimo alla tecnologia, dal Pong di mio zio allo stereo di mia madre, dal videoregistratore al PC che ci facevano utilizzare al corso in quarta elementare. Forse tutta questa predisposizione nasceva con una tradizione padre-figlia, che contro ogni teoria del gender varia ed eventuale tutte le domeniche mattina mi portava alla sala giochi; amavo la forma dei gettoni, il fatto che per giocare dovevi utilizzare il conio dell’entertainment, quel cerchio di plastica con un buco al centro. Adoravo il fatto che mio padre li accumulasse per tutta la settimana per far sì che potessi provare più cabinati di domenica, concludendo con il tradizionale flipper di fine giornata.

Insomma, per me essere ‘nerd’ era normale, amare la tecnologia, i videogiochi, i supereroi, le riviste cartacee che parlavano di PC e console. Per questo non capivo cosa ci fosse di male nel desiderare l’action figure di Batman, che, diciamocelo, è molto più figo di una bambola bionda con nessuna abilità particolare né backstory affascinante; non capivo perché non potevo giocare a Metal Gear Solid con mio cugino, anche se mi emozionavo solo ascoltando le prime note del main theme e non facessi altro che chiedere di interpretare per qualche minuto Solid Snake.

Hit me baby, one more time.

Per questo, non capivo cosa ci fosse di sbagliato nel desiderare il Game Boy, se non fosse che parte del nome stesso della console portatile che tutti abbiamo amato avesse decretato l’appartenenza ad un pubblico di sesso maschile, pubblico che non mi vedeva tra i selezionati. O almeno, Game Boy = giocattolo per bambini era l’associazione di quasi tutti i genitori dell’epoca, credo. Tuttavia, il 1997 era un anno prospero per iniziare una rivoluzione femminile, la mia in particolare; nasceva Google, i Radiohead donavano al mondo quel capolavoro che è Ok Computer, ma soprattutto (per una bambina giapponese di sette anni) iniziava la Pokémon mania, con conseguente rilascio, qualche anno dopo, delle celeberrime cartucce per il Game Boy: Pokémon Rosso e Pokémon Blu.

Era l’anno in cui, alla veneranda età di sette anni, annunciavo a tutti di aderire alla temibile teoria gender dichiarando il mio regalo di compleanno: il Game Boy.

Il 22 settembre 1997 avrei compiuto otto anni. Avevo già ottenuto il Game Gear della SEGA qualche anno prima, con la scusa che mia madre e le mie zie, malate di Columns, ci avrebbero passato pomeriggi interi; adesso, era tempo di combattere per ottenere il mio nuovo regalo, al posto delle solite collanine d’oro che non avrei mai indossato (scusami, nonna).

Il giorno del mio compleanno arriva e mi sveglio, felice, perché secondo le mie fonti dell’epoca le mie fatiche sarebbero state ricompensate; comincio a fantasticare di giocare sotto le coperte, di portarlo ai pranzi noiosissimi con i parenti, durante i lunghi viaggi, a mare. La forma del pacchetto è quella. Vedo, nelle facce dei miei parenti, quel sorriso che hanno solo quando sono compiaciuti, quello del “finalmente ho azzeccato il regalo”. E sono prove che aggiungo mentalmente alla mia convinzione di avercela fatta.

Tanti auguriii-a-teee, soffio le candeline, è il momento. Davanti a me c’è solo lui, e a me va benissimo così: scarto, goffamente, come si fa solo quando si ha quell’età. Riguardo i loro volti: così felici e così impazienti, di vedere la loro stessa espressione impressa nel mio volto. Ho finito di scartare, è un qualcosa di elettronico, sì, ma rosa.

Surprise, motherfucker.

Voi ve lo ricordate il Mio Caro Diario Ridimmi?

Evidentemente lo ricordo solo io. Prodotto dalla Gig in diverse varianti, Mio Caro Diario Ridimmi era l’ultimo gioiello tecnologico dell’azienda, dotato di una funzione speciale che, all’epoca, lo faceva costare di più della versione base.

Il Ridimmi, infatti, era un’agenda elettronica che registrava messaggi vocali e li ripeteva, grazie all’assistente virtuale Gimmi Ridimmi, come una segreteria telefonica. Era una versione per sole donne: sia mai che gli uomini trovassero entertaining registrare messaggi vocali e farseli ripetere con la voce da chipmunk.

L’assoluto della mia famiglia è stato: se Game Boy = giocattolo per bambini maschi, Mio Caro Diario Ridimmi più o meno farà le stesse cose ma è rosa ed ha una ragazza nella confezione, perciò è per bambine femmine. Logico.

Io non ho mai avuto il Game Boy, ma forse è più corretto dire che la Anna di otto anni non l’ha mai ricevuto in regalo per colpa del gender. Io potrei ancora averlo, lei no; come ogni oggetto, programma TV, serie, ricordo, il Game Boy viene protetto da quella patina brillante della nostalgia, o nel mio caso, la saudade dei brasiliani: quel sentimento più forte della nostra compagna che ci ha regalato i più svariati revival nel corso di questi ultimi anni, essa è “la malinconia di qualcosa che non si è vissuto”, che, sorprendentemente, pare sia più intensa. In compenso, così dice mia madre, il Mio Caro Diario Ridimmi funziona ancora e — durante una telefonata per stabilire la veridicità di questo racconto — mi chiede se voglio che me lo spedisca.

 

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