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Gachiakuta, tra spazzatura, disuguaglianze e amore per le cose

Leggendo Gachiakuta pensavo che il grande valore dei manga e in generale delle produzioni orientali e la loro voglia di sperimentare, provare, cercare di tenere il dito sul polso del mondo per capirne il battito e proporre storie che cerchino di seguirne il ritmo.

Non che il fumetto occidentale non lo faccia ma quell’ecosistema creativo, fatto di progetti che escono a getto continuo e continui sondaggi sul gradimento del pubblico, avesse una maggiore capacità di adattamento ed evoluzione, pur rimanendo fedele a quei generi e quegli stilemi che ne hanno decretato il successo.

E poi ho sempre l’impressione che quell’industria presenti un manga con determinati temi sociali perché li percepisce rilevanti nel dibattito generale e quindi commercialmente validi, più che per una questione di sensibilità. Un po’ come fanno le telenovela sudamericane, che da sempre dialogano col presente e i suoi temi più caldi.

Gachiakuta (in giapponese traducibile come "spazzatura seria"), edito in Italia da Star Comics è l’esempio perfetto di questa lettura del presente, perché prende alcune idee tipiche del battle shonen e le vira verso l’ambientalismo, una ambientazione urbana che gioca sul filo del cyberpunk distopico e un linguaggio molto crudo e diretto.

Tutto in Gachiakuta ci parla di divario sociale: il protagonista, ovviamente forgiato dai traumi, si chiama Rudo ed è un poveraccio tra i poveracci che vive tra i Tribali, discendenti di criminali esiliati molto tempo che campano in quella che potrebbe essere una township sudafricana o una favela, sopravvivendo di quello che le classi più agiate buttano. Oltretutto, Rudo è ancora più un paria, essendo figlio di un assassino.

Chiunque trasgredisca alle regole di questo mondo viene buttato in una voragine senza fondo dove normalmente finisce tutta la spazzatura prodotta dalle persone benestanti. Ci finirà anche Rudo, ma invece di morire si ritroverà altrove, in compagnia di un gigantesco desiderio di vendetta e di nuovi poteri che, ovviamente, sono stati sbloccati dal trauma.

Questo, in sommi capi e col minimo indispensabile di spoiler, è lo scenario su cui Gachiakuta muove i primi passi, uno scenario sporco, lurido, che stigmatizza la società dello spreco, dove è quasi possibile percepire la puzza del mondo in cui si muovono i personaggi. Una puzza che viene costantemente ricordata dalle maschere che sono costretti a indossare quando si avventurano fuori dalle città, avventurandosi in enormi discariche abitate da mostri fatti di spazzatura che ha preso vita.

Perché in Gachiakuta gli oggetti hanno un’anima. E questo è il secondo tema interessante del manga.

Se da una parte infatti c’è il dito puntato contro il consumismo avventato, quello che butta via le cose invece di provare a ripararle, dall’altra ci viene detto che gli oggetti che possediamo possono acquistare un potere grazie ai legami che stringiamo con loro.

Un capo particolarmente amato, un oggetto regalato da una persona cara, un utensile che ormai usiamo come un prolungamento del braccio, la penna con cui scriviamo tutti i giorni sono solo oggetti o in qualche modo sono entità con cui stringiamo un legame? Può sembrare l'ennesima vittoria del consumismo, ma è evidente a ciascuno di noi che alcuni oggetti hanno simbologie che superano quelle attribuite dalla loro funzione d'uso.

In Gachiakuta le cose acquistano potere e quel potere può essere sfruttato dai giver, persone che possono utilizzare questi oggetti comuni come armi micidiali. Rudo, ovviamente, è uno di loro e, sempre ovviamente, forse potrebbe diventare il migliore tra di loro se imparerà a sfruttare al meglio le sue capacità. Il tutto con il consueto corollario di personaggi tipici dei battle shonen e le sfide sempre più grandi che costituiscono lo spartito su cui Kei Urana suona la sua musica.

Difficile non voler subito bene a Rudo, che mi ha ricordato un po’ le incapacità relazionali di Chainsaw Man, ed è il canovaccio di un adolescente arrabbiato, che ovviamente ha vissuto una vita di emarginazioni che l’ha reso incapace non solo di scendere a patti con la parte più sensibile della sua personalità, ma anche solo di fare un sorriso che non sia terribilmente inquietante. Sono molto curioso di capire come si evolverà nei numeri successivi, perché è ovvio che il suo percorso sarà costellato di aperture sempre più grandi verso il mondo esterno e delusioni ancora più cocenti che scateneranno la sua rabbia.

C’è insomma tantissima carne al fuoco sulla griglia di questo manga a base di consumismo, spazzatura e traumi e l’ottima salsa con cui viene servita è una veste grafica a cui il classico formato del tankobon sembra stare decisamente stretto.

Alcune volte, infatti, l’occhio fatica a gestire il dinamismo e i dettagli di alcune scene, che finiscono per diventare più confuse che esaltanti, ed è un peccato. Il tratto nervoso, moderno e “urban” di Gachiakuta (non chiedetemi come mai, ma la prima cosa che mi è venuta in mente come paragone è Dorohedoro) meriterebbe il giusto spazio ed è sicuramente partecipe del successo che l’opera sta riscuotendo in chi è alla ricerca di un nuovo shonen a cui appassionarsi.

Insomma, se ancora non lo avete messo nel vostro radar, date una possibilità allo sporco, assurdo e rabbioso mondo di Gachiakuta, se continua così potrebbe diventare la prossima grande saga a cui il mondo dei manga ci ha ormai abituato.

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