In “Striking Vipers”, la prima puntata della quinta stagione di Black Mirror, due amici si re-incontrano dopo anni all’interno della realtà virtuale di un videogioco picchiaduro. Entrambi hanno sfondato la porta dei quaranta, ma non potrebbero essere più diversi: Karl è uno “scapolo rampante”, gestisce un’etichetta discografica e ogni mattina si spacca di addominali; Danny è sposato, sessualmente frustrato e pure un po’ imbolsito. Nel gioco diventano rispettivamente Roxette (una lei) e Lance (un lui), entrambi di almeno vent’anni più giovani. In quello che sarebbe dovuto essere un semplice divertissement succede qualcosa, e all’interno del gioco il rapporto fra i due cambia completamente.
Fra acrobazie sessuali, confusione e sensi di colpa, l’episodio ha raccolto opinioni contrastanti. I critici ne rilevano la scarsa profondità, la timidezza, l’incapacità di sezionare il proprio oggetto fino in fondo. L’episodio vorrebbe parlare di fluidità sessuale, di desiderio queer, ma non andrebbe oltre qualche breve intuizione e vago suggerimento, e in ultima analisi mancherebbe il bersaglio.
Altri sembrano invece apprezzarne i toni, più ottimisti di quelli a cui la serie ci ha abituati, e in questa luce soffusa di sentimenti e conciliazione trovano abbastanza meriti da poter “scusare” l’indeterminatezza di fondo. E invece l’indeterminatezza è proprio il merito principale della puntata. Ben lungi dal voler semplicemente rappresentare un desiderio socialmente non conforme, Striking Vipers esplora il territorio battuto ma sempre accidentato del concetto di “persona” nella prospettiva post-umana della singolarità, o della digitalizzazione della coscienza. Gli esiti non sono rivoluzionari, ma confermano lo spirito seminale che innerva il progetto di Brooker.
Nell’indeterminatezza, comunque, le letture più superficiali e meno ambiziose non sono certo impossibili. In questo senso, a un primissimo livello Striking Vipers non sarebbe altro che la stranota parabola della crisi coniugale declinata in salsa tech. E in effetti il finale sembra proprio suggerire questa chiave di lettura: la crisi viene risolta riportando il tutto alla stabilità di un accordo, e la stranezza del desiderio di Danny diventa irrilevante di fronte alla sua normalizzazione - o meglio ancora, alla sua normazione.
In questa prospettiva avremmo fra le mani una banale storiella sui limiti della monogamia, aggravata dal fatto che qualunque possibilità di rottura del paradigma di relazione tradizionale viene neutralizzata dalla chiusura del desiderio nella gabbia del “una volta all’anno” - necessitata dalle esigenze narrative, non per forza criticabile ma comunque ben poco innovativa. Ma proprio perché troppo banale, questa lettura va abbandonata. A un Black Mirror che tradisce la propria cifra stilistica per farne i panni nuovi con cui rivestire idee vecchie non si può (né si vuole) credere.
Più plausibile allora (secondo livello di lettura) che sia proprio il desiderio a essere l’oggetto della narrazione. Per qualcuno la puntata proverebbe a esplorare le dinamiche della bromance, un’amicizia fra uomini così forte da sfidare i limiti dell’identità di genere maschile. Nella bromance i sentimenti sono palesi, esibiti: le lacrime diventano ammissibili, gli abbracci anche. Il sesso no. In effetti il limite del concetto di bromance coincide con l’inizio della sfera sessuale; ed è un limite così costitutivo del concetto stesso da rendere discutibile questa lettura.
Cosa resta, allora? Un desiderio omosessuale? Ma il bacio fra Karl e Danny (al netto degli onnipresenti dubbi) ci dice di no, spinge il limite dell’interpretazione un passo ancora più in là, suggerisce che il punto sia un altro, che la risposta vada cercata altrove. E forse una risposta non c’è, perché la domanda è malposta.
Arriviamo così al terzo livello, al quale Striking Vipers non parla di desiderio socialmente non conforme: parla di desiderio non decifrabile. La domanda “is this gay?” non funziona, perché lo stesso schema desiderante che assume (il desiderio omosessuale), insieme a tutti quelli che lo circondano e che contribuiscono a definirlo (tra cui il desiderio eterosessuale), semplicemente non è adatto a spiegare quella particolare dinamica desiderante. Negli spazi del cyber, del virtuale, è possibile immaginare una configurazione del desiderio semplicemente troppo diversa da ogni altra, impossibile da leggere secondo le categorie desideranti che utilizziamo nel “mondo reale”.
Va detto che questa interpretazione si basa su qualcosa che la puntata non mostra esplicitamente: il fatto che per Danny, proprio come per Karl, l’oggetto del desiderio sia quella combinazione unica e irripetibile fra il corpo di Roxanne e la mente del proprio amico. Poiché questa cosa non viene mai detta, non è escluso che la dinamica desiderante in realtà mascheri due distinti desideri decifrabili secondo le categorie ordinarie. In questa ipotetica lettura Karl sarebbe insomma bisessuale, aperto a un’esperienza sessuale mediata dal corpo femminile, attratto dalla personalità del proprio amico ma non anche dal suo corpo; e Danny sarebbe - be’, un triste quarantenne sposato, eterosessuale ma così frustrato che pur di scopare… Ma è una lettura sconfortante; e in fondo Danny sceglie di utilizzare la propria libertà annuale con Karl. Tanto basti per decidere di ignorare questa possibilità.
Già oggi conosciamo, almeno in parte, le strane configurazioni che il desiderio può assumere negli spazi virtuali. Nei giochi di ruolo online, dove ciascuno veste panni diversi dai propri, nascono desideri per soggettività che non esistono al di fuori del gioco. Ci si innamora di un avatar, e di fronte alla delusione (non così infrequente) di incontrarsi in carne e ossa e scoprirsi diversi, quel desiderio muore; oppure sopravvive, ma diventa altro dal desiderio nato online - l’oggetto del desiderio si trasmuta, da immagine virtuale diventa carne. “Sei diverso da come mi aspettavo”, oppure “sei come mi aspettavo”, ma comunque sei. Ciò di cui un giocatore di ruolo fa esperienza è (tendenzialmente) un desiderio continuo fra reale e virtuale; un desiderio che negli spazi digitali si produce secondo gli stessi schemi con cui si manifesta nel reale.
Proprio per questo, se è vero che Striking Vipers racconta qualcosa che può far risuonare facilmente le corde di un giocatore di ruolo, è anche vero che punta più lontano. Fra il reale e il virtuale qui c’è una frattura, una incomunicabilità che attribuisce al desiderio virtuale piena autonomia; che gli permette di sopravvivere al di fuori di qualunque incontro in carne e ossa, anzi: a dispetto di qualunque incontro in carne e ossa. In questo senso, il desiderio di Striking Vipers è molto più simile all’amore per un personaggio fittizio, con la differenza che in questo caso vengono superate sia le barriere dell’incoscienza che (soprattutto) quelle della disincarnazione, attribuendo all’esperienza digitale un innegabile, fortissimo statuto di realtà. Forse l’esperienza più vicina ma al tempo stesso opposta a quella di Striking Viper è il LARP: identici corpi per diverse menti (i “personaggi”), ma soprattutto una piena fisicità del fenomeno che rischia di essere gasolina per l’incendio del desiderio (in gergo: bleed-out). Nelle “larp crushes” il sentimento nasce nel giocatore, ma è per un personaggio (per quella sintesi tra corpo vero e identità fittizia inevitabilmente destinata a scomparire).
E in questo senso (siamo al quarto e ultimo livello) Striking Vipers prova a dirci qualcosa di nuovo su cosa significhi essere “persone” in uno spazio virtuale. Senza volerci addentrare nei meandri del mind-body problem, basti dire che uno degli elementi più scontati ma allo stesso tempo costitutivi del nostro pensiero è la dualità fra mente e corpo. Psyché per Platone, res cogitans per Cartesio, ma anche proprietà emergente di un cervello ridotto a impulsi elettrici, l’anima immortale si secolarizza nell’idea cyberpunk di una riproducibilità del sé al di fuori e a prescindere dal corpo, entro gli spazi virtuali della Rete. Questa separazione fra mente e corpo ha come prima e più ovvia conseguenza l’idea che il vero sé, il vero soggetto, sia la mente (o il cervello nelle accezioni materialiste); e questa idea è tradizionalmente rafforzata da narrazioni che attribuiscono al corpo sempre meno importanza ai fini della definizione di quella misteriosa unità che è l’individuo. Salvo alcune notabili eccezioni (una per tutti: Ghost in the Shell) il paradosso della nave di Teseo sembra essere roba vecchia.
In questo quadro di insanabile cesura fra spirito e materia, è proprio nel segno del desiderio che Striking Vipers riconduce la dualità a unità. Karl non desidera Danny né l’avatar di Danny; Danny non desidera Karl né l’avatar di Karl. Entrambi desiderano quell’unica, nuova combinazione fra corpo e mente che l’altro è. Non sono Danny né Karl a scatenare il desiderio, né Lance né Roxette: nell’essere oggetto di desiderio, Danny-Lance e Karl-Roxette diventano a tutti gli effetti persone diverse, persone nuove. E suggeriscono qualcosa che le riflessioni tradizionali sono solite negare: l’idea che il corpo non sia poi così irrilevante, che nella combinazione fra materia e spirito si celi qualcosa di nuovo. Non nella semplice riconduzione della coscienza al cervello (che al dualismo Cartesiano oppone un monismo secolare comunque piegabile alle fantasie cyberpunk, lì dove una coscienza neuro-elettrica localizzata nel cervello è comunque astraibile dal resto del corpo), ma nella unitaria attribuzione dello statuto di persona a quel tutt’uno indiviso di corpo e mente.
Per certi versi, l'idea che ciascuno "sia" quell'unità indivisa è una banalità; e peraltro ripropone il già citato paradosso della nave di Teseo: considerato che ogni notte nel nostro corpo muoiono miliardi di cellule, possiamo davvero dire che il nostro corpo sia sempre lo stesso? Qual è la soglia oltre la quale avviene un cambiamento significativo? Striking Vipers sembra voler aggirare il problema inserendolo in una dimensione intersoggettiva: la soglia diventa così quella della percezione altrui. Lì dove un cambiamento della "forma apparente" scatena un desiderio altrimenti inesistente, si cela la differenza fra io e un altro. Una posizione analoga a quella di chi assegna preminenza al concetto di "sé relazionale"; all'idea cioè che si possa "essere persone" solo all'interno di una rete di relazioni - dentro quell'eterno riflesso del riconoscimento altrui in mancanza del quale cesserebbe ogni concetto di identità. Che idea avrebbe di se stesso, un uomo nato e cresciuto senza mai interagire con altri esseri umani?
In ogni caso il lavoro è fatto solo a metà. Se Danny-Lance e Karl-Roxette sono nuovi e autonomi oggetti di desiderio, non sono nuovi e autonomi soggetti desideranti. Il desiderio per Karl-Roxette è di Danny; il desiderio per Danny-Lance è di Karl. Come nel LARP, la reificazione dell’altro si scontra con la difficoltà di percepire il proprio personaggio dall’interno come un nuovo sé desiderante (e in fondo questa difficoltà sembra proprio segnare il limite fra “immersione nel personaggio” e disturbo dissociativo della personalità). Chi voglia quindi propugnare l’idea anti-futuristica di un’impossibile riconduzione del soggetto alla sola mente/anima/cervello; di una necessaria e inscindibile relazione fra corpo e spirito per la definizione del sé, dovrà cercare ancora. Può darsi però che la strada sia tracciata.