L'afrofuturismo che conosco viene da lontano.
Sono ingiallite le pagine de La mia Africa di Karen Blixen. Un volume Feltrinelli che lentamente si decompone al passare dei giorni, racconta la vita di una donna speciale; ricca, bella e intelligente e che mette in secondo piano il bagaglio autobiografico per sottolineare l'amore per i paesaggi di un'Africa unica e vera, quella fatta dalle persone. Ricordi di letture giovanili che insegnavano tanto, a guardare lontano e tremendamente vicino.
Le cose che sono lontane non ci fanno paura, siano virus nati in qualche campagna cinese o rivoluzioni sociali che ardono i palazzi di ideologie tronfie di capitalismo assassino. Tutto ci appare rarefatto, confuso, a volte anche bello perché travestito da moralismi nobili e perfetti. Ma questo non è un mondo leibniziano, niente è perfetto. E quando è vicino ce ne accorgiamo. Fa male, no?
Invisible Man
Brutalmente, critici e accademici in passato hanno posto un'etichetta su tutto lo storytelling partorito da autori di colore. Narrativa Negra. Fa ribrezzo solo a pensarlo; comunque la “narrativa negra” esce da uno stato di isolamento, e quindi finalmente tocca le corde della sensibilità della white people con i lavori di Richard Wright e in primis con Invisible Man di Ralph Ellison. Invisible Man è un romanzo epico-picaresco del 1952, dove l'autore afroamericano Ellison unisce il surrealismo all'espressionismo per poi approdare a contaminazioni musicali blues; che spettacolo.
La forza di Ellison è di non vergognarsi e codificare una volta per tutte una “cultura popolare negra”; prendendo in prestito le nomenclature dispregiative e usandole come medium identitari. Il risultato è un mosaico limpido e armonioso del mondo afromericano imbevuto di folklore, musica e tradizione popolare. Questi elementi lastricano un nuovo “percorso negro” che tutti possono percorrere a ritroso per riscoprire un passato doloroso ma utile. Il sangue degli innocenti ha sempre forgiato un futuro migliore, la storia è una severa maestra.
È curioso continuare a leggere il romanzo di Ellison, apparentemente scritto per la libertà personale (ingenuamente, personale) o del popolo “negro”, perché poi trasla il suo spirito dalla blackness alla lightness, vedendo nella luce bianca il raggiungimento di un nuovo eden. Ciò non si traduce, come possono pensare alcuni, al desiderio di diventare dei “negri bianchi”, bensì di creare un parallelismo potentissimo,
la blackness del popolo di Harlem è una metafora della decadenza occidentale totale che intacca anche la lightness
EccoEllison, colui che forgia eclissi letterarie e porta la Harlem Renaissance fuori dai quartieri di New York creando in tutto il globo, grazie anche l'aiuto dei precedenti artisti “negri” un cosiddetto movimento culturale che unì tutte le persone di origine africana perse in una diaspora sentimentale dai Caraibi all'Asia.
La forza di Ellison tuttavia, citando Francesco Pandri, non fu quella di essere uno scrittore negro ma uno scrittore e basta; dimostrando la volontà di creare arte pura convinse il pubblico e i razzisti che tutta la sua produzione andava oltre il colore della pelle, i suoi romanzi erano per l'umanità. Come tutta l'arte dovrebbe essere. Il dramma dell'invisibilità descritto da Ellison scioccò tutto il suo pubblico infatti, gli invisibili siamo noi tutti; il processo egualitario di Ellison si attua per contrasto, non elevando la sua condizione etnica o abbassando quella “bianca”, bensì condannando tutti alla povertà etico spirituale occidentale. L'inizio dell'afrofuturismo sociologico.
Quel giorno in un'università inglese
Dopo 6 anni dalla morte di Martin Luther King Jr. uno dei più grandi intellettuali africani, il nigeriano Wole Soynka, si sentì dire che la letteratura africana era una bestia selvatica che in realtà non esisteva, un animale leggendario al pari di una viverna. Tutto questo tra le aule del mondo accademico inglese dove lo stesso Soynka insegnava. Manco a dirlo la bestia letteraria nel 1986 vinse il premio nobel per la letteratura e Soynka divenne il cantore dell'Africa Sub-sahariana. La voce di Soynka è aspra e dura, a volte cruda e tagliente.
“Molti africani guardano ormai con sospetto e scetticismo le rivoluzioni. L'Africa è stanca di messia, perché molti messia di queste rivoluzioni si sono rivelati più inetti e sfruttatori persino dei vecchi padroni coloniali “ (intervista a IlSole24ore)
Soynka è un drammaturgo, crea e disegna nuove epiche moderne che porta sul palcoscenico mondiale non l'eroe ma l'uomo comune. Mitologie e leggende servono a costruire archetipi e nuove direzioni semiotiche, ma non c'è spazio per la codificazione di un futuro mitizzante; il teatro di Soynka è anti-epico perché è umano come la stessa Africa. Non ha bisogno di dei, paladini e principesse ma della comunità perché è l'unione dei popoli a garantire il futuro e non i preconcetti di potenze colonizzatrici. E come la terra deve essere abbandonata dalle potenze para-coloniali così anche l'immaginario deve essere bonificato dalla presenza sgradita del modello occidentale. Finché leggeremo giornali, guarderemo la televisione e ascolteremo solo il contro-canto di alcuni esponenti andremo a coltivare l'idea di una sub-Africa costruita su processi fittizi; ugualmente ciò è parallelo alla realtà della popolazione afroamericane. La decolonizzazione dell'immaginario è un processo purtroppo lento e costantemente messo in crisi da nuove istanze sociologiche e anti-culturali che abbassano la comprensione dell'Altro. Ma ci sono nuovi strumenti per realizzare tutto ciò, ovvero l'afrofuturismo.
E quindi vuoi dirmi che il fantasy e la fantascienza servono a qualcosa?
Come qualsiasi letteratura anche quelle di genere fantastico e speculativa sono connaturate da una loro valenza sociale, detenendo i poteri per formattare l'immaginario collettivo. Allo stesso modo l'orientalismo (fantastico e non) ha delineato i canoni per osservare l'oriente come un eterno medioevo; tale immagine standarizzata porta il lettore o l'osservatore medio a vedere nell'Oriente un mondo arretrato e assediato dai dogmi di un medioevo islamico. Errato, questa concezione deriva dai primi traduttori inglesi de La Mille e una Notte che descrivevano l'Asia a loro contemporanea con l'estetica e la verve narrativa della Persia di Sharazade; tutto ciò ho portato a sublimare un continente in una delle sue opere letterarie più famose.
Tant'è che anche la Disney incentivò tale meccanismo di occultamento realistico con la messinscena di Aladin propugnando l'idea di un immaginario oriente popolato da ladroni, tappeti volanti e geni della lampada.
L'orientalismo è la tendenza a osservare l'Est con strumenti distorsivi e parodici per colonizzare intellettualmente quei territori geografici che l'Occidente non controlla direttamente, instaurando perciò un meta-colonialismo retorico
A fronte di ciò già alcuni romanzieri e scrittori famosi proiettarono ne l'Africa novecentesca i pregiudizi per renderla in eterno una terra esotica da cui prelevare ricchezze o avventure. Il continente nero divenne, a seguito anche dei primi studi di antropologia cultura, uno dei locus più frequentati dalla narrativa pulp e fantastica. Cito per dovere di sintesi: la saga dell'impero di Zulù di Henry Rider Haggard che siglò anche il romanzo Le miniere di Re Salomone, nei cicli di racconti e romanzi dedicati a Tarzan di Edgar Rice Burroughs, in alcuni componimenti di Howard e in altri autori di Weird Tales che alimentarono quel genere letterario ancora oggi apprezzato del lost world, ovvero il mondo perduto. Si concretizza un’entità spaziale e geografica connotata di sense of wonder. La letteratura avventurosa e fantastica, incentrata nei contesti esotici africani, nasce come un riflesso di quegli interessi trasmessi alle masse dalle imprese degli esploratori e degli studiosi da campo, in stretto contatto con il mondo dell’Africa. Inoltre il continente nero iniziò a essere al centro di diverse diatribe socio-culturali, legate alle ipotesi evoluzionistiche dell’uomo e della civiltà umana. Il lost wolrd africano diventa un simbolo ammantato da una vivace metafora, ovvero scoprire il “fantastico” nascosto tra le montagne e le giungle di quell’antica terra significava riappropriarsi di una propria homeland, una patria semantica e primordiale, che lega gli uomini nel primitivismo e nel genuino contatto con la terra, abbandonata in parte durante i diversi movimenti migratori. L’Africa quindi non è una terra estranea ma rimane pressoché sconosciuta ai lettori, compito dell'afrofuturismo è delineare i tratti salienti del vero continente che non conosciamo.
Nel fantasy accorrono alcuni testi notevoli di matrice contemporanea, come Figli di Sangue e Ossa di Tom Adeyeni e Leopardo Nero Lupo Rosso di Marlon James. Ma è soprattutto nella letteratura fantascientifica e speculativa che gli ingranaggi rivoluzionari si innescano con successo.
Afrofuturismo, cos'è?
Il futuro non deve essere una terra straniera. Heinlein apprezzerebbe di certo. L'afrofuturismo è un genere letterario che nasce dal costato della fantascienza sociologica e rappresenta in linea di massima la summa tecnologica e sociale di un autore dalle origine africane. Una delle voci più cristalline dell'afrofuturismo è senz'altro Ocativa Butler che nei suoi immensi lavori ha non solo delineato i contorni del pensiero afrofuturista bensì ha propugnato la simbiosi con il femminismo.
Infatti i maggiori rappresentati di questa corrente artistica sono tutte donne dal grandissimo talento narrativo e personalmente tra le scrittrici che amo di più ovvero: N. K. Jemesin, Nnedi Okorofor (grazie Zona42 per avermela fatta conoscere) e Nancy Farmer.
Non solo riappropriazione mitico-evocativa di un passato autentico e di una homeland agognata ma realizzazione di un vero piano sociale che si snoda in varie urgenze: uguaglianza tra uomini e donne, rispetto della sessualità e quindi sensibilizzazione e normalizzazione del mondo queer e il poliamore. L'afrofuturismo è un meccanismo letterario che distrugge gli stereotipi con le sue “donne nere” che osano scrivere il proprio destino. Non solo rivalsa contro gli stereotipi ma ri-modellamento intellettuale dell'universo donna-Africa, dando a questo binomio autenticità e dignità.
Future, il nostro afrofuturismo
Dalla “narrativa negra” di Ellison ai drammi di Soynka è impossibile non tornare in Italia per parlare di Future edito da Effequ.
Future è una frontiera sentimentale, non cromatica o geografica. È un'antologia di racconti, scritti da ispiratissime donne di colore che forgiano una nuova sensibilità narrativa che non deve rimanerci indifferente. Così come non saranno mai dimenticate queste parole di Alesa Herero “Fin quando dovremo provare la legittimità alle nostre esistenze” nell'irresistibile racconto Eppure c'era odore di pioggia.
L'antologia racconta il futuro, le idee mai esplorate, i sentimenti soffocati in un petto palpitante, le ambizioni e le solitudini di donne afroitaliane. La bellezza è una ferita e questi racconti sanguinano copiosamente fino a tingere di sangue d'inchiostro le mani di tutti quei lettori che hanno avuto l'intelligenza di premiare l'editore leggendo questi racconti rari.
Rabbia, delusione e tristezza, a volte sono i sentimenti per tornare a un passato sepolto dalle ingiustizie. I racconti di Future trasudano maturità artistica nonostante la giovane età delle autrici coinvolte, di certo sapientemente guidate dalla scrittrice italosomala Igiaba Sciego.
Risulta difficile tratteggiare, in maniera sintetica tutti i racconti, ma una cosa è certa. Se non avessi letto Future questo articolo non sarebbe mai nato perché l'amore che provano queste autrici mi ha fatto capire che avere un posto nel mondo in cui viviamo non è mai così scontato. Dobbiamo decolonizzare il nostro pensiero e trasformarlo in una casa per tutti.