Inizio 2020, sui social gira il giochino dei concerti: il più bello, il primo, l’ultimo, il prossimo, il rimpianto. Sono snob, non partecipo. Ma la mia mente torna comunque al luglio 2003.
Piazzale Michelangelo, Firenze, concerto dei Radiohead. Forse il primo importante, forse il primo strano, col senno di poi: poca gente rispetto ai numeri dei Radiohead odierni; c’era spazio per scegliere se starsene in disparte o ammassarsi a pogare (sui pezzi più movimentati di Hail to the thief, uscito quell’anno); ci si stonava.
Su Everything in its right place fumo una cosa olandese che mi portavo dietro da qualche giorno. Me l’ero lasciata per quel momento. Ovviamente non avevo idea di cosa fosse Everything dal vivo. Il groove. L’ipnosi. Il salto nel vuoto.
E poi la voce di Thom Yorke che diventa puro suono, si riavvolge su se stessa mentre la band si defila, gli strumenti suonano da soli e le luci mandano in loop la scritta Forever, Forever, Forever sul palco vuoto.
Un party digitale, la festa delle macchine. Per me poteva durare in eterno. Stavo ascoltando il suono del millennio nuovo, quello iniziato da appena tre anni.
Tre anni prima, sul finire del 2000, Everything in its right place apriva Kid A. L’album fu uno scossone prima di tutto per la carriera e la percezione dei Radiohead da parte del pubblico di massa. Non è da tutti fare un disco potente come Ok Computer (1997), portare il rock in una certa direzione, essere acclamati da tutti per averlo fatto, e poi dire: “Sapete cosa? Al diavolo”.
Sulle prime Kid A sembrò un disco futurista in un mondo che tutto sommato non era cambiato granché alla mezzanotte del 31 dicembre 1999: niente macchine volanti, niente computer in tilt, nessuna apocalisse atomica.
In realtà Kid A era un disco contemporaneo.
E lo era anche per le modalità di diffusione: prima i blips rilasciati sul web, poi i brani che i fan avevano registrato nei concerti di prova in Europa e fatto circolare su Napster prima ancora dell’uscita dell’album. In una rete ancora informe per infrastruttura e diffusione, i comportamenti indotti da Kid A nel pubblico, con la complicità della band, erano già quelli di oggi.
Quando uscì, Kid A arrivò comunque in cima a tutte le classifiche, anche per via dell’hype enorme attorno ai Radiohead. L’attenzione non venne certo meno quando ci si accorse che il disco non era l’album rock definitivo ma un’opera d’arte profonda, complessa, infinitamente stratificata per produzione e riferimenti. Ancora oggi ascoltare Kid A in cuffia significa scoprire piccoli segreti musicali sfuggiti ai precedenti ascolti. Sono passati vent’anni, ma non si avverte alcun effetto vintage come succede – Gott vergib mir! – con alcune sperimentazioni dei Kraftwerk, ad esempio.
Kid A abolì le melodie e le chitarre – o meglio, le maciullò e le mascherò – portò in risalto le macchine e il software e si presentò come un oggetto strano fatto di puro suono e ritmi ancestrali. Dentro c’erano i fantasmi di fine millennio e i terrori tribali di quello nuovo, in cui la Storia, ferma al palo dal 1989, si apprestava a ripartire col crollo delle Torri.
Il primo bambino clonato, così come l’androide, non era una forma nuova: era la forma ibrida di un’umanità nuova. Un incubo applicato negli anni ’90 agli animali come in un romanzo di Philip K. Dick, e che adesso toccava agli uomini – in forma di meraviglia, forse, per gli abitanti della Silicon Valley, che all’epoca passavano ancora di bolla in bolla nell’inconsapevole attesa del martire Jobs, del profeta Zuckerberg, del prometeico Musk.
L’ibridazione uomo-macchina era raccontata dallo stesso passaggio dall’analogico al digitale nella produzione del disco. Dal passato elettronico di metà anni ’70 – questo sì, vintage – arrivavano i campioni di Lansky e Krieger su cui si sosteneva Idioteque, la discoteca per replicanti che faceva anche da spot su MTV, mentre dal futuro arrivavano i paesaggi e i presagi del pianeta ghiacciato e inospitale dell’eponima Kid A (e della copertina del disco).
L’androide paranoico di Ok Computer non era poi tanto diverso da un paranoide dickiano, in grado di simulare emozioni fino a illudersi di essere umano. Di colpo era come se il sentimentalismo romantico di No surprises o ancora prima di Creep fosse stato cantato da una macchina che non aveva ancora scoperto di essere una macchina, e che adesso (e poi con Amnesiac, del 2001) parlava finalmente la sua vera lingua.
Da un sample di Kid A si sarebbe staccato un piccolo pezzo di carbone, Black Swan, proposta poi da York nel suo The eraser e ripescata in A scanner darkly (2006), allucinato film in rotoscope di Richard Linklater tratto, non a caso, da Philip Dick.
Forse Kid A era un gigantesco test di Touring in forma di album musicale, sperimentato da milioni di ascoltatori un attimo prima che le macchine prendessero il sopravvento – non pensate solo alla robotica, ad Alexa, alle auto senza conducente: pensate ai bot, alle risposte e ai commenti automatici su Instagram o Messenger, ma anche agli scambi di like lasciati in giro come se fossimo noi gli automi; pensate alla velocità a cui gira oggi la nostra mente stimolata dal digitale, a come stocca le informazioni, a come dispone di ciò che un tempo chiamavamo attenzione e memoria.
Il sogno delle macchine che suonavano in assenza di umani aveva già attraversato molti artisti, da Marinetti agli stessi Kraftwerk fino a Lou Reed e John Cale alla corte di Andy Warhol. In Kid A diventava la realtà per un pubblico sterminato – cioè, non più solo quello dell’underground elettronico che evidentemente i Radiohead avevano frequentato negli anni ’90. Ma erano pur sempre macchine progettate e avviate da uomini: un pezzo come National Anthem si scaldava grazie all’esplosione di umanissimi fiati.
D’altra parte sarebbero stati gli uomini a rendere piuttosto complicata la vita sulla Terra, in seguito. “È il disco per le generazioni che erediteranno un mondo distrutto” avrebbe detto Yorke dopo la pubblicazione di Kid A. Ma più che le sue parole sarebbero stati i suoni del disco a raccontare il mondo distrutto, freddo e fumante insieme, dei vent’anni successivi.
Questo articolo fa parte della Core Story dedicata all’anno 2000