Non ho mai avuto un gran fascino per Alan Wake. Quando lo giocai la prima volta, ne rimasi veramente molto, molto deluso: non digerivo il suo gameplay farraginoso e ripetitivo e i suoi mostri un po’ tutti uguali e non esattamente ispirati.
I save point o erano distantissimi o erano da attivare coi generatori mentre si dovevano schivare piogge di asciate da boscaiolo in faccia. Se morivi ripartivi lontanissimo, con tutti i nemici da abbattere o da cui scappare di nuovo. Per me era appagante come farsi prendere a schiaffi col guanto che usi per spazzolare il gatto.
Devo dire la verità? Nemmeno il suo cavallo di battaglia, la sua narrativa, all’epoca mi aveva conquistato: sì, adoravo la struttura a episodi, diventata seminale in seguito con i giochi Telltale, ma mi pareva più una scelta estetica che altro.
Belli i riferimenti smaccatissimi a Twin Peaks, ma alla fine mi pareva di star solo impersonando per l’ennesima volta un tizio scostante che deve salvare la sua bella, pure con una voice over che ti descriveva passo per passo quello che vedevi già sullo schermo. Dieci anni prima ero stato traumatizzato nell’anima da Silent Hill 2, con la sua trama disturbante di pentimento, rimorso, espiazione e mostri con la faccia da Piramide. Probabilmente era quello che cercavo in un horror.
In ultimo, non aiutava nemmeno un protagonista che per me non trasudava esattamente carisma, seguito da un ancor più odioso personaggio di supporto, in teoria spalla comica e in pratica bramato ricettacolo di ceffoni.
Prima di affrontare Alan Wake 2, ho voluto rigiocare la Remastered del primo episodio, per rinfrescarmi la memoria e godermi anche i legami con Control, che invece è tra i giochi che più mi sono entrati in testa come immaginario.
Alcune delle cose che non mi erano piaciute allora continuano a piacermi poco: in particolare ritengo che il secondo episodio, Taken, sia lo scoglio più grosso da superare per farsi andare giù il gameplay. Eppure, sarà l’averlo già finito una volta, saranno le ore passate a farmi prendere a calci nei denti su titoli più ostici, ma con questa run ho rivalutato molto le cose.
Dopo quel maledetto secondo episodio, Alan Wake è andato giù liscio, il tempo di impratichirsi con la schivata, di uscire dall’abitudine di conservare i consumabili. Padroneggiato tutto questo, capisci che il gioco ti mette a disposizione tutto ciò di cui hai bisogno e anche di più per tenere botta fino alla prossima oasi. Insomma, lo dico? Continuerà a non restare tra i miei preferiti, ma su molte cose ho rivisto molto il mio giudizio.
Aver fatto pace con Alan Wake mi ha permesso di apprezzare di più la storia e seguirla di più. E allora ho cominciato ad accorgermi di alcuni piccoli dettagli e formarmi un quadro in testa…
…e se questo gioco non avesse mai parlato della forza dell’immaginazione? Se narrativamente il suo tema fosse sempre stato un altro, indipendentemente da ciò che poi i personaggi sono diventati con Control e Alan Wake 2?
NON È UN LAGO, È UN OCEANO
Credo che non esista un solo momento in cui Alan Wake, nel titolo a lui dedicato, sia scritto come un personaggio piacevole con cui avere a che fare. Come in molti giochi Remedy, sono i particolari a fare la differenza e quindi ha senso ascoltare i discorsi di Alice o di Barry, rispettivamente la moglie e il migliore amico/agente letterario, per farsi un’idea del suo vero carattere.
Entrambi ne parlano come di una persona violenta, con scatti di ira che almeno una volta sono degenerati in rissa.
Alan è inizialmente afflitto da un blocco dello scrittore, una situazione abbastanza classica e molto à la King. Dovremo però arrivare quasi alla fine per aggiungere un altro carico, quello della dipendenza dall’alcol.
Mettendo in fila un po’ di elementi possiamo ricostruire il problema principale: Alan è diventato famoso scrivendo di Alex Casey. Successivamente è diventato schiavo del suo successo, al punto da voler “uccidere” Casey. Dopo Casey? Alan è incappato in una sindrome dell’impostore che è degenerata in un blocco. Nell’ultimo episodio, durante il tour promozionale dell’ultimo romanzo sul detective, Alan beve già come una spugna: occhiali da sole e analgesici a tutto gas.
La vacanza a Bright Falls per lui è davvero la speranza di staccare dalla scrittura, per lei il tentativo di tirarlo su dal fondo con una macchina da scrivere fatta trovare nel cottage in affitto e un appuntamento da Hartman, il locale “psicologo degli artisti”.
Qui però Alice viene rapita dalla Presenza Oscura e l’amena vacanza si trasforma in un tranquillo weekend di paura.
Ma parliamo un po’ dello psicologo. In tutto il gioco, Hartman è dipinto come una persona sinistra, che sembra far parte di una strana cospirazione per impedire ad Alan di trovare Alice e, quasi come fosse una conseguenza diretta, sanare Brights Falls.
È dipinto in modo molto stereotipico: con una bella dose di gasligthing mascherato da psicologia, fa pressioni ad Alan perché, tramite la sua scrittura, continui a rafforzare il male in paese.
Quando la sua clinica viene attaccata dall’Oscurità, Alan non si fa scrupoli a chiudere Hartman in una stanza a tu per tu con essa, decretandone la fine (fine che sarà poi l’inizio di un’esistenza da mostro nella sede dell’FBC, in Control). Sorride anche quando lo fa. Giustizia è fatta.
Ma giustizia per quali crimini?
Se prendiamo solo gli eventi del gioco, e ignoriamo un attimo il successivo Control, nulla ci fa pensare che Hartman faccia parte di una cospirazione per rafforzare la Presenza Oscura, visto che essa agisce senza la partecipazione volontaria di intermediari umani, a meno che se non siano posseduti. E il fatto che Hartman non sia posseduto è piuttosto esplicito: non sarebbe così terrorizzato nel venir chiuso da Alan insieme alla Presenza.
Inoltre, Hartman non fa che smontare le convinzioni di Alan Wake su una presenza soprannaturale in città, il che è un atteggiamento strano per qualcuno che voglia usare gli artisti per entrare in contatto con essa. È vero che in Control Hartman sembra molto meno scettico sul paranormale, anzi.
Control è però un po’ un caso a sé: è un titolo realizzato anni dopo e in cui si ipotizza che l’immaginazione di Alan Wake abbia dei pesanti influssi sulla realtà, al punto da scriverla in presa diretta. Quindi non è impossibile che Hartman sia stato retconnato da Remedy e Alan Wake, nella realtà e nella finzione.
Ma se Hartman non ha intenzioni nefaste o cospirazioniste verso Alan, qual è il motivo per cui lo scrittore lo odia così tanto?
Hartman, pur con dei modi tremendi, è il primo a dire ad Alan Wake che l’oscurità è dentro di lui, nella sua mente, che deve prendersene responsabilità. Nel suo studio ci sono le registrazioni delle sedute con Alice, che descrivono il marito come una persona violenta.
Hartman sa che Alan sta toccando il fondo, il Luogo Oscuro, e che per evitare questo deve mettere da parte le allucinazioni e lavorare su se stesso.
Avete presente quel famoso assioma per cui il paziente di un percorso psicoterapeutico è il primo a dover compiere il primo passo, riconoscendo di avere un problema? Ecco, Alan piuttosto che fare quel passo dà il suo terapeuta in pasto alle tenebre.
BUON VECCHIO BARRY… O MAGARI NO.
Per fortuna che c’è Barry. Barry l’agente, Barry il migliore amico. No, Barry non è esattamente un buon amico. Per tutta la durata della storia non ci aiuta mai, se non nei momenti in cui anche la sua pelle (o il suo business, rappresentato da Alan) è a rischio.
Un esempio? Beh, se diamo per buono che Alan abbia avuto un passato di abuso di alcol, potrebbe non essere esattamente una mossa da amico farlo ubriacare in una casa appena ripulita dai Posseduti, per giunta in piena notte.
Il punto è che Barry è indulgente. Indulgente nei suoi stessi confronti e soprattutto verso le dipendenze di Alan e le conseguenze del suo alcolismo. Se da una parte è l’ideale compare di bisboccia, dall’altra puoi star sicuro che da questa bisboccia eterna non ti ci tirerà mai fuori.
Non aiuta mai Alan, né come amico né come elemento di gameplay.
Certo, rientra con tutti i piedi nel cliché della spalla goffa e comica, ma le cose si fanno ancora più ambigue nel secondo e ultimo DLC, The Writer.
The Writer è ambientato nel Dark Place, il Luogo Oscuro in cui Alan è ormai prigioniero e in cui la sua immaginazione ha la capacità di far apparire oggetti che reputa utili… oggetti o persone, come appunto Barry. Quello che vediamo nel DLC insomma non è il vero Barry, ma una presenza fantasmatica creata in qualche modo da Alan.
Però è importante notare come le sue battute siano sinistre, tese a far venire all’amico il dubbio che stia impazzendo. Più o meno come Hartman, ma senza la volontà, sincera o meno che fosse, di “aiutarlo”. È una presenza più infestante che adiuvante.
Soprattutto è interessante il fatto che (occhio allo SPOILER) si riveli essere l’avversario finale del DLC e di riflesso di un po’ tutto il primo Alan Wake. L’ostacolo da superare per iniziare la fuga verso la luce.
Quale ostacolo migliore di chi nella realtà ti dice che è tutto ok, che vai benissimo così, e che in quel luogo oscuro contribuisce a fartici progressivamente affondare?
O di chi ti ci vuole tenere a tutti i costi, lamentandosi di non voler essere abbandonato, come succede poco prima dello scontro finale tra i due?
Insomma, è chiaro: il Dark Place è il fondo che Alan Wake ha toccato come alcolista e da cui deve risalire.
UN SOMMOZZATORE PROVVIDENZIALE
Thomas Zane è un predecessore di Alan Wake: un poeta (non solo, ma qui la questione si è incasinata da Control in poi), un artista, uno che ha affrontato la stessa ordalia del protagonista, trovandosi a perdere una persona che amava nell’oscurità. È una delle prime figure adiuvanti che conosciamo, se non la prima in assoluto, che appare sotto forma di luce o sommozzatore e che istruisce Alan sui modi di combattere l’Oscurità.
Anche se da un certo punto in poi, molte cose di questo personaggio sono state messe in discussione o riscritte, in Alan Wake è una guida. È quello che c’è passato per primo, quello che ha vissuto lo stesso viaggio che sta vivendo Alan, sprofondando nel Dark Place e sparendo dall’esistenza.
È non casualmente un sommozzatore, qualcuno che si è inabissato nell’oscurità e che in qualche modo si sa orientare meglio in essa, pur essendone ancora prigioniero. Insomma, è più in là nel percorso di Alan e, per questo, proprio perché sa che quella tenebra è reale, legata all’anima di chi vi si immerge dentro, è per lui l’unico mentore meritevole di rispetto.
Nessun altro può fare da guida allo scrittore. Non Barry, perché – come dicevamo – di aiutare Alan non gliene importa nulla. Non Alice, perché quella tenebra, almeno prima di Cauldron Lake, non l’ha toccata e può solo avanzare degli aiuti amorevoli ma goffi, tipici di chi è “all’esterno”. Non lo è Hartman perché ha un approccio “accademico” che tiene in nessuna considerazione la persona che gli sta davanti.
Quindi, Zane, il fratello maggiore.
Con Zane a guidarlo, Alan inizia davvero quel percorso di autocoscienza di cui ha bisogno e, se si legge il gioco come una metafora delle dipendenze, ci sono alcuni passaggi fortemente simbolici.
Nelle fasi finali del gioco, Alan si trova infatti faccia a faccia con Mister Scratch, il suo alter ego oscuro, molto simile all’ “Evil Cooper” di Twin Peaks, se non una diretta citazione.
Vedere un se stesso malevolo e violento, nel proprio percorso di crescita, è accettare il fatto che un lato tenebroso di noi, un prenderne atto per oggettivizzarlo e imparare a gestirlo. Alice, in una registrazione di Hartman, dice che a volte le sembra che Alan abbia il volto di suo marito ma non sia esattamente lui.
È tutto qui, nel primo Alan Wake, Mister Scratch: una parte di se stessi che solo alla fine il protagonista può guardare dall’esterno.
Per quello Zane raccomanda ad Alan di non preoccuparsi troppo di badare a lui, almeno per il momento. Ci sarà modo di lavorare su quel doppleganger che così estraneo non è.
NON È UN OCEANO, È DIPENDENZA.
Tra tutti quelli attorno ad Alan, però, è per forza di cose la moglie Alice a essere più vicina emotivamente a lui e a cercare soluzioni al suo malessere. Il viaggio stesso a Bright Falls è il tentativo fallito di risolvere le cose.
Questa sua preoccupazione, questa incapacità di mettere una linea tra lei e il buio nell’animo di Alan, la rendono la perfetta candidata per essere risucchiata nella stessa oscurità del marito, in quel dark place in cui non solo si sprofonda da soli, ma ci si trascina chiunque tenda una mano per aiutarci.
Il viaggio che fa Alan sembra, alla luce di questo, sostanzialmente un percorso per rendersi conto di essere lui una Presenza Oscura. Un percorso per gettare la luce della verità sull’autocompiaciuta illusione che Mister Scratch sia solo un mostro e che quelle ombre non abbiano nulla a che fare con noi.
Il tocco di classe narrativo, specie interpretato in questa chiave, è nel finale: il solo modo che ha Alan di far riemergere Alice dal gorgo, dopo avercela trascinata, è uscire (temporaneamente?) dalla sua esistenza, immergendosi al suo posto nel dark place con la consapevolezza che lasciarselo alle spalle sarà un lavoro molto lungo.
In questo è emblematico che la fuga di Alan sia soggetta ad altalenanti scossoni: al termine del primo DLC (The Signal), sprofonda nella convinzione che uscire sia impossibile, per poi recuperare la propria determinazione alla fine di The Writer.
La determinazione non basta a uscire: basta a iniziare a voler uscire.
Il percorso per fuggire da un luogo oscuro, può esser fatto solo un passo alla volta.