La serialità televisiva degli ultimi cinque/sei anni ci ha permesso di giocare al viaggio nel tempo. C’è chi ha cavalcato l’onda della nostalgia per gli anni ’80, chi sta cavalcando quella per gli anni ’90, e c’è invece chi spostato indietro le lancette dell’orologio fino a storie del passato recente che non erano ancora pronte a finire. Scorrendo la lunga lista dei revival che hanno riportato in vita serie terminate anche da più di un decennio, non posso fare a meno di chiedermi… Sono le storie che hanno ancora qualcosa da raccontare, o siamo noi che non siamo prontə a vederle finire?
Da fan della stragrande maggioranza degli show sottoposti a revival o forniti di sequel, guardo ovviamente tutto. Non sempre ne gioisco, ma la curiosità e il cuore mi convincono comunque a dar loro una chance. “X-Files”, “Una mamma per amica”, “Veronica Mars”, “Will & Grace”, ora “Dexter” e a breve “Sex and the City”. I morti sorgono dalle proprie tombe, oppure sono orsi appena usciti dal letargo? Metafora a parte, molto spesso la prima immagine che mi salta alla mente, a prescindere dalla qualità dell’operazione, è quella del giovane anziano che gira in bici di notte nel film “Il seme della follia” di John Carpenter. A volte appare come un ragazzo, altre come un vecchio rugoso e catatonico, ma l’azione che compie è sempre la stessa: pedala e tenta di fuggire senza riuscirci mai. Perché il giovane anziano è frutto della scrittura di Sutter Cane, la storia ha bisogno di lui, ma lui non ha più bisogno della storia, è intrappolato in un loop.
Non starò a chiedermi il perché dell’appeal produttivo dei revival, la risposta sta quasi immancabilmente nei soldi, ma mi chiederò il perché della loro fortuna presso il pubblico che li guarda (again, me compresa, non sto certo giudicando). Cosa dice di noi l’entusiasmo per una serie che torna uguale a se stessa, con gli stessi interpreti e poche altre novità? Mi sorge un dubbio spaventoso: temo che delle storie ci importi il giusto, ma moriamo dalla voglia di vedere come sono invecchiati i nostri personaggi preferiti, soprattutto se quando li abbiamo seguiti la prima volta avevamo più o meno la stessa età. Noi siamo invecchiati, e la soddisfazione di vedere che anche i nostri idoli hanno subito la stessa sorte potrebbe essere il sordido segreto che si cela dietro la fame di revival. Non ci avrebbe fatto meglio una nuova stagione di “Glow” invece di un secondo finale di “Dexter”? Molto probabilmente sì, e avremmo bisogno anche di vedere interpreti maturə o anzianə in scena senza essere legati al successo di un prodotto già collaudato.
In sostanza, vecchi/e sì ma solo se li abbiamo amatə quando ancora non lo erano, perché la vecchiaia fa paura, terrore, ribrezzo, più di fantasmi e killer sotto al letto. Oppure, vecchi/e sì se ci troviamo nel mondo dell’horror. Mentre in tv troviamo la versione invecchiata di volti familiari, il cinema horror utilizza (o meglio, torna a utilizzare) l’invecchiamento come fonte di orrore, come peggior scenario possibile, addirittura più indesiderabile della morte stessa. A pensarci bene, lo scopo è sempre lo stesso: esorcizzare il pensiero del deterioramento umano portandolo agli estremi, perfettamente amichevole o totalmente malvagio, gentile compagno di avventure o demone infernale assetato di anime.
In alcuni rari casi si è tentato l’approccio “vecchi alla riscossa”, come nei due film Amazon Original “Bingo Hell” e “The Manor”, ma i risultati più genuinamente spaventosi si devono alla doppietta firmata M. Night Shyamalan, “The Visit” e “Old”, più i recenti “Relic” e “The Dark and The Wicked”. La vecchiaia ha sempre fatto paura, anche ai mostri. I vampiri smettono di invecchiare, le streghe rubano sangue o energie ai bambini per trasformarsi da megere a bellissime fattucchiere, e l’ossessione (soprattutto attribuita alle donne) per la gioventù ha prodotto addirittura un sottogenere a sé, l’hagsploitation (da hag = vecchiaccia o strega, ormai sinonimi) come in “La morte di fa bella”. Le donne hanno particolare rilievo in questo tipo di film, essendo quelle che ricevono maggiore disprezzo andando avanti con l’età.
Se un uomo anziano diventa saggio e affidabile, una donna anziana diventa saggia e rancorosa, forse perché la saggezza data dall’esperienza le conferma di aver dovuto lottare tutta la vita contro un sistema pensato per annientarla. Vi pare strano che le vecchie siano un filo arrabbiate? Con la vecchiaia viene inoltre meno il grande dono/maledizione che è la fertilità, e chiaramente una donna priva della possibilità di fare da incubatrice perde valore, forse si riprende addirittura il corpo su cui tutti hanno avuto da ridire per decenni, e questo sì che fa paura. Sul corpo femminile si gioca spesso la battaglia dell’horror vecchiocentrico, oggi meno incentrato sulla vanità dell’apparire e più attratto dalle possibilità del body horror, dei segni di decadimento fisici e mentali, sulla mostruosità intrinseca della donna non più fertile, che infetta, divora, fa perdere il senno, intercede per forze infernali.
Il meccanismo funziona, ma la formula rischia di diventare stantia alla svelta, perché se il nesso tra vecchiaia e morte rimane innegabile, l’insistenza sul lato oscuro della terza età puzza anche un pochino di propaganda. Quale immaginario si sposa meglio con la società della performance e con l’incessante domanda di efficienza del capitalismo se non quello in cui si lanciano giù da una rupe gli anziani che non possono più produrre capitale economico o umano? La sinistra dovrebbe forse ripartire dalle vecchie?