Site icon N3rdcore

The Grudge - Un passato che è meglio lasciare sepolto

La saga di The Grudge si può annoverare senza dubbio tra le più longeve del filone horror, specialmente quando si hanno perfino due paesi differenti a produrne le pellicole.

Mentre in Giappone il successo è da individuarsi nelle forti radici folkloristiche che l’accompagnano l'idea, in America il nome di The Grudge viene perfino spesso confuso con il vicino The Ring, cosa che fa già ben capire quanto la situazione sia di per sé abbastanza precaria. Nicolas Pesce, insieme alla produzione di un certo Sam Raimi, si è quindi lanciato nell’impresa di creare un reboot/continuo della trilogia precedente di The Grudge e rimanere vicino allo scenario giapponese, piazzandosi come un interquel tra i primi due film arrivati da noi.

L’obiettivo è, come ovvio, quello di riportare in vita la maledizione di Ju-on e di spaventare di nuovo il pubblico dell’occidente, ormai non più così attratto dal terrore orientale. Purtroppo però l’unica paura rimastami dopo la sua visione è quella di poter vedere continuare ancora la storia di questo reboot.

The Grudge ingrana senza dubbio bene e infatti mi ha colpito particolarmente nelle prime battute per come la regia ha scelto di presentare i suoi luoghi chiave, partendo da alcune interessanti inquadrature nella Tokyo dei primi anni 2000. Da qui si viene a conoscenza del fatto che un’americana viene in qualche modo a contatto con lo spirito di Ju-on e se la porta nella patria dello Zio Sam, sempre per via della nota maledizione che vede perseguitato chiunque entri in una casa infestata da spiriti più che irati.

Purtroppo all’aeroporto di Tokyo non hanno gli scanner per le possessioni demoniache e quindi la donna ritorna nella sua casa, pensando di essersi lasciata tutto alle spalle una volta abbracciati i suoi cari. Grosso errore.

Senza raccontarvi eccessivamente troppo della già poca trama, il film segue gli accadimenti delle varie famiglie venute a contatto con la maledizione e la casa infestata, unite dal filo rosso di una poliziotta appena trasferita – interpretata da Andrea Riseborough - intenta a risolvere il mistero di tutti quei massacri inspiegati.

All’inizio qualcuno le dice di lasciare perdere e proseguire con la propria vita, ma lei è testarda e perciò indaga per conto suo finendo proprio per contrarre la stessa maledizione di tutti gli altri abitanti della scena del crimine. D'altronde è un horror, senza scelte sbagliate non si va avanti.

Il film salta continuamente linea temporale per calare lo spettatore in tutti gli assalti di Ju-on, descrivendoci in breve le vite di chiunque abbia deciso di vivere in una villa dall’aspetto tutt’altro che accogliente (vedi sopra). Questo già di per sé frammenta il film in tante piccole parti, evitando quindi di costruire una trama se non quella che si può riassumere in “siamo tutti infestati, vi prego aiutateci”.

Ognuno dei presunti protagonisti ha delle vicende personali che ne delineano la discesa nella pazzia, approfondite quanto basta per far gravare le loro morti sulla nostra coscienza per qualche secondo. Quello che però davvero manca è un qualsiasi riferimento al mito da cui nasce Ju-on o a qualsiasi altra cosa abbia a che fare con il Giappone.

Mettere John Cho nel cast per un ruolo abbastanza minore di certo non sopperisce all’assenza di qualsivoglia spiegazione o contatto con il mondo orientale, se non una piccola frase di un detective (anch’esso maledetto) che dice di essersi messo in contatto con un poliziotto giapponese, giusto perché aveva sentito di un caso simile. Chiaramente nel film non si sente né la telefonata in questione né il suo contenuto. Nel nuovo The Grudge del resto si accetta tutto come se niente fosse, buttato giù nella gola degli spettatori e dei protagonisti senza che nessuno abbia la decenza di chiedersi come sia possibile un fenomeno occulto di tale portata.

L’assenza di un filone narrativo coerente impone a The Grudge di basarsi solamente sui suoi jumpscare, presenti  ogni 5 minuti di girato. Il film potrebbe essere infatti riassunto in un insieme di scene dove uno degli attori si ritrova in un ambiente chiuso e, a un certo punto, una presenza spiritica ci avverte che di lì a poco sarebbe partita la classica situazione dove il protagonista gira nel silenzio più totale, con inquadrature verso punti vuoti della scena e col solo respiro a fare da effetto sonoro, tutto in attesa dello scontato fantasma/cadavere/mostro che spunta dal nulla.

L’intero il film è ascrivibile a tale descrizione e quando non ci sono cadaveri da mostrare Pesce decide di utilizzare suoni a un volume elevato provenienti da oggetti totalmente innocui come la chiusura di una zip. Inutile dire che un horror che si regge solo sull’effetto sorpresa è così anacronistico da essere  venuto fuori dai primi anni del 2000, quando gli adolescenti utilizzavano queste pellicole per spaventare i partner che si portavano al cinema in modo da ricercare un piccolo contatto fisico, magari aiutati dalla pubblicità in cui veniva detto che la gente fuggiva dalla sala per il terrore.

Per la durata di un’ora e mezza il film tenta disperatamente di farvi saltare dalla sedia con alcuni “spaventi” citofonati e provenienti dal manuale base dell’horror cinematografico. Quando inquadrano una persona che si lava la faccia e con il retro nascosto dalla sua figura, cosa vi potreste aspettare se non una presenza pronta ad aggredirla da lì a poco? Sorte che poi è toccata più spesso alla protagonista poliziotta del film, la quale è una madre che viene letteralmente fatta esordire con la frase “Cosa facciamo se abbiamo paura? Chiudiamo gli occhi e contiamo fino a cinque”, dichiarando allo spettatore che quella sarà la frase con cui verrà chiuso il film. Cosa che avviene davvero.

Il personaggio della Riseborough è del tutto monodimensionale come gli altri membri del cast, salvo forse la signora Matheson interpretata da Lin Shaye. Ci viene detto qualche elemento sul suo passato ma per il resto del tempo la sua caratterizzazione viene asservita al caso alla mano, dimenticandosi del figlio per tre quarti del film e riutilizzandolo solamente alla fine per dare il colpo di scena decisivo che più o meno tutti si aspettavano fin dall’inizio. Perfino negli stessi personaggi non c’è dunque un filo conduttore che li tiene insieme oltre alla casa, affidando alla casualità e alla sola maledizione il compito di reggere tutta la narrativa messa in piedi a stento dalla regia.

Il risultato, date tali premesse, renderebbe difficile la digestione anche ai fan più sfegatati di The Grudge, i quali potrebbero perfino chiedersi che senso avesse riportare in vita il franchise in questo modo, soprattutto se poi è il primo film senza il nome di Shimizu. E infatti di Giapponese questo The Grudge non ha praticamente nulla: non ha spiritualità, non ha folklore, non ha suspence. L’unica cosa che porta sul piatto sono scene gore, spaventi da film americano tipico e la ruralità delle regioni più civili degli Stati Uniti, conditi dalla classica organizzazione provinciale dello sceriffo di turno. Ciò che davvero colpisce l’occhio più attento è una fotografia ben strutturata che però fa davvero fatica ad emergere, sommersa dal bisogno compulsivo degli autori di dover infilare per forza di cose corridoi bui in cui far apparire fantasmi e redivivi.

The Grudge del 2020 è figlio davvero di altri tempi, incapace di innovarsi e senza alcun tipo di originalità da proporre al suo pubblico. Rimane lo splatter insieme al fattore jumpscare, ma dov’è davvero la tensione? L’inquietudine? Il sovrannaturale? Probabilmente sono rimasti dimenticati nella casa di Tokyo a inizio film, lasciati lì a marcire per proporci una storia di cui forse non sentivamo neanche il bisogno di sentire. Ma cosa facciamo quando vediamo un film del genere? Chiudiamo gli occhi e contiamo fino a cinque, sperando che non venga prodotto un ulteriore interquel.

Exit mobile version