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Suzume e quelle chiavi che sono sempre state nelle nostre mani

La prima volta che ho ascoltato qualcosa riguardante Suzume no tojimari è stato qualche mese fa, più o meno a ottobre dello scorso anno. Utilizzo il verbo “ascoltare” non a caso, perché scrollando tra i vari reels di Instagram in un momento di pausa, sono apparsi sotto i miei occhi tantissimi video che avevano come sottofondo sempre la stessa melodia.

Era una bella canzone, molto delicata, che inevitabilmente ha attirato la mia attenzione all’ennesima riproduzione involontaria. Ho così scoperto il titolo del brano: Suzume, per l’appunto, composta ed eseguita dalla band Radwimps e dalla tiktoker Toaka.

È stato quindi l’audio a farmi avvicinare per la prima volta al nuovo lavoro di Makoto Shinkai: una cosa senz’altro singolare visto che parliamo di un film, ma che ancora una volta ci fa comprendere la potenza dei social network in questa epoca. Partendo però solamente dalla musica, mi ero fatto un’idea un po’ particolare di questa nuova pellicola.

Non so perché, ma mi aspettavo una storia molto tranquilla che, come il regista di Nakano ci ha già abituato, fosse in grado di cullarci in un Giappone a metà tra la realtà e l’onirico. Poi però ho visto i primi trailer e, soprattutto, il film al cinema.

I primi minuti sono completamente l’opposto di quello che mi ero immaginato mentre ascoltavo per la prima volta la colonna sonora del film. In circa un quarto d’ora succede di tutto: Suzume incontra subito Sōta (un ragazzo di cui non si sa nulla, ma che sembra sapere molte cose), si scopre l’esistenza di una porta molto particolare che si collega con l’ultraterreno e appare nel cielo un enorme verme che, se dovesse cadere a terra, causerebbe un violento terremoto.

Si avverte, in questo modo, una sensazione di pericolo che va via via crescendo, mentre le scene si fanno sempre più concitate. C’è molta tensione, ma una volta chiusa quella strana porta lo schermo si fa buio, sparisce il suono e si sente un forte sospiro: eccola, è la prima nota di quella bella canzone che sin da subito mi ha spinto a voler vedere Suzume no tojimari.

Dopo una partenza così frenetica, il film ricomincia e lo fa con un ritmo totalmente differente. In un certo senso è come se la pellicola si riavviasse da capo, caratterizzata da quella calma che pensavo avrei trovato sin dall’inizio. Solo in quel momento sono riuscito a rilassare i muscoli delle spalle e a mettermi un po’ più comodo sulla poltrona del cinema.

Ed è stato proprio da quelle scene in poi che ho potuto osservare più nel dettaglio la bellezza di ciò che circondava Suzume e Sōta: un impatto visivo che, anche se hai già guardato Your Name o Weathering With You, fa sempre il suo effetto. Si passa, ad esempio, dai bellissimi paesaggi rurali del Kyūshū alla complessità dei tanti particolari presenti in una metropoli come Tokyo. Ma si scende anche più nel dettaglio, con il cibo, gli animali e tanto altro.

Se però dovessi scegliere solamente una cosa che, ogni volta, mi affascina dei film di Makoto Shinkai, e che anche questa volta mi ha colpito, è la scala cromatica utilizzata.

Ad essere più preciso, a dire la verità, sono in particolar modo i colori blu, verde e rosso.

Tre tonalità che, con tutte le loro sfumature, sono presenti praticamente in ogni scena. Il primo fa risplendere il cielo con le sue nuvole e l’acqua del mare; il verde regala allo spettatore serenità tingendo i paesaggi naturali; il rosso, invece, è sempre un’incertezza.

È il colore che Shinkai utilizza in modo più disonesto, perché gli attribuisce un molteplice significato. Anche in Suzume no tojimari, infatti, può rappresentare sia il pericolo (è il colore di quel verme mostruoso), che il fascino dell’astratto; un elemento che, come avrete capito, è fortemente presente all’interno di questa storia.

Sì, perché il regista ha dimostrato ancora una volta la sua grande ammirazione per Hayao Miyazaki e Haruki Murakami con un’opera piena di realismo magico, tra gatti, visioni e un rapporto (quello tra Suzume e Sōta) che ricorda tantissimo quello di Sophie e Howl ne Il castello errante di Howl. Ma Shinkai è riuscito a dare spazio anche alla cultura nipponica utilizzando elementi della mitologia locale, come ad esempio il regno dei morti, detto Yomi (黄泉) in giapponese.

La sua rappresentazione grafica, neanche a dirlo, è sempre incantevole. Ma questo accade un po’ con tutto, anche con gli elementi negativi che operano su di noi una certa attrattiva.

Nel mentre che ti perdi in tutti gli aspetti visivi sopracitati, la storia va avanti e i primi pezzi del puzzle iniziano a collegarsi tra loro nella maniera giusta. Innanzitutto, si capisce che il nostro Sōta è un chiudiporte, ossia una persona con l’incarico di chiudere i passaggi con l’aldilà. È da qui che possono fuoriuscire i vermi giganti che, se lasciati cadere a terra, sono in grado di causare gravi terremoti in tutto il Giappone.

Veniamo poi a fare la conoscenza di un simpatico micetto, Daijin. Simpatico sì, ma fino a un certo punto: grazie a un potere sconosciuto, il gatto trasforma il povero ragazzo in una piccola sedia di legno senza una gamba, lasciando così Suzume nella posizione di dover individuare i prossimi vermi e di chiudere le porte da cui questi stanno sbucando. Qui poi c’è un dettaglio fondamentale da aggiungere: queste mostruosità in grado di far tremare la terra sono visibili solo agli occhi di Suzume e Sōta. Il che li rende speciali e perfettamente idonei al ruolo di personaggi centrali.

Ed è proprio nel momento in cui le cose iniziano a farsi più chiare, però, che il ritmo del film ricomincia ad essere un po’ più rapido. Si ha come la sensazione che alcune cose vadano troppo veloci. Diciamo che, per continuare a utilizzare la metafora del puzzle, è come se il compositore venisse improvvisamente sostituito dal campione del mondo: la realizzazione finale è perfetta, ma hai l’impressione di esserti perso il collegamento di qualche tassello. Sia chiaro, non ci sono buchi di trama, ma approfondire qualche aspetto in più non sarebbe stato male.

Ecco, a dirla tutta, forse l’elemento che potrebbe avermi fatto deconcentrare riguarda la presenza dei tanti, tantissimi, brand all’interno del film. Una serie di pubblicità indirette ma molto evidenti che, inevitabilmente, ti fanno esclamare “Oh, guarda, Suzume mangia al McDonald’s”: una frase replicabile, sostituendo l’azione e il nome della marca, per tutte le scene in cui appaiono altri colossi come Spotify o Line.

Probabilmente questi product placement sono necessari, è vero, ma paradossalmente attraverso l’animazione risaltano più all’occhio e penso che possano distrarre lo spettatore dalla trama principale.

Nonostante ciò, Suzume no tojimari è un altro incredibile prodotto che potrebbe addirittura superare Your Name in termini di popolarità qui in occidente. Il lato introspettivo dei personaggi arricchisce la narrazione, rendendo una storia di per sé avventurosa anche un pretesto per parlare di relazioni umane.

Un bel film, con una storia d’amore (questa volta più platonica) e, soprattutto, in grado anche di raccontare uno dei più grandi drammi recenti del Giappone: il terremoto e lo tsunami del Tōhoku avvenuto nel 2011. Makoto Shinkai infatti, con grande delicatezza, ricorda e onora le vittime di quella terribile catastrofe naturale, fatalmente concreta e terrena, portandoci nelle sale un lavoro pieno di elementi fantastici.

Più di tutto, però, Suzume no tojimari è anche la rappresentazione di un viaggio, quello della giovane protagonista, che la aiuterà a ritrovare sé stessa mentre fuori il mondo continua a muoversi, ignaro dei pericoli che corre ogni giorno. La realizzazione di un percorso interiore che anche noi spettatori ci accorgiamo di aver già fatto, in un modo o nell’altro.

Perché ok, non avremo di certo evitato il verificarsi di vari terremoti nel mondo, ma di porte contenenti materiale doloroso ne abbiamo chiuse diverse nella nostra vita. Non ce ne siamo mai resi conto, noi e Suzume, ma quelle chiavi sono sempre state nelle nostre mani.

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