Il 15 dicembre del 1978 – non soffermiamoci troppo sul fatto che fossero quarant’anni fa – usciva nelle sale statunitensi il film che diede l’avvio a un nuovo filone cinematografico, il cinecomic. Il film in questione era il primo Superman, che fu ribattezzato sul materiale promozionale Superman: the movie, per i duri di comprendonio.
Ai tempi il termine cinecomic non era ancora stato coniato e i supereroi con le loro avventure erano relegati in un ambito strettamente legato all’infanzia. Roba per ragazzini, insomma. Eravamo ancora lontani dai film sul tema ad altissimo budget a cui siamo abituati oggi, quindi rischiare su un tizio in tutina blu e mutande rosse calzate sopra ai pantaloni poteva sembrare un azzardo.
La scommessa che il regista, i produttori, gli attori e la crew furono chiamati a fare andò bene e i risultati positivi li vediamo ancora oggi.
Del risultato finale, ossia del film in sala, ne parleremo più avanti: per celebrare bene il primo lungometraggio su Superman (almeno il primo degno di questo nome, il predecessore del 1948 possiamo anche non considerarlo), bisogna raccontarne anche la tribolata genesi.
I diritti sul personaggio furono acquistati nel 1974 da Ilya Salkind, produttore di origini messicane che si è dedicato – perlomeno al cinema – a raccontare quasi esclusivamente le gesta dell’Uomo d’acciaio: va sottolineato che la DC Comics fu piuttosto restia alla concessione dei diritti, che furono ceduti solo dopo una lunga trattativa. La paura del tradimento del loro personaggio di punta è stata, almeno all’inizio, più forte della voglia di vederlo trasposto al cinema.
Salkind pretese, per il film su cui aveva investito tempo e denaro, uno sceneggiatore di punta. Fu scelto Mario Puzo, diventato noto ai più per il libro Il padrino e l’omonima sceneggiatura del film diretto da Francis Ford Coppola.
La scelta di Puzo come soggettista e sceneggiatore garantì la tranquillità ai produttori ma la prima bozza della sua sceneggiatura fu considerata troppo pesante per il materiale di partenza e troppo lunga da mettere in scena. Il testo passò quindi tra le mani di Robert Benton e David Newman: anche i due produssero una bozza di sceneggiatura, portandola ad appena quattrocento pagine, quindi la consegnarono, convinti di aver fatto un buon lavoro.
Purtroppo né loro né noi sapremmo mai come sarebbe stata quella seconda stesura perché, nel frattempo, la produzione aveva cominciato a cercare un regista.
I produttori del film avevano in mente un vero e proprio kolossal e quindi cercarono un regista adatto all’arduo compito: la lista dei desiderata – non esaustiva – comprendeva Francis Ford Coppola, William Friedkin, John Guillermin, Peter Yates, Sam Peckinpah e perfino George Lucas (che aveva l’agenda piena a causa di quella robina chiamata Guerre Stellari). Alla fine, però, si optò per Guy Hamilton, ai tempi famoso principalmente per aver diretto alcuni film di 007 di grande impatto.
Il copione c’era, il regista pure: mancavano gli attori.
Quando si parla di Superman, tutti si ricordano di Christopher Reeve. Pochi riescono a ricordarsi subito chi vestisse i panni di Jor-El, il padre del supereroe che lo spedì nello spazio per salvarlo dalla distruzione del proprio pianeta natale. Un po’ perché il personaggio è in scena per pochi minuti, un po’ perché la storia (personale e professionale) di Reeve ha tenuto banco per tutti gli anni a seguire, quando si parlava del film in questione, dicevamo che pochi si ricordano che a interpretare Jor-El fu chiamato nientedimeno di Marlon Brando. Esatto, il grande attore dall’ego enorme, quello con cui era impossibile lavorare.
La produzione, dicevamo, aveva in mente un grande film. E quindi cercò il meglio.
Brando trattò e riuscì a strappare un compenso faraonico per pochi minuti in scena e pochissimi giorni di lavorazione: ad oggi il suo record pare ancora imbattuto.
In attesa dell’attore protagonista – Hollywood non si ferma davanti a queste quisquilie – furono avviati i lavori di costruzione del set, a Roma. Peccato che nel 1972 era uscito Ultimo tango a Parigi e la puritana borghesia italiana aveva tanto mormorato che era stata intentata una causa legale contro il suo regista (il recentemente scomparso Bernardo Bertolucci) e il suo attore protagonista, il Brando di cui sopra.
Ci si perde forse d’animo davanti a queste sciocchezze, quando si deve raccontare la storia del primo supereroe dei fumetti?
Certo che no, si dissero tutti. E spostarono baracca e burattini in Inghilterra. Peccato, però, che lì non poteva dimorare il regista, Guy Hamilton, per una cosuccia in sospeso col fisco. La produzione si spostò di nuovo, come fece con il suo attore di punta? No, si preferì cambiare regista e si scelse, finalmente, quello definitivo: Richard Donner – che i più attenti di voi si ricorderanno per Ladyhawke, I Goonies e Arma letale, mica pizza e fichi. Donner, però, non soddisfatto della sceneggiatura di Benton e Newman, decise di far riscrivere tutto a Tom Mankiewicz, anche lui noto per aver sceneggiato alcuni film di 007.
Il vero problema della prima bozza del copione, a leggere le interviste rilasciate nel tempo, era il suo essere poco credibile e troppo fracassone.
Questo è il punto su cui si costruì il grande seguito del film.
Negli anni precedenti il pubblico aveva già avuto modo di vedere qualche riduzione – cinematografica e televisiva – delle gesta dei supertizi in costume: nella maggior parte dei casi, però, le opere in questione avevano un che di macchiettistico o comunque parodistico.
Il tutto andrebbe forse ricondotto a una visione distorta del medium fumetto, considerato roba da ragazzini (come scrivevo all’inizio dell’articolo), ma sta di fatto che, prima del 1978 e di Superman, il pubblico aveva visto giusto qualche serial cinematografico di Batman, Captain America e Superman, in cui tutto il materiale di partenza era stato abbondantemente annacquato. Vi ricordo, per rinfrescarvi la memoria con qualcosa di famoso, che gli anni ’60 videro l’avvento del Batman con Adam West, con le sue bombe gigantesche e le onomatopee a tutto schermo.
I produttori di Superman, invece, volevano un prodotto diverso. E la loro tenacia nel portare avanti il progetto nonostante tutto dimostra quanto forte ci credessero.
La diversità di questo film stava tutta nel punto sopracitato: non più personaggi caricaturali, non più gag comiche a ripetizione ma un nuovo corso, fatto di attenzione al dettaglio, cura degli effetti speciali, investimenti considerevoli e quindi un prodotto adatto a un pubblico più ampio possibile.
Il lungometraggio sul supereroe di Krypton, infatti, ha una struttura solida già a partire dalla trama, in cui la famosa divisione in tre parti (l'arrivo sulla Terra e l'infanzia, l'eta adulta e il piano di Luthor e lo scontro finale) racchiude il primo esempio di backstory (quella che che ormai abbiamo visto riprodotta fino alla nausea nei film moderni) e il percorso dell'eroe, entrambi raccontati al meglio.
La solidità - e gli investimenti - furono notevoli anche in termini di promozione: il battage pubblicitario che precedette il lancio del film fu notevole e fece scuola, per i mezzi e le modalità utilizzate.
La vera novità del film, però, fu il tentativo di emanciparsi dal livello di lettura che era stato dato fino ad allora a tutto quanto riguardasse il mondo del fumetto. Non più storie semplici ma racconti epici, appassionanti e che racchiudono valori universali.
In questo, Superman, ha fatto la storia del cinema di supereroi.
Pensate a questo film come al record di Pietro Mennea: stabilito nel 1979 alle Universiadi di Città del Messico, rimase imbattuto per oltre 16 anni, fino all’arrivo di Michael Johnson, nel 1996. Per stabilire un nuovo paradigma del cinema supereroistico che scalzasse quello nato con Superman, il pubblico ha dovuto aspettare la nascita dei Marvel Studios e l’uscita del primo Iron Man, nel 2008. Prima di Robert Downey Jr. e del Marvel Cinematic Universe, per raccontare le storie tratte dai fumetti Marvel e Dc in un certo modo, bisognava tornare fino al 1978.
C’è chi obietterà che Tim Burton ha diretto un grande Batman. Ed è vero, sono d’accordo. Ma il suo Batman non è certo paragonabile al primo Superman ma ha anzi i geni dell’umorismo dark che hanno caratterizzato tutte le opere del regista di Beetlejuice ed Edward mani di forbice. E quindi il Batman in questione rientra in una categoria a parte.
Torniamo alla produzione di Superman, intanto.
Abbiamo un copione, un regista, un attore famoso. Manca ancora lui, il belloccio che dovrà interpretare il supereroe di Krypton. Anche in questo caso, le cose non filarono lisce fin da subito.
Il mantra di Superman: the movie era cercare a tutti i costi il meglio che il settore potesse offrire, grandi sceneggiatori, registi famosi, attori non protagonisti memorabili e ovviamente, protagonisti immediatamente riconoscibili.
Anche in questo caso, la lista dei desiderata – non esaustiva – comprendeva Al Pacino, Steve McQueen, Clint Eastwood, Robert Redford e Burt Reynolds. Fu il regista, Donner, a imporsi per avere un attore sconosciuto, qualcuno che non fosse già associato a qualche personaggio in particolare. I provini durarono diverse settimane e alla fine, nonostante l’eccessiva magrezza, fu preso Christopher Reeve.
L’attore, ai tempi giovanissimo, rifiutò di indossare un costume che pompasse i suoi muscoli per somigliare di più all’alieno di Krypton: nel solco della migliore tradizione attoriale, decise di modificare il suo corpo in quella direzione e nel giro di poche settimane, complici allenamento duro, dieta ferrea e personal trainer ingaggiati per l’occasione, mise su la massa muscolare sufficiente a impersonare Superman.
È di storie come questa che è fatta la storia del cinema.
Se ci pensate, Reeve avrebbe tranquillamente potuto affrontare questa parte con il pilota automatico, con l’impegno minimo che meritava – secondo i canoni del cinema di allora – un film di supereroi tratto da un fumetto. Invece, complice sicuramente la possibilità di fare il grande salto a Hollywood, si impegnò al massimo e mise tutto il suo talento nelle due parti che il copione aveva previsto per lui.
Guardatelo bene, quando rivedrete il film: quando Reeve è Clark Kent, lo sguardo diventa imbarazzato e sfuggente, la mimica da imbranato, le spalle cascanti. Quando è Superman, si trasforma, dal petto in fuori alla postura, dal modo di incedere allo sguardo sicuro di sé (anche con le donne, come dimostra la scena in cui lui è brillantissimo con Lois Lane).
La sovrapposizione tra attore e personaggio fu tale, per il pubblico, che Reeve non riuscì mai a staccarsi definitivamente dal personaggio di Superman. Hollywood può essere spietata in casi come questo ma Reeve, invece, sfruttò la sua fama per diventare ambasciatore di pace in giro per il mondo, un po’ come se avesse voluto portare un pezzo del suo personaggio nel mondo reale.
Gli elementi del film, quindi, dopo quattro tribolanti anni, erano arrivati tutti al loro posto.
Va segnalato che, oltre ai nomi già citati, anche per i comparti tecnici la produzione pretese professionisti rodati che andarono dal direttore della fotografia di 2001: Odissea nello spazio, Geoffrey Unsworth (a cui il film fu poi dedicato), allo scenografo John Barry, premio Oscar per Guerre Stellari, passando per il compositore John Williams, autore anche dei temi di Lo Squalo, Guerre Stellari, Incontri ravvicinati del terzo tipo e Indiana Jones, giusto per citarne qualcuno a caso.
La storia del cinema, però, è costellata di flop che avevano alla base degli ingredienti eccezionali ma che, alla fine, si sono amalgamati male nel risultato finale.
Con Superman non fu così, per fortuna.
Perché? Non credo che esista una sola risposta a questa domanda. Accontentiamoci di vedere un bel film, invecchiato bene nonostante gli anni e i progressi tecnologici.
E non dimentichiamo di ringraziare la testardaggine di chi ci lavorò, che è riuscito a portare i cinecomic su un altro pianeta.