Una serie sugli esport, piena di personaggi sgradevoli e dedicata a un videogioco sì famoso e seguito, ma criptico, complesso e con una fanbase tossica come League of Legends? Ebbene sì, fidatevi se vi dico che Players è una serie tv che vi sorprenderà raccontandovi un dramma sportivo a base di videogiochi.
E non dovete manco spendere per guardarla.
Da persona con alle spalle due stagioni di un talk show a tema e un documentario (sì, mi sto vantando) so bene quanto è difficile parlare di esport in televisione, magari a un pubblico che di fronte all’idea di un videogiocatore professionista alza un sopracciglio, si fa una risata o tira fuori i soliti luoghi comuni.
Gli esport sono un mondo complesso da raccontare ai non iniziati, lo sono sia perché i videogiochi più famosi, come LOL, Counter Strike, Starcraft II ma anche Overwatch e Fortnite, sono particolarmente difficili da interpretare se non hai speso almeno qualche centinaio di ore di fronte allo schermo. Non sono il calcio, non c’è un gesto facilmente comprensibile e leggibile al pubblico distratto. Ma non sono neppure il football americano o il rugby, che sono giochi complessi ma in cui il momento da replay si intuisce facilmente.
Quello che avviene in una partita di League of Legends è un linguaggio segreto velocissimo, sono scacchi in tempo reale con almeno dieci decisioni prese contemporaneamente con variabili personaggi, poteri, posizionamento e situazioni di gioco. È l’anti televisione, è l’anti spettacolo.
Inoltre, gli esport hanno anche un contorno di personaggi con cui è difficile empatizzare. Salvo notabili eccezioni che infatti emergono e si fanno una carriera in molti altri ambiti. L’esportivo medio ha un range di espressioni che varia dal tizio timido, introverso, bruttino e incapace di fare altro che non sia giocare al bro maschio tossico che imbarazza chiunque non sia come lui.
Nonostante gli esport richiedano capacità di pensiero, coordinazione e lavoro di squadra sovrumane, manca spesso il fascino che trasforma gli sportivi in icone, almeno per chi è fuori dal giro. Anche molti sportivi non sono un capolavoro di comunicazione, ma vengono spesso salvati dall’aspetto fisico, dal gossip eccetera, con molti atleti esport non funziona così, anche se l’immagine classica del tizio bruttarello e sovrappeso non è più la norma.
Questo però non vuol dire che non ci siano storie da raccontare, anzi, ce ne sono eccome. Ci sono rivalità, rivincite, vendette, litigi, colpi di scena, underdog, un sacco di soldi e soprattutto ragazzi giovanissimi che improvvisamente passano dalla loro cameretta agli stadi internazionali e vengono venerati come qualsiasi sportivo moderno. Con un tasso di selezione che forse è persino più alto rispetto agli sport tradizionali.
Se pensate che sia dura arrivare all’NBA dovreste vedere quanto è difficile vincere il campionato del mondo per club di League of Legends.
Players, racconta magnificamente tutto questo, utilizzando la via del mockumentary, ovvero di un finto documentario dall’impostazione molto classica, quindi interviste, dietro le quinte e momenti di gioco alla The Last Dance che racconta ascesa, caduta e rinascita di una squadra professionista, i Fugitive.
Una squadra che nasce, come spesso accade, nel salotto di uno dei giocatori per poi diventare un’azienda dal valore milionario ma anche un terrificante tritacarne per tutte le persone coinvolte al suo interno e una ossessione per chi è coinvolto. Sia per la pressione generata dal bisogno di ottenere risultati sia da una scena competitiva feroce, spesso brevissima e in cui il livello del dibattito non smette mai di essere al calor bianco e dove bisogna stare al passo con un gioco complesso e brutale.
Players fa tutto questo sfruttando un archetipo classico, anzi, più di uno. C’è innanzitutto il confronto fra la vecchia guardia, rappresentata da Creamcheese, fondatore della squadra e capitano, che si trova a dover gestire l’arrivo di un astro nascente, il giovanissimo Organizm, giocatore incredibile ma scarso comunicatore.
Poi c’è il confronto fra passato e presente, con un ping pong continuo tra le aspirazioni di un gruppo di ragazzi che volevano solo diventare fortissimi e l’arrivo della dura realtà, del confronto col business, con il denaro che corrompe tutto, con le aspirazioni personali che prendono il sopravvento e i good old days da rimpiangere.
La forza di Players non sta tanto nella sua capacità di raccontare una classica storia di sport aggiornandola al tema dei videogiochi (è comunque una serie godibile anche se non sapete cos’è un jungler e ignorate cosa sia una botlane, in alcuni casi viene spiegato, in altri è solo jargon tecnico che potete ignorare), mostrandoti il tipo di ossessione necessaria per diventare il GOAT o le classiche rivalità sportive.
Ed è anche una analisi puntuale del fenomeno esport e della sua capacità di diventare fondamentalmente uno stile di vita a metà tra intrattenimento, merchandise, gossip e gestione sportiva. Ma anche di come sia un circo assurdo e frenetico di persone che prendono decisioni in modo casuale mescolate a chi vorrebbe farlo diventare un business tipo NFL e NBA. Ragazzini coi soldi, manager arroganti, influencer e adolescenti incompleti tutti fruttlati assieme.
Ma è nella scrittura dei personaggi è nell'equilibrio utilizzato per raccontarli che Players brilla veramente.
Nessuno dei protagonisti è un eroe positivo, sono tutti ragazzini più o meno ricchi privi di un’educazione emotiva che hanno iniziato buttarsi in un gioco perché riempiva un vuoto dentro di loro che improvvisamente si trovano con troppi soldi, un ego smisurato e il mondo intero pronto ad affossarli o consacrarli mentre loro fanno battute omofobe o sfoggiano quello che si sono comprati.
Eppure, dentro di loro c’è un’umanità incredibile, c’è l’ansia da prestazione, l’ossessione che ti impedisce di goderti il trionfo, mascherare le proprie insicurezze dietro lo sfoggio muscolare, i traumi irrisolti di un infanzia isolata, la difficoltà a gestire una pressione sociale incredibile fin da piccoli, il bisogno di abbassare l’ego di due tacche per giocare di squadra, quando c’è bisogno.
C’è anche il mondo là fuori, dove tutto sommato il fatto che tu sia un quasi milionario con la Porsche a 25 anni interessa poco, perché sotto sotto la puzza di sfigato non la lavi via coi soldi. Il cuore di Players sono uomini a metà, persone spezzate che hanno cercato i loro frammenti nella landa degli evocatori di LoL e quello che hanno trovato era una ossessione che li completava e li riuniva con i proprio simili ma che in molti casi li ha cristallizzati in una teca piena di soldi. Si poteva fare di più raccontare razzismo, misoginia e omofobia, che sono molto forti in queste community, ma nel complesso lo spettacolo è abbastanza preciso.
Che poi è spesso ciò che accade anche molti sportivi. Non capita spesso che queste eccellenze siano poi persone in grado di vivere in maniera equilibrata anche in altri ambiti, a volte sì, a volte tutti quei soldi così presto diventano una sorta di blocco per farli evolvere. Immaginate in un mondo in cui a 25 anni siete quasi già da buttare, a meno che non siate in grado di reinventarvi come coach, analisti o commentatori (altro grande parallelismo con gli sport tradizionali).
Al termine della visione è difficile non appassionarsi a Creamcheese, Organizm e a tutte le altre figure che affollano lo schermo, così come è complicato non detestarli nei loro errori, nelle scelte folli, nel linguaggio da scuola media o ammirarli per le capacità necessarie per giocare a un prodotto come LoL. Nel loro essere specchio di un mondo, e forse anche di parte di una generazione, centrano pienamente l’obiettivo. Spero fortemente in una seconda stagione, perché là dentro qualche storia da raccontare in più c’è di sicuro.
Se vi ho incuriosito sappiate che trovate tutti gli episodi gratuitamente in inglese sul canale YouTube di Funny or Die.