“Per la fodera dipende dal vestito che avete scelto” e quando me lo dici vorrei risponderti “Guardi, mio padre, come la maggior parte degli uomini sposati da più di 10 anni, si faceva vestire dalla moglie, non ha mai dato gran peso agli abbinamenti da vivo, figuriamoci da morto. Ma poi è successo stamattina, secondo te il mio primo pensiero è stato ‘Corriamo subito a cercare il vestito giusto, sennò sai che casino abbinarci la fodera della bara’? Che poi ce lo vedo mio padre che quando arrivo, ovunque lui sia, mi dice ‘Guarda Lorenzo niente da dire su come hai condotto la tua vita, però che cazzo quella fodera beige col vestito blu proprio no, mi han preso per il culo pure quelli delle fosse comuni’. E invece ti rispondo solo “Bianco va benissimo”.
Perché il vero problema della morte è che mentre il resto del mondo progrediva, lei è rimasta sostanzialmente identica al primo giorno in cui l’hanno inventata, non si è aggiornata, ed è stata rapidamente raggiunta dalla burocrazia, che l’ha resa una tortura che può durare mesi.
Sì perché tu pensi che il problema sia vedere tuo padre per terra intubato, vederlo sul letto, vederlo mentre lo lavano, stare accanto al suo corpo per giorni salutando tutti per poi guardare le viti che lo chiudono, dover ascoltare il prete e stringere non sai quante mani mentre baci non sai quante guance, ma il vero stillicidio sono le mille domande che ti vengono dopo. Come passo i conti bancari? Come giro le bollette a mia madre? I suoi vecchi fucili come li rivendo? E l’auto? Ma soprattutto chi cazzo mi accompagna all’aeroporto o alla stazione ogni volta che devo partire? Ma ti rendi conto che devo aspettare un mese per cremarlo solo perché non si era iscritto alla società della cremazione? Che poi, in tutta onesta, chi a sessant’anni lo farebbe mai?
E qui torniamo alla fondamentale domanda sulla fodera, che poi ti ritrovi a chiederti, di fronte al suo corpo in giacca e cravatta, se effettivamente si intona col vestito. Che non è mica una scelta da poco, seppellire una persona è un affare così costoso che ti fa rimpiangere i bei tempi in cui bastava una buca nel giardino, uno stormo di avvoltoi, una pira funebre e via.
Secondo me dovrebbero istituire l’usanza delle buste di denaro anche nei funerali, forse non ci pagheremmo la funzione, ma avremmo invitati sinceri.
Che poi proprio non posso dire niente a chi è venuto a salutare mio padre; quando chiudi un’azienda e i vecchi dipendenti vengono ad abbracciare tua moglie vuol dire che hai fatto tutto ciò che il capo di un’azienda non dovrebbe mai fare, quindi sei una persona buona.
Una sola osservazione che mi sento di darvi quando salutate vedove e figli, non è necessario che chiediate tutti “com’è successo?” perché forse voi è la prima volta che lo sentite, forse cercate una spiegazione all’inspiegabile, ma io sono ormai alla cinquantesima volta che ripeto: “Ha avuto un’emorragia cerebrale nel sonno, non c’è stato niente da fare, gli hanno fatto pure l’adrenalina”, e potrei aver solo voglia di tirarti una testata. Sorridendo eh? Ma te la tirerei volentieri. Ma voi, se vi trovaste di fronte a Dio, gli chiedereste “Senti un po’, raccontami come hanno messo i chiodi a tuo figlio”?
Il paradosso è che la testata l’avrei tirata anche a quelli dell’ambulanza, poveri cristi senza colpa che hanno sudato, urlato e bestemmiato sul suo corpo per 40 minuti prima di arrendersi, e che dopo mi guardavano come uno che t’ha fatto una domanda a cui non sai come rispondere.
Quando muore qualcuno è un po’ come quando traslochi, non sai quanta roba c’è dentro finché non cominci a tirarla fuori. La vita non passa di fronte solo a chi sta morendo, ma anche ai suoi parenti. Amici, colleghi, gente che lo ha conosciuto solo per qualche minuto, personaggi improbabili come il fornaio, il postino, la commessa del negozio a fianco, il vicino di casa con cui ha sempre litigato e poi i tuoi amici che vorrebbero fare qualcosa per te e non sanno cosa, quindi ti restano accanto, fermi, impacciati, come attori che hanno scordato la battuta.
È un tuffo nel passato fatto di rughe, odori, di “oddio non ti riconosco”, “beh dai almeno non ha sofferto”, “sembra che dorma” (qua di solito mi scatta il vaffanculo mentale), in cui ti vergogni di esser felice perché hai rivisto persone che non incrociavi da tanto tempo. Tipo quando abbracci quel suo amico che ti dava ripetizioni di matematica al liceo, e l’odore della sua pipa fa da catalizzatore per una macchina del tempo che ti riporta in quella casa, seduto di fronte a quella scrivania, semiaddormentato dalla noia, pregando di crescere e superare quello strazio. Bravo stronzo, cresci, cresci.
E questo è anche il punto in cui ti vengono in mente tutti quegli “avrei…”, “potevo…”, “forse…”. “ti ricordi” che ti terranno la mano sghignazzando quando spegnerai la luce. Gente simpaticissima che non vede l’ora di piantarti un coltello sottile sottile tra le costole quando meno te lo aspetti. Tipo che magari sei a far la spesa, vedi una cosa che gli piaceva tanto e rimani fermo, immobile, un monolite di ricordi, a farti tamponare dalle vecchine col carrello.
Sì perché sul momento mica hai pianto, troppe cose da fare, referti da firmare, mamme a cui soffocare il pianto sul tuo petto, parenti da avvisare, redini da tenere. C’era una specie di unico grande urlo nel cervello, un rumore bianco pieno di terrore che ha bloccato qualunque funzione cosciente. Avete presente quando gli alieni hanno ormai sfondato ogni difesa e Vasquez si fa saltare per aria, così che gli altri si salvino? Ecco succede più o meno allo stesso modo, qualcosa dentro di te dice “Tu salvati, qua ci penso io”, però non ti dice che quando pensi sia tutti finito, gli alieni te li ritrovi sulla nave.
Però non piangi, quasi mai. Piangi solo quando vedi piangere lei, perché tu ormai sei oltre la sofferenza personale, c’hai una specie di palla di ferro nel petto piena di lacrime che si apre pochissimo, ma vedere gli altri che patiscono riesce ancora a farti male.
La morte degli altri ti porta su un altro pianeta. Un attimo prima sei sulla Terra, l’aria si respira, l’acqua si beve e la gente intorno a te è viva, e quello dopo sei su Lutto Primo, una luna di Saturno dove l’atmosfera rende gli occhi sempre umidi, si soffoca e qualcuno non tornerà più indietro. Mentre cerchi la navicella per fare rotta sulla Terra ti rendi conto che sul biglietto di ritorno c’è scritto “Data di partenza: Boh, quando ti ripigli, magari un mese, magari sei, magari mai”. A quel punto cerchi di trovare una nuova routine che ti permetta di sopravvivere: gli occhi si bagnano sempre meno, piano piano respiri un po’, crei un riparo di fortuna e ti abitui, sperando di tornare.
Tutti pensano che il dolore si debba combattere, niente di più falso, devi farti attraversare dal dolore, lasciartelo alle spalle e sperare che ti rimanga attaccato qualcosa di buono. Quando il mare è in tempesta le barche senza ormeggio sono quelle che si salvano, quelle che puntano l’onda e la lasciano passare, cercando di non ribaltarsi. Il dolore è un gatto incazzato chiuso in una stanza. Se lo ignori e non lo liberi la farà ovunque e strapperà i cuscini, e poi tu solo potrai pulire il casino che ha lasciato.
Ed è per questo che sono arrivate queste righe patetiche, questa cosa che non si dovrebbe fare perché “ma sei scemo a far leggere a tutti cosa provi? La gente vuole ridere, recensisci un bel film del cazzo”, e allora ridete, perché lui riderebbe, seduto di fronte al suo portatile che teneva in perfetta efficienza da solo. Riderebbe dei miei articoli come ha sempre fatto, e se vi dicessi che più di ogni like, di ogni visita, di ogni commento positivo, contava molto di più vedere come li condivideva lui, mostrando con orgoglio i miei pezzi pieni di refusi, non vi direi una cazzata.
Amava molte cose, con estrema passione e rigore, giocava per ore a Civilization, riconosceva le auto dal rumore, leggeva di tutt, era fissato con il rock anni ’70, era uno dei membri più conosciuti di una comunità di videogiocatori, persone che sono arrivate fin da Milano per salutarlo e che, se leggeranno, ringrazio.
Aveva una passione viscerale per Guerre Stellari, e probabilmente lo avrei visto con lui prima che con chiunque altro. D’altronde l’ultimo film che abbiamo visto è stato Godzilla.
Perché mio padre era un nerd, uno dei primi, uno che approvava l’acquisto di un pc nuovo piuttosto che del motorino, uno che tra le corone di fiori aveva il nome di un videogioco. Voi quando arriverà il momento potrete dire lo stesso? Cosa diranno di voi? Avrete anche voi una chiesa piena in cui nessun potrà sollevare la minima obiezione sulla vostra condotta?
Volete un consiglio, voi che ci passerete? Fate qualcosa a nome di chi parte. Mi hanno dato l’idea di creare una ludoteca a suo nome, e da quando me lo hanno detto è come se mi avessero passato un medikit prima del boss finale. Non ci sarebbe cosa più bella che vedere un gruppo di persone giocare in suo nome.
Mio padre era un nerd.