“Il fiume di notte”, la nuova avventura di Glenn Ganges, il personaggio ricorrente di Kevin Huizenga, è stato recentemente edito in Italia da Coconino, nella traduzione di Leonardo Rizzi. L’opera, oltre la sua raffinata introspezione – non gridata, tutt’altro, e proprio per questo in vari punti profonda e significativa - è un viaggio affascinante nelle potenzialità del fumetto come medium.
James Joyce, parlando del suo "Finnegans' Wake", tra le opere più criptiche della letteratura mondiale, diceva che per essere compreso richiedeva un “lettore ideale” afflitto da una “insonnia ideale”. Il tema dell’insonnia torna anche in questo fumetto di Huizenga, che pur essendo profondamente sperimentale non raggiunge i livelli ostici di Joyce nel suo "stream of counsciosness" qui portato ai massimi livelli: ma, similmente, come vedremo, usa tecniche sperimentali - benché leggibili - in ambito fumettistico per descrivere il funzionamento della mente e della sua percezione del reale.
Tuttavia, come ci appare fin dalla iconica cover, per entrare in profondità nel fluire della narrazione dobbiamo entrare spiritualmente nell’insonnia del protagonista, la cui veglia spesso allucinata ci farà da guida per gran parte dell’opera. E, se vogliamo, una possibile altra connessione è nel tema del fluire del fiume, evocato da Huizenga nel titolo, e altrettanto rilevante in Joyce, che apre e chiude la sua grande opera con la parola "riverrun", che indica il "delta delle acque", ma unisce anche le parole "fiume" e "correre", evocando il fluire della coscienza.
Joyce, e una schematizzazione della complessa struttura del Finnegans Wake.
La criptica ma poetica apertura di “Grazie, non dimenticare”, uniche tavole a colori, comincia con un gioco di vignette mute (la voce appare nei classici balloon, ma non è percepibile), inizialmente isolate nello spazio bianco della pagina, che si allargano progressivamente però fino a occuparla interamente in una doppia splash con un progressivo movimento di camera all’indietro. Una sequenza di grande bellezza visiva, che ci parla subito della voglia di sperimentare sul linguaggio fumettistico dell’autore. In seguito, per tutta l’opera, l’autore adotterà invece una bicromia nera e azzurra, con varie e delicate gradazioni tonali.
La prima sezione, semplicemente “1”, inizia similmente con una storia davvero potente nella sperimentazione sulla percezione del tempo: sia con una riflessione su come questa percezione condizioni la nostra esperienza esistenziale, ma anche sul modo con cui questa viene evocata sulla pagina fumettistica. Una sperimentazione densa, ma mai criptica o gratuita, che mostra come si possa piegare lo spaziotempo della tavola per rendere, nello specifico del fumetto, concetti complessi e raffinati con una notevole eleganza visiva.
Vengono in mente, da un lato, un testo fondante come “Capire il fumetto” di Scott McCloud, che sulla scorta anche dei precedenti saggi di Will Eisner sull’Arte Sequenziale aveva sistematizzato, agli inizi degli anni ’90, le ricerche sulle possibilità del dire fumettistico offrendo una nuova base di partenza per ulteriori ricerche e sperimentazioni.
Dall’altro, si può cogliere un parallelo con le sperimentazioni portate in letteratura, un secolo fa, dal Gruppo Fluxus nato dalle teorie di Henri Bergson e sfociato, come vetta forse più alta, nelle opere di Virginia Woolf, quali “Gita al faro”, dove le vicende della quotidianità di una famiglia intellettuale borghese si intrecciavano a un complesso gioco di percezione e riflessione sullo scorrere del flusso temporale.
Le storie successive della prima sezione, “Cartacce” e le due dedicate a Glenn e Wendy, servono a definire i personaggi, con l’abilità dell’autore di definirne le psicologie tramite episodi apparentemente marginali ma significativi nel creare una prima impressione al lettore. Il segno in queste prime storie si definisce, nella sua base, dalle parti di una personalissima lettura della ligne claire, con personaggi iconici ed essenziali – ma estremamente espressivi nel cartoonism – e sfondi accurati, dettagliati, che evocano con precisione una certa quieta periferia americana. Più che dalle parti del filone franco-belga, Tintin e soci, siamo sulla continuità americana del Thimble Theater di Segar, se non addirittura, tornando alle origini, di Mutt and Jeff (naturalmente in una consapevole evoluzione di quei graffianti iconismi).
Nell’ultima storia della sezione, “Glenn a letto”, lo sfondo volge al nero, in tavole cupissime – un nero notturno, ma non inquietante, anzi, avvolgente, misterioso, ma quasi rassicurante – che contrastano con quelle tendenzialmente chiare fino ad ora.
La sezione “2” si apre con la sperimentalità di un fumetto-videogioco: tavole mute che evocano una sequenza da gioco di combattimento arcade alla Street Fighter, genere richiamato dalla barra d’energia che si consuma man mano che i bizzarri contendenti si affrontano. I personaggi quasi astratti che si tramutano in forme sempre più deliranti finendo, di nuovo, per occupare progressivamente tutta la doppia splash page, seducono per la pura invenzione di forme e fanno quasi auspicare che il videogioco sia realizzato.
La storia, di nuovo, non ha una sperimentalità gratuita ma introduce un nuovo capitolo, in cui l’insonnia si lega alla pratica videoludica che il protagonista ha sviluppato durante il suo lavoro presso una start up dell’età dell’oro dei primi anni 2000, dove terminato il – vago e fumoso, ma esaltante – lavoro informatico ci si abbandonava coi colleghi a interminate sessioni videoludiche. Di nuovo, appare uno sguardo neutro e non di condanna, ma anzi di grande fascinazione del nuovo medium e alle esperienze che introduce.
Ma in 3 e IV il tema dell’insonnia diviene centrale (per quanto non esclusivo, evitando “l’opera a tesi” e mantenendo un certo realismo postmoderno, minimalista, che permea tutta l’opera). Notare anche il cambio grafico tra i capitoli tre e quattro, dal titolo in numeri arabi a quelli romani, quasi segno della discesa nell’onirismo che continua in V e conduce a nuovi “viaggi nel tempo”, tramite la mente del protagonista intrappolato del loop dell’insonnia e rese con un uso raffinato delle possibilità espressive del fumetto (al capitolo 6 il numero diverrà, significativamente, una spirale, a segnare l'abbandono definitivo della mente razionale).
A un montaggio efficacissimo e classico, su griglia francese, Huizenga alterna tavole in cui la gabbia è totalmente decostruita, deformandosi e inarcandosi sul foglio ma sempre al servizio dell’esigenza narrativa. Altro aspetto sperimentale è l'uso delle nuvolette, che non sono in Huizenga puramente funzionali, ma divengono un modo con cui l'autore ci mostra il deformarsi del pensiero tramite la loro manipolazione come oggetto grafico.
Con un calembour, potremmo dire che, se Huizinga ci aveva mostrato le caratteristiche dell'Homo Ludens, Huizenga ci mostra come un moderno "homo videoludens" (la lunga parte dedicata al videogame) viva le difficili peregrinazioni dell'eterno Homo Dormiens sospeso sul limine tra il sonno e la veglia dove ci assalgono (anche nei meme) domande esistenziali a cui diamo una risposta che coinvolge mente conscia e inconscia, sul filo di lama tra la nostra presunta razionalità diurna e il surrealismo dell’es del mondo onirico.
Il sentiero su cui ci conduce Huizenga, dunque, non è facilissimo: e non perché sia ostica la lettura, tutt’altro. Se decideremo di abbandonarci alla sua fluente narrazione per immagini, come il protagonista ci sembrerà di giungere sulle soglie di una certa rivelazione dello spazio-tempo. Magari, leggendo quest’opera durante una notte insonne, alla luce della lampada del comodino, degustandola con gradualità e a più riprese.
Però, temo, la percezione di queste grandiose architetture oniriche tenderà a sfaldarsi nell’allontanarsi dal quel regno umbratile dove i confini delle cose sembrano sfumarsi e ci pare di cogliere l’infinito naufragando dolcemente nel mare del sonno. Del resto, non è quello che ci insegna da sempre il fumetto, da quando ci ha portato a viaggiare nel mondo onirico di Little Nemo?