Freaks Out di Gabriele Mainetti è finalmente nelle sale italiane, dopo un'anteprima alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia (a tal proposito, ecco la recensione di The Last Duel). Un lungometraggio atteso all'inverosimile che, come molti altri prodotti audiovisivi, ha subito la stessa sorte: un continuo rimando a livello distributivo a causa del Coronavirus che solo ora sembra aver dato un po' di pace al cinema italiano. Un progetto che va inevitabilmente letto alla luce dell'opera precedente del regista, il suo titolo di debutto Lo chiamavano Jeeg Robot. Vogliamo ricordare che quest'ultimo, seppur divenuto un cult e simbolo della rinascita cinematografica italiana, è riuscito ad ottenere una risposta economica significativa solo nel momento in cui è ritornato nelle sale, immediatamente dopo le innumerevoli conquiste ai David di Donatello. Un film sperimentale azzeccato, figlio di un'ibridazione di generi sopraffina che ha avuto il merito (trionfando su Il ragazzo invisibile di Salvatores, è il caso di ribadirlo) di fornire l'alternativa italiana ai cinecomic americani con un guizzo artistico e creativo spiccato che va ben oltre gli stilemi classici ai quali ci siamo abituati. Non possiamo sapere se, in mancanza delle vittorie che la realizzazione ha ottenuto, ci sarebbe stata la medesima accoglienza al botteghino da parte del pubblico e questo è molto importante per inquadrare la nuova opera di Mainetti.
Spesso per scrivere ci vuole un minimo di contestualizzazione e per quanto mi duole ammorbarvi con queste analisi produttive, vi assicuro che arriveremo al punto prima ancora che ve ne accorgiate. Continuiamo quindi ancora a muoverci in pieno stile deduttivo (tranquilli, lasciamo da parte eventuali sillogismi aristotelici) e cerchiamo di comprendere come mai Freaks Out è un esperimento anomalo come il suo principale "antagonista". Ora, un dato imprescindibile è che questa pellicola è costata più di 7 volte Jeeg (12 milioni di euro contro 1,7 milioni) quindi già di per sé non sarà così semplice andare a guadagnarci qualcosa, soprattutto perché, contrariamente a quanto si possa pensare, il film non è così tanto appetibile per gli spettatori. Lo so che cosa state pensando: il pubblico nostrano piange da anni in cerca di un prodotto italiano realmente alternativo che sappia veramente rilanciare il cinema nel nostro paese e quando arriva Freaks Out si volta?
Sì e no: perché se è indubbio che, a quanto pare, gli incassi cinematografici italiani sono sempre direzionati su prodotti convenzionali o commerciali, c'è anche da dire che l'allarme Covid ha contribuito attivamente ad una percezione diversa del medium cinematografico. Ecco che quindi il clamoroso evento dell'anno, per quanto sta collezionando un nutrito e fedele gruppo di appassionati in giro per l'Italia, sembra rimanere comunque di nicchia alla stregua di un titolo sperimentale così come sono creativi e un pochino controcorrente i protagonisti stessi della pellicola, in particolar modo l'affascinante Franz. Ma perché una figura che sembra scopiazzata dal sogno più ardente e lascivo del buon Quentin Tarantino si merita un intero speciale? Andiamo per gradi, un goccio di etere alla volta con anche qualche sorsata di SPOILER, quindi girate al largo se non avete visto Freaks Out.
Baudelaire e la maledizione del diverso
Nella prima scena in cui vediamo Franz, sta fuori come un melone maturo, lo cercano dal palco del Kirkus Berlin per farlo esibire, ma lui è piuttosto rincoglionito, pare per colpa di qualche sostanza. La stanza in cui dimora è piena zeppa di disegni con immagini provenienti dal futuro, una gigantesca svastica svetta sopra un comodo divano e diverse annotazioni. È il covo di un'intellettuale, di un poeta maledetto che, come Charles Baudelaire prima di lui ricerca la verità nello stordimento allucinatorio, per il simbolista parigino galeotto era l'assenzio, la Fata Verde del Decadentismo; per Franz l'etere, che lo aliena dal mondo e gli fa vedere l'avvenire. Ecco che quindi Mainetti non ci presenta un cattivone tradizionale, ma un'artista a tutto tondo che, a modo suo, indaga la realtà ed esplora la metafisica, certo adottando metodi poco raccomandabili (i forni riservati ai freaks scartati sono un tocco di classe), ma perseguendo un fine tutt'altro che scontato: cambiare le sorti della seconda guerra mondiale che, secondo i suoi sogni, non porterà la Germania sul carro del vincitore, anzi.
La prima sequenza è veramente perfetta come sguardo generale ed introduttivo di Franz e della stessa trama di Freaks Out, visto che, se guardate bene, fornisce veramente tutte le coordinate per capire non solo dei dettagli sul personaggio che vedremo anche successivamente, ma come andrà a finire il lungometraggio. Lì l'intuizione dell'autore è veramente sopraffina: un po' come accaduto con Profondo Rosso, dove il killer si vede già all'inizio riflesso nello specchio, così Mainetti, tra i disegni, ci mostra già il finale del film e le ultime roboanti sequenze con la lotta tra partigiani e nazisti. Ma sto ampiamente divagando, anche se era giusto tributare un momento della realizzazione riuscitissimo. Se già questo quadro ha narrato un mondo senza dire una parola (qualcuno ha detto Miyazaki san?), vi aspetta ancora una sequenza incredibilmente suggestiva che accenneremo solamente per evitare di rovinarvela (si tutto quest'articolo è pieno di SPOILER, ma questa scena a mio avviso non va spiegata più di tanto, va vissuta).
Durante tale momento, la sceneggiatura decide di farci vedere direttamente il suo scomodo punto di vista, ci cala nella sua dimensione onirica spaventosa e orribile. Vi basta sapere che Franz è in preda ad una visione terrificante dove il futuro è a portata di mano, ma non riesce a comprenderlo perché ovviamente gli manca il contesto. Un personaggio che sembra parlare, in tutto il film, una lingua che conosce solo lui, trovandosi perennemente a disagio e in un'altra epoca. E proprio per questo è un diverso, un freak, come i protagonisti, una caratteristica che lo colloca sulla stessa linea tematica degli artisti del Circo Mezzapiotta, anche se ovviamente ha scopi diversi: se entrambi ricercano l'accettazione da parte della società, gli eroi lo fanno salvando l'umanità, lui, invece, sacrificando il tutto e per tutto (pure due dita eh) pur di dimostrare la sua verità. Per questo motivo, Franz è riuscitissimo: non è il solito villain dai modi autoritari e dal piano malefico impeccabile, è un drogato pazzoide dalla mente eccezionale che viene deriso per l'intero lungometraggio e che nel suo attimo di gloria più accentuato, ha la sfortuna di perdere, come succederà al suo amico baffetto qualche tempo dopo.
Vi invito ad una precisa lettura per comprendere queste sue enormi fragilità e il suo continuo essere fuori posto: penso che non ci sia modo migliore se non parlando delle due scene musicali di Freaks Out dove il nostro abile pianista ci regala la sua interpretazione di Creep dei Radiohead e Sweet Child O'Mine dei Guns N' Roses. Oltre ad essere delle sequenze geniali (e se è la prima visione del film, estremamente spiazzanti), inquadrano il disagio di un personaggio. Franz non vuole suonare, è costretto a farlo perché il pubblico adora vederlo esibirsi e qui sta la magia: è acclamato per due canzoni che non ha scritto lui, che ha visto in un sogno rockettaro e quindi, di fatto, non ha successo, se non barando. Certo, anche Albert Konrad Kesselring è venuto da Berlino per ascoltare le sue prodezze al piano (le sue 6 dita gli tornano comode), ma lui non vuole sentire ragioni: è il suo show, quindi abbandona momentaneamente la musica, per esibire i freaks appena catturati, ma anche qui va tutto storto. Sconfitte su sconfitte su sconfitte, non ne azzecca una manco per sbaglio: ma siamo sicuri che è un villain?
Ricerca dell'empatia, superando il concetto di antagonista
Se avete letto il paragrafo precedente, sicuramente comprendete come la costruzione di Franz è sui generis e aggiungerei anche molto funzionale e piaciona (in senso buono eh). È chiaro che, se un personaggio lo decostruisci in questo modo, hai un fine specifico e quello di Nicola Guaglianone e Gabriele Mainetti risponde ad un'unica parola: empatia. Dicevamo prima quanto il nazista fosse sfortunato e mai visto seriamente dagli altri (persino il fratello si vergogna di lui, ma forse era meglio tacere) e ciò ci ricorda una cosa a noi dannatamente familiare: noi stessi. Non mi ricordo se di recente mi sia capitato di calarmi dell'etere o se accidentalmente sono salito su un palco suonando una roba futuristica del 2070 con i chitarroni, ma al di là di questo, capisco Franz, lo capisco molto bene e questa cosa non mi spaventa affatto.
Noi esseri umani siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i fallimenti (Shakespeare, beccati questo), spesso siamo a disagio, fuori tempo massimo e siamo assaltati, manco fossimo in un campo di battaglia, dai taglienti e spietati sguardi altrui. Ci sentiamo giudicati, insultati, ma nonostante tutto questo non molliamo mai, cadiamo e ci rialziamo tante volte. Quanti di noi sono stati derisi per delle eccentricità particolari e messi alla gogna per nulla? Ecco, tutto questo, se almeno una singola volta nella vostra vita lo avete provato, comprendete meglio "l'antagonista" e anzi, parteggiate per lui in modo empatico. Certo, non sperate che riesca in qualche maniera a salvare la faccia dei tedeschi durante la seconda guerra mondiale, ma se possedete un briciolo di compassione provate tanta tenerezza nei suoi confronti e vi augurate che almeno non appaia ridicolo agli occhi degli altri. Non condividete quindi i suoi ideali, ma almeno riuscite a capire le sue sofferenze e la sua fragilità e fidatevi non è poco affatto.
E tutta questa incredibile esperienza, oltre ad essere un merito pregevolissimo della caratterizzazione di Franz fatta in sede di sceneggiatura, è anche frutto di un'interpretazione brillante da parte di Franz Rogowski, attore tedesco pieno di talento ed espressività, che è stato fortemente voluto da Gabriele Mainetti fin dall'inizio, come ha ricordato il regista in un post Instagram qualche tempo fa (di seguito un estratto):
"Ricordo ancora quando sono andato a Berlino per il casting di Freaks Out nella speranza di trovare un forte antagonista. Il primo attore che ho provinato è stato Franz Rogowski. La scena in questione era proprio quella ritratta in questa foto. Franz si è tolto camicia e pantaloni ed in mutande si è adagiato sul pavimento sporco con una leggiadria che solo un ballerino di teatro danza può avere. Terminata la prova, mentre si rivestiva, mi ha detto che gli sarebbe piaciuto lavorare su questo folle film. Gli ho stretto la mano e l’ho salutato. Quando è uscito ho chiesto al casting director Francesco Vedovati quanti altri attori avremmo dovuto incontrare. “Un bel po’!” ha risposto ridendo. Aveva capito che il villain del mio film l’avevo già trovato."
Arriviamo quindi ad un superamento vero e proprio del concetto di antagonista in senso tradizionale: badate bene, non sto dicendo che a livello drammaturgico Franz non è un antagonista (anche perché direi una castroneria, si oppone eccome ai protagonisti), ma che a livello di struttura generale e di motivazioni non lo sembra affatto, anzi. Ripetiamo che è perfettamente in comunione con i freaks di Israel (Giorgio Tirabassi) li cerca proprio perché lui stesso è come loro e come effettivamente i fenomeni da baraccone con i superpoteri, anche lui vuole essere accettato così com'è (ma purtroppo non riesce). Se Mainetti avesse tolto tutta la parte in cui il nazista cerca di cambiare le sorti della guerra sfruttando i poteri dei Fantastici Quattro (come li chiama lui stesso, speriamo non abbia visto il film di Josh Trank), ci troveremmo di fronte al quinto membro del Circo Mezzapiotta, ma invece abbiamo giustamente un villain che dà tanto pepe alla storia e la fa ingranare.
Un crocevia di derivazioni
Veniamo ad una domanda piuttosto inflazionata ma che giustamente potrebbe sorgere riflettendo su Franz all'interno di Freaks Out: ma quindi è un villain perfetto? Per rispondere a tale quesito è opportuno scomodare un altro personaggione dell'universo mainettiano, proveniente da Lo chiamavano Jeeg Robot: stiamo parlando ovviamente de Lo Zingaro, interpretato da Luca Marinelli, un altro freaks per certi versi che è stata un intuizione geniale del regista romano e che ha in comune con il nazista la passione per la musica. Detto questo, il confronto ci serve per farci capire come il film-maker abbia lavorato su due piani differenti pensando alle due figure filmiche e che, effettivamente, lo Zingaro continua a rimanere più interessante e riuscito, al netto comunque di una costruzione ottima anche di Franz.
Ciò accade per un semplice motivo: se Lo Zingaro, per quanto sia frutto di tante inspirazione messe insieme, agli occhi del pubblico è comunque estremamente originale e fresco, Franz è tutto il contrario: è quasi soffocato dalle citazioni che lo tratteggiano. Prima parlavamo di Charles Baudelaire e di quanto quel tipo di background sia stato di notevole spunto per il personaggio, ma abbiamo molto altro in mezzo. Abbiamo il frizzante approccio pulp di Quentin Tarantino che quando ci porta su schermo il nazista Hans Landa (sua maestà Christoph Waltz) lo mostra sì spietato, ma intellettualmente colto e vivace culturalmente (come il buon Franz), ma anche la lettura supereroistica della serie televisiva Heroes (non so se ve la ricordate, ma io ci ero parecchio in fissa all'epoca). Uno dei personaggi della realizzazione, infatti, tale Isaac Mendez (interpretato da Santiago Cabrera), è un pittore drogato che, guarda un po', dipinge il futuro proprio mentre è sotto una sorta di trance derivata dalle sostanze che assume.
Ci sono ovviamente tante altre sfumature più o meno celate che si accendono magari in alcuni momenti specifici della storia, come singoli tributi del personaggio ad un determinato film o serie televisiva. Per fare un esempio, vi è la sequenza in cui il cattivo è protagonista di un balletto al Kircus Berlin e interagisce con un enorme mappamondo, un po' come l'Adenoid Hynkel di Charlie Chaplin all'interno de Il grande dittatore, ma ce ne sono davvero moltissime che faticheremmo ad elencare per intero. Di per sé, in un lungometraggio, gli omaggi e le citazioni non sono quasi mai un problema effettivo, però iniziano ad essere un pochino fastidiose quando vanno a minare tutti gli spunti creativi e innovativi che quel personaggio poteva esprimere nella pellicola. Con Franz si ha l'impressione che, se fosse stato lasciato con le briglie sciolte, avrebbe potenzialmente potuto regalare altre grandi emozioni come già è riuscito a fare grazie all'interpretazione dell'attore e della semplice sceneggiatura anche spogliata dei riferimenti pop.
In conclusione, per quanto non sia una figura perfetta, a Franz gli si vuole un bene dell'anima e proprio nella sua perenne imperfezione il personaggio riesce a dare il suo massimo. Certo poteva essere decisamente di più, è indubbio, ma per come è stato costruito ed interpretato possiamo ritenerci piuttosto soddisfatti. Forse ancora più dei freaks protagonisti, il cattivo incarna perfettamente il ruolo del diverso con il suo essere fragile e incompreso, un pesce fuor d'acqua in un oceano di terrificanti squali nazisti. Quest'articolo, quindi, è una sorta di strano elogio ad un villain che, volenti o nolenti, sentiamo fortemente sulla nostra pelle, dal primo momento in cui lo vediamo in scena, fino al suo tragico suicidio, che avviene non solo a causa delle sconfitte che ha ottenuto, ma anche per il gigantesco divario che si va a creare tra lui e gli altri, un simbolo di incomunicabilità cosmica e di fragilità, in un mondo nazista dove la forza e il rigore sono qualità insindacabili.