Site icon N3rdcore

C'era una volta a... Hollywood: la nostalgica favola di Quentin Tarantino

Che cosa ci si può aspettare da un film di Quentin Tarantino? Tante le possibili risposte a questa domanda: dialoghi taglienti e coloriti, violenza insistita e mai edulcorata, narrazione non lineare, citazioni e omaggi a tutta la storia del cinema, e molto altro ancora. Tutte risposte valide, ma che in qualche modo limitano e incasellano l'estro di uno dei più grandi registi viventi, nonché uno dei pochi che, nell'era della bulimia dell'audiovisivo, ha ancora l'autorevolezza di catturare l'attenzione incondizionata di ogni tipologia di spettatore. Giunto al suo nono film C'era una volta a... Hollywood, il penultimo prima dell'annunciato ritiro, Tarantino ha il potere e il credito per fare tutto ciò che vuole, ma non rinuncia a quello che forse è il vero tratto distintivo delle sue opere, cioè la voglia di stupire lo spettatore, utilizzando il cinema e i suoi personaggi per esplorare il mondo e la società.

Come in Bastardi senza gloria e Django Unchained, Tarantino sceglie nuovamente di scatenare la sua fantasia fra i meandri della storia. Dopo l'ucronia dell'uccisione di Hitler all'interno di un cinema parigino e la vendetta di Django Freeman nei confronti del malvagio schiavista Calvin Candie, il regista statunitense ambienta la sua opera più intima e personale nella Los Angeles del 1969, città simbolo dell'industria cinematografica, ma anche teatro del celebre eccidio di Cielo Drive, perpetrato dalla setta guidata da Charles Manson, in cui perse la vita all'ottavo mese di gravidanza Sharon Tate, attrice e moglie di Roman Polanski. La vicenda della Tate, interpretata dall'eterea di Margot Robbie, è utilizzata da Tarantino come crocevia di storie e personaggi, fra cui spiccano l'attore in declino Rick Dalton e il suo stunt-man/tuttofare Cliff Booth, magistralmente impersonati da Leonardo DiCaprio e Brad Pitt.

I tre protagonisti di C'era una volta a... Hollywood si muovono fra le pieghe di un periodo fondamentale per la crescita e la formazione di Tarantino, che, da classe 1963, si approcciava proprio in quegli anni alla magia del cinema che lui stesso ha poi alimentato. Un periodo fatto di radicali cambiamenti culturali e sociali, in cui il cinema narrativo classico si apprestava a cedere il passo al rinnovamento della Nuova Hollywood, e il movimento hippy procedeva ad alta velocità verso la perdita della sua verginità, sotto i colpi della guerra del Vietnam e dell'ondata di sdegno generata dai crimini della famiglia Manson. Morte e resurrezione, declino e riscatto, tradizione e cambiamento diventano così i perni su cui Tarantino costruisce un racconto debordante, fatto di continui mutamenti di registro e di temi, di un costante andirivieni di personaggi e di uno smisurato amore per il cinema.

Tarantino ci mostra e ci fa vivere una Hollywood che non c'è più, fatta non soltanto di star, con i loro festini e i loro capricci, ma anche e soprattutto di persone che vivono alla giornata e si arrabattano quotidianamente per guadagnarsi il loro piccolo posto nell'industria. È questo il caso dei registi, alla ricerca del meglio dei propri attori, dei loro assistenti, alle prese con i problemi che ogni giorno capitano sul set, e anche di Rick Dalton, che dopo un luminoso avvio di carriera in una serie televisiva western si trova sulla soglia dei 40 anni, con qualche acciacco di troppo e soprattutto con la necessità di confrontarsi con i mutamenti di pubblico e produzione, con la prospettiva del mancato approdo nella Hollywood che conta, vista quasi come un miraggio, e addirittura dell'onta della retrocessione negli spaghetti western italiani, da lui considerati poco più che spazzatura.

Un eroe imperfetto e decadente, che ha bisogno dell'aiuto di Cliff Booth (a sua volta escluso dal giro che conta per delle inquietanti voci sul suo passato) non soltanto per le scene più pericolose, ma anche per le sue necessità nella vita quotidiana, come un passaggio in auto per il lavoro o la risoluzione di un problema all'antenna. Fra i due non c'è né astio né invidia, ma si crea invece la complicità di chi sa che non può fare a meno dell'altro e di chi ha in comune più fallimenti che successi e più dipendenze che passioni.

Come sempre, Tarantino gioca con i suoi personaggi e con le loro fragilità, prendendosi tutto il tempo che gli serve per digressioni nella routine giornaliera e per scampoli di vita da set, che ci regalano anche la sequenza più divertente di C'era una volta a... Hollywood, con l'incontro/scontro fra Cliff e un macchiettistico Bruce Lee, e uno strepitoso momento di recitazione, con il quale DiCaprio prenota già una nomination ai prossimi Oscar. Intorno ai protagonisti, ruota una fauna di personaggi stravaganti, impersonati anche per pochi minuti da interpreti di assoluto valore come Al Pacino, Bruce DernDamian LewisKurt Russell, Michael Madsen, Dakota Fanning e Zoë Bell, e soprattutto Margot Robbie, meno presente su schermo rispetto a quanto ipotizzabile, ma fondamentale nell'economia della narrazione.

Sharon Tate, emblema di quella Hollywood apparentemente irraggiungibile, ma distante solo un portone dalla villa di Rick Dalton, si muove soave per Westwood Village, dando a Tarantino l'opportunità di mettere in scena il suo proverbiale feticismo del piede ma anche l'occasione per un toccante lavoro metacinematografico, con la rampante star che partecipa a una proiezione diurna di Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, guardando se stessa sullo schermo e traendo piacere dal riscontro positivo del pubblico per la sua performance. La medesima necessità di approvazione di cui ha bisogno Dalton, che trova in un confronto con una professionale attrice bambina la strada per rimettere nuovamente al centro di tutto la passione per il suo mestiere, stupendo i colleghi addetti ai lavori come non era più da tempo abituato a fare.

Questo continuo dualismo fra ciò che succede dentro e davanti allo schermo, attraverso inserti autoconclusivi, può essere superficialmente scambiato per la mancanza di una vera e propria trama, ma serve invece a Tarantino per dare vita a quello che è il cuore di C'era una volta a... Hollywood, cioè la nostalgia per un'epoca unica e irripetibile dell'industria cinematografica, pulsante e divistica ma allo stesso tempo fortemente umana, e un malinconico ragionamento sullo scorrere del tempo e sui cambiamenti che esso impone. Proprio in questo aspetto, l'ultimo lavoro di Tarantino trova un contatto tangibile con il suo più importante punto di riferimento, quel Sergio Leone evocato esplicitamente con il C'era una volta del titolo (richiamo a C'era una volta il West e C'era una volta in America) e implicitamente con la menzione di Sergio Corbucci, elogiato come secondo miglior regista di spaghetti western, ovviamente dopo il maestro romano.

In quello che può essere visto come una sorta di testamento cinematografico, punto esclamativo di una carriera che in cuor nostro speriamo che Tarantino non abbia davvero intenzione di concludere con il suo prossimo decimo lavoro, il regista mette tutto se stesso, rischiando persino di deludere gli spettatori in cerca di una costante tensione e delle scariche di violenza che hanno contraddistinto la sua filmografia. Ma l'azione, come del resto il finale, che lo stesso cineasta ha insistentemente chiesto di mantenere per quanto possibile segreto, è solo una diretta conseguenza di un impianto narrativo in cui l'imperfezione di Dalton e Booth, il mutamento di Hollywood e il sinistro affioramento di Charles Manson sono solo tessere di un puzzle che nobilita la potenza del cinema stesso, visto da Tarantino come mezzo con il quale giocare con la storia e con la realtà, modificandole a seconda delle sue esigenze.

Ma in fondo che cos'è il cinema se non la vita stessa (con le parti noiose tagliate, come disse Alfred Hitchcock) in una versione depurata, migliorata ed eroicizzata? In questo senso, C'era una volta a... Hollywood non è altro che l'adattamento sfrenato e per certi versi disordinato di quello che è il mondo di Tarantino. Un mondo alimentato dalle immagini e dalle storie, in cui le persone comuni, anche le più fragili e mediocri, hanno la stessa importanza delle star e, con o senza le luci dei riflettori, possono a loro modo trasformarsi in eroi.

Ricollegandoci alla domanda iniziale, che cosa bisogna aspettarsi da C'era una volta a... Hollywood? La risposta più banale è anche quella più azzeccata: nulla. Nulla, se non la viscerale passione di un regista perdutamente innamorato del suo lavoro e di quel mondo che l'ha cresciuto e cullato, portandolo a diventare uno dei più grandi cantori moderni delle virtù e delle contraddizioni dell'animo umano. Nulla, se non un cinema crepuscolare, lontano dalla divertita brutalità degli esordi di Tarantino, ma allo stesso tempo perfettamente coerente con un percorso artistico che l'ha portato a rileggere gli ultimi due secoli di storia, fino ad arrivare a un passo dai nostri giorni. Nulla, se non un nuovo memorabile racconto a cui lasciarsi totalmente andare, con la gioia per ciò che fortunatamente abbiamo e con un pizzico di malinconia per ciò che invece è passato e irripetibile.

C'era una volta a... Hollywood arriverà nelle sale italiane il 18 settembre, distribuito da Sony.

Exit mobile version