Hollywood negli anni ’20 era differente. Non era nemmeno “Hollywood” a dirla tutta, si chiamava Hollywoodland ed era un agglomerato frutto della speculazione edilizia schiacciato tra le colline, il mare e il deserto in quella striscia di terra che non troppi anni prima era del Messico.
La terra delle opportunità un tanto al chilo.
Il sogno coniato dall’imprenditore Hobart Johnstone Whitley, costruttore di grandi opere come l’Hollywood Hotel.
Il cinema ad Hollywood ci arriva quasi per caso. La città del cinema era fino agli anni ’10 del secolo scorso Chicago e si contendeva il titolo con New York, ma la guerra dei brevetti scatenata dal monopolio detenuto dalla Motion Picture Patents Company spinge i produttori a spostarsi in California perché il monopolio lì non era legalmente valido. Una nuova corsa all’oro, perpetrando il mito della frontiera, questa volta a caccia di cellulosa.
Il fenomeno del divismo nasce lì. Quando in uno spazio relativamente ristretto si forma una “élite” fatta da attori bellissimi, danarosi produttori in lotta tra loro, e uno stuolo di wannabe che, partendo dal basso, erano disposti a tutto pur di arrivare in vetta. È il sogno americano e lì, in quell’epoca mitica, la differenza tra sogni e realtà, tra divino e umano era particolarmente labile.
Così tanti soldi in così poco spazio, e una innocenza che l’America non ha mai avuto (almeno a detta di James Ellroy nell’introduzione al suo American Tabloid) non possono non dare origine ad un caos primigenio, sregolato e vitale. Era il Big Bang, la stella che danza di Nietzsche probabilmente passando di lì avrebbe partecipato a qualche festa in queste ville smodate e cavernose, tirando cocaina e muovendosi convulsa al ritmo di jazz, con la complicità di uno stato minimo anche liberista all'eccesso del pre crisi economica del '29, e con un Proibizionismo che non arrivava a bussare alle porte delle ville dei più ricchi.
Questo periodo è splendidamente raccontato da Hollywood Babilonia di Kenneth Anger, un saggio che raccoglie le cronache e gli scandali più eclatanti degli esordi di Hollywood tra gli anni ’20 e ’50. Una pista insanguinata nella quale vengono piantati i semi della modernità, la narrativa noir americana trova in questo connubio tra soldi, poteri e morte terreno fertile per proliferare, in una lunga serie di storie di finzione che, una volta conosciuta la realtà, iniziano a sembrare molto più verosimili. Da Chandler, a Ellroy (che mi permetto di citare di più perchè conosco maggiormente) con la sua Dalia Nera e il suo L.A.Confidential. Fino al misconosciuto Under the Silver Lake di David Robert Mitchel e, appunto, Babylon di Damien Chazelle.
Chazelle c’ha il mito di Hollywood.
È un po’ un hipster con la sua fissazione retroattiva per le epoche che non ha vissuto, ma per quello che mi riguarda è un hipster col manico. E datemi pure del romantico se ammetto di essermi emozionato su La La Land.
Con due solidi successi in cassaforte (Wiplash e, appunto, La La Land) Chazelle può fare tutto, e decide di fare First man, la storia del primo uomo a mettere piede sulla Luna. Che sì, lascia intravedere una cura per la ricostruzione del passato e un’attenzione alle storie che vivono delle ossessioni dei suoi personaggi, ma è pur sempre una botta da chi si aspettava un film più strettamente filologica collegata al musical che lo ha reso famoso al grande pubblico.
Se non che questa cosa arriva ed è Babylon.
Sono quasi certo che se Babylon fosse uscito immediatamente dopo La La Land la sua accoglienza sarebbe stata migliore, per quanto la critica internazionale possa avere peso in questa pagina o per orientare il vostro godimento di un film, ma è pur sempre un dato di fatto affascinante di cui tener conto e che comunque aiuta a classificare il film come “una pellicola divisiva”.
Nel confronto con altri registi che invece hanno vissuto le epoche di cui parlano come Coppola, Spielberg, Paul Thomas Anderson, Lucas, Zemekis e Sorrentino, forse ne esce un po' con le ossa rotte, ma Chazelle c'ha il potenziale e nell'altro angolo ho anche messo dei veri e proprio colossi che hanno plasmato l'idea stessa di cinema di cui Chazelle si nutre e quindi qualche osso rotto ci sta.
Babylon racconta del passaggio del cinema da muto a sonoro e lo fa attraverso un mazzo di personaggi che rappresentano più delle maschere a coprire un ventaglio di professionisti che si trovano in mezzo a questo cambio tecnologico epocale, sono più un accumulo di aneddoti fatti persone e ci si può intravedere in ognuno qualcosa che è legato a qualcun altro, un flusso verosimile dove i profili dei singoli si sciolgono in favore del cinema.
Perché prima di tutto, è bene chiarirlo subito, Babylon è uno di quei film che parlano di cinema attraverso il cinema, che quelli che ne capiscono davvero etichetterebbero come “l’industria che riflette su sé stessa”. Già di per se questo è una tematica divisiva, in quanto se non dai uno spessore a questi personaggi, si rischia di far deragliare la storia, di portarla in quei posti bui del “non frega un cazzo a nessuno” che confina con il grande stato dell’autoreferenzialità. Ma procediamo con ordine.
I punti di vista sono quelli di un giovane factotum messicano che vuole diventare produttore (Diego Calva), una aspirante stella scappata dalla periferia per inseguire il sogno (Margot Robbie) e un divo del muto, l’uomo più figo in città (Brad Pitt) e intorno a loro una pletora di figurine, macchiette, comparse, attricine, attori, produttori, tecnici del suono, cantanti, musicisti, operatori, elefanti, spacciatori, minorenni e gangster. Non hanno tutti un ruolo importante, alcuni sono anche di troppo, ma tra i tanti intrecci del complesso tessuto fatto di testi, sottotesti e simboli, inizia ad essere difficile dipanare un singolo filo da sacrificare sull’altare della fruibilità. Magari giusto, accorciare, ecco.
Per una questione banalmente analogica, è facile fare paragoni con altri film. Alcuni elementi ricordano chiaramente La La Land per la sua love story tra persone che intraprendono direzioni molto diverse in un periodo molto specifico della vita che si finisce per idealizzare, e in un certo senso, Babylon rappresenta il suo doppio oscuro, la sua “scesa”, per altri versi è impossibile non pensare a Boogie Nights di P.T.Anderson per come l’arrivo del sonoro costituisca uno spartiacque tecnologico rivoluzionario che condizionerà irrimediabilmente la vita e la carriera dei suoi personaggi. È tutto quello che gli anni '20 raccontati da Il grande Gatsby di Baz Luhrmann non sono, ed è un fatto positivo.
E ancora, nel personaggio di Margot Robbie, con tutti i distinguo del caso, è difficile non rivederci qualcosa della Norma Desmond di Gloria Swanson in Viale del Tramonto.
Smodato, eccessivo e frastornante.
Si pone l’obiettivo impossibile di tenere dento il mondo e il suo opposto, seguire una parabola (quasi scorsesiana) per poi lasciarla perdere e andare per i fatti suoi saltando come la puntina di un giradischi da un evento all’alto perdendo il fuoco sui singoli per abbracciare l’insieme aneddotico e poi concludersi troppo tempo dopo con un controfinale struggente e un po’ didascalico, ma quando sei nel mezzo, quando hai la musica martellante nelle orecchie, mentre il caos ti gira intorno è impossibile non esserne avvolti, voler essere lì, partecipare anche solo di riflesso a quello splendore e a quel lusso sfrenato, figlio di epoche mitizzate come spensierate, incuranti della catastrofe.
C’è tantissima bellezza in Babylon e c’è tantissimo male, sangue, sudore e merda di cui restano solo l'ideale abbagliante che, anche nei momenti peggiori è talmente forte che faresti qualsiasi cosa per poterlo di nuovo toccare. E, in fondo a quella luce, l'immortalità.
Per me Babylon è quasi cinema totale, un film così ampio che vorrebbe essere più grande di quello che è per poter contenere tutto eppure, nella misera fallibilità della sua esistenza limitata, Babylon funziona nel raccontare di sogni infranti e colpe, di caduta dalla grazia, di fine in un mondo che non può concepire la fine se non come intervallo tra un ciclo continuo e l'altro.
Non so se gli perdono il finale, non so se gli perdono le uscite didascaliche che suonano come proclami ideologici piazzati elegantemente in bocca ai suoi protagonisti però non riesco a non volergli bene, e un po’ a voler bene pure a Chazelle che alla fine è solo un ragazzo (classe ’85, possiamo ancora chiamarlo ragazzo) che voleva partecipare con la gente giusta alle feste più fighe.
In giro potreste leggere qualcuno che lo classifica come "film sbagliato", bene, non è così. Io sono fermamente convinto che quelle sensazioni, la confusione, lo spaesamento, sono tutte consapevolmente volute e, a modo loro, dosate per ottenere l'effetto che deve avere la Babilonia del titolo.
Vuoi per la musica, la regia, un’ambientazione che adoro, costumi da capogiro, scenografie meravigliose e ricchissime di dettagli, una fotografia curatissima a descrivere la luce peculiare dell’alba nel deserto, personaggi dolenti pur essendo una somma di idee e suggestioni, nella sua divisione di pubblico mi metto serenamente tra quelli ai quali il film è piaciuto. Alle evidenti criticità che pure riscontro preferisco non dar peso, perché svaniscono nel mucchio delle emozioni giustamente contrastanti che la pellicola fa provare.