The Whale, volevo Melville e ho trovato Lo Squalo
The Whale sta in odore di Oscar ma anche di grassofobia. Perché ci sono state reazioni così diverse sul nuovo film di Darren Aronofsky?
Si sente spesso dire che Darren Aronofsky è un autore polarizzante, o ti piace o ti fa schifo. La realtà è un po’ più complicata di così ed è diventato evidente con l’uscita del suo ultimo lavoro, The Whale. Il film racconta gli ultimi giorni di vita di un professore infinifat, Charlie, che dopo il suicidio del compagno ha abbracciato una vita in solitudine e destinata a una volontaria conclusione prematura. Diretto da Aronofsky e scritto da Samuel D. Hunter (già autore dell’omonimo spettacolo teatrale), The Whale è stato presentato al Festival di Venezia a settembre 2022, e da allora non si è mai smesso di parlarne.
Dalle prime recensioni parve subito chiaro che sarebbero emerse due correnti di pensiero, talmente divergenti da farmi chiedere più volte se i recensori in disaccordo avessero visto lo stesso film. Da una parte è stato elogiato per il racconto commovente di un uomo imprigionato in se stesso, in cerca di redenzione e connessione con i suoi familiari, oppresso dal lutto e intenzionato a morire in maniera speculare al suo amato Alan, mentre dall’altra è stato accusato di pornografia del dolore, di grassofobia e paternalismo nei confronti di una persona grassa rappresentata come un disastro ferroviario umano.
Sulla carta The Whale poteva avere tutte le fantastiche qualità che gli sono state attribuite, ma la sua realizzazione filmica ne mantiene solo l’ottima prova attoriale fornita da Brendan Fraser nei panni (imbottiti) di Charlie. Come moltə ero partita prevenuta nei confronti del film per diverse ragioni che vale la pena analizzare, perché alcuni dei fattori che hanno reso il pubblico scettico ancor prima di andare al cinema sono più red flag che pregiudizi.
Perplessa sulla sfiducia
Tra le lodi e le previsioni per gli Oscar ci sono state una serie di recensioni che hanno considerato The Whale problematico per la sua rappresentazione della grassezza. Le persone che ne hanno evidenziato più i difetti che i pregi erano pressoché immancabilmente persone grasse, e neanche le ultime arrivate. Basta recuperare il pezzo di Roxanne Gay per il New York Times per farsi un’idea dei pezzi in questione. Certo, una rondine non fa primavera, ma uno stormo di rondini che ne hanno viste parecchie? Alle critiche hanno risposto prontamente Aronofsky e Hunter, facendo comparire la seconda bandierina rossa: Charlie è un uomo molto grasso raccontato da persone non grasse, quindi la rappresentanza non è opzione contemplata. La produzione ha chiesto la consulenza della Obesity Action Coalition, ma concentrandosi essenzialmente sul realismo e l’accuratezza nell’aspetto e nei movimenti di Charlie, non su eventuali falle o bias nella sua rappresentazione. Ultimo ma non ultimo, il fat suit, la tuta prostetica per mimare la grassezza di Charlie, che paradossalmente è il problema meno evidente di The Whale.
I sospetti che mi portavo dietro apprestandomi a vedere il film si sono rivelati all’incirca tutti reali. Non capita spesso. Sono convinta che non ci sia semplicemente chi ha ragione e chi ha torto, ma penso sia una questione di prospettive. I recensori hanno visto lo stesso film, ma l’hanno visto con occhi (e corpi) molto diversi tra loro, con vissuti ed esperienze molto diverse tra loro. C’è chi ha visto The Whale e ha percepito subito la similitudine poetica tra Charlie e Achab, magari è rimasto colpito dalla dinamica disfuzionale con la figlia, si è ancorato all’elaborazione del lutto e ne ha apprezzato il realismo angoscioso, oppure ha inquadrato la grassezza di Charlie nell’ottica dell’autodistruzione patologica, arrivando magari a coglierne il paradosso nella volontà di sparire diventando più grosso che può. Lo sappiamo, non importa che ci diciate che di Aronofsky e di cinema non ne capiamo un cazzo.
Chi ha criticato The Whale lo ha fatto perché ha una prospettiva e una percezione che ha colto prima altre cose rispetto al fine simbolismo e alla regia funeraria. Non lo ha fatto perché “non ha capito” il film, ma perché ne ha recepito con maggiore forza uno strato che evidentemente non è familiare e rilevante per chiunque. Questo per ribadire che non ha ragione chi ha detto bello e non ha ragione chi ha detto abominio, basterebbe ascoltarsi a vicenda senza saltarsi alla gola, ma mi rendo conto che se accadesse staremmo nel paese dei balocchi.
La questione Fat Suit
Il fat suit, dicevamo. Non ne sono un’amante e la trovo una pratica ormai desueta e deplorevole, ma devo anche dire che nel caso di The Whale è veramente l’ultimo dei problemi. Se al posto della tuta ci fosse stato un vero corpo grasso non avrebbe fatto differenza. Mi verrebbe da dire che il film in sé è un fat suit, ne è l’equivalente su scala produttiva: “indossa” la grassezza rendendola protagonista onnipresente e a tutto schermo, ma può proporla come elemento superficiale, epidermico, perché in realtà della grassezza parla solo in maniera marginale, per tangenti e stratagemmi visivi. In difesa del film ho sentito tante volte dire che “in realtà The Whale non parla di grassezza, quindi non può essere grassofobico”, e invece il problemone sta proprio tutto lì.
L’odio smodato delle persone grasse nei confronti del fat suit deriva esattamente da questa contraddizione, dall’utilizzo del corpo grasso come oggetto di scena, come elemento scenografico che crea pathos, conflitto, ostacolo, evitando poi di indagarne le profondità, rimanendo sulla superficie liscia di un’imbottitura che tornerà alla svelta nel reparto costumi. Si vogliono storie grasse ma si rifiutano i corpi grassi, perché il pensiero di fondo (anche inconsapevole) è quello secondo cui il grasso è indesiderabile, malsano e spaventoso, da sfruttare per il drama ma mai da assolvere fino in fondo. C’è una parola sola per riassumere tutto questo lungo discorso ed è fatsploitation, lo sfruttamento del grasso a fini di spettacolarizzazione, monito ed effetto shock, un po’ come ai freak show di una volta.
Ho fatto 3 etti di simbolismo, che faccio, lascio?
Fat suit o no, si vede lontano un miglio che The Whale non è interessato a fare un discorso sulla vita di una persona grassa o sulla grassezza in senso lato. L’obiettivo è quello di raccontare la discesa di Charlie verso l’autodistruzione e la sua contraria scalata verso il ricongiungimento con la figlia. Per dare forma concreta ai suoi sforzi, al suo immobilismo, alla sua incapacità di reagire e aprirsi al mondo si è scelto di appesantire il protagonista con un macigno di carne, e questo rimane per tutta la durata del film: un impedimento, una pistola di Checov, una palla al piede che simboleggia il peso del lutto e della disperazione. L’unico ruolo rilevante del grasso di Charlie è quello simbolico, e chi ha vissuto o vive con un corpo grasso non si è proprio divertitə o commossə nel vedere la propria realtà utilizzata come espediente narrativo e metafora della volontà di morire. In quest’ottica, trovo veramente poco sorprendente che molte persone abbiamo percepito il film come respingente, se non difficile da guardare o crudele.
Ovviamente, l’idea alla base di The Whale potrebbe essere stata tutt’altra. Magari Aronofsky e Hunter avevano davvero in mente un ritratto delicato e rispettoso di un uomo in difficoltà e volevano davvero dare visibilità alle persone infinifat mostrandone la vita quotidiana. Ma... C’è un ma. Se gli autori non volevano creare un film in odore di grassofobia e pain porn, non avrebbero forse fatto meglio a non scriverlo e girarlo come se Charlie fosse un bizzarro incrocio tra Moby Dick e Lo Squalo? Mi spiego meglio. Le scelte descrittive e formali di The Whale tendono ad accentuare l’aspetto grottesco e disturbante del corpo del protagonista. Il suono in particolare ha velato molti momenti del film con l’angoscia contratta dell’horror, amplificando i rumori di sottofondo come i passi o la masticazione, e inserendo musiche inquietanti che difficilmente assocerei all’empatia verso il soggetto rappresentato. Il formato video e l’ambientazione claustrofobica di The Whale non fanno che accentuare la sproporzione tra il corpo di Charlie e il mondo che lo circonda, cosa che certamente favorisce la piena formazione dell’impianto simbolico di cui sopra, ma che finisce anche per togliere dignità a una figura a tratti delineata come non umana o incapace di comportarsi come tale.
Portare a galla tutta questa lunga serie di criticità in The Whale non significa dire “fa cagare” o “è grassofobico”, e non significa posizionarsi a uno dei due estremi nell’ormai arcinota polarizzazione. Chiaro, ci sarà chi lo ha apprezzato e chi no (come per qualsiasi cosa), ma comprendere che possono esserci più reazioni possibili e contemporanee a un medesimo prodotto in base al livello di lettura che si è percepito come predominante può aiutarci a discutere di film o altro senza reagire come se ci avessero insultato la mamma o percosso il cane.