

Suda 51 e quanto sia importante liberarsi del proprio passato
Suda 51 è un game designer considerato “punk” che in tanti conoscono ma in pochi comprendono, in particolare la sua astrusa filosofia di design da lui soprannominata Kill the Past.
Come la filosofia di un game designer giapponese pazzo possa applicarsi alla vita di tutti i giorni durante un momento di transizione della propria vita.
In un momento storico per il settore videoludico in cui è materialmente impossibile stare dietro a tutte le uscite nuove e il backlog continua a crescere a dismisura, decidere di soffermarsi sull’operato di un unico autore sarebbe da folli, ma d’altronde se vuoi addentrarti nell’immaginario punk, inutilmente arzigogolato e sconnesso di Suda 51 un minimo spostato devi esserlo anche te. In un momento storico in cui siamo stati tutti messi a dura prova dalla crisi pandemica, scoprire la visione la particolare visione del mondo di un giapponese apparentemente folle può aiutarci in modi inaspettati, forse imparando come gestire i nostri personali problemi
Suda 51, al secolo noto come Goichi Suda, è uno di quei pochi game designer che può “vantarsi” di aver fatto il giro completo della carriera: dai suoi primi titoli sperimentali di inizio anni duemila come The Silver Case e Flower, Sun and Rain fino allo sbarco in Occidente con titoli folli e più “vendibili” come Killer7 e No More Heroes, per poi diventare l’ennesimo ingranaggio dell’industria con i vari progetti mainstream e snaturati come Shadows of the Damned, Lollipop Chainsaw su cui ha a malapena messo mano fino alla sua recente rinascita autoriale con Travis Strikes Again e l’imminente No More Heroes 3.
In tutto questo tempo la stampa di settore lo ha sempre etichettato come un autore “punk” - se non addirittura soprannominandolo un Tarantino videoludico - senza mai soffermarsi su cosa lo rendesse tale.
Molti suoi titoli sono figli dell’estetica brit punk degli anni 70’ e 80’ (le avventure di Travis Touchdown portano il nome di un brano della band The Stranglers), il citazionismo e rimestamento di tutta la cultura pop sono presenti, ma in pochissimo se non quasi nessuno ha veramente colto cosa fosse il “punk” di Suda 51. Solo tramite la riedizione dei suoi primi lavori, in particolare la duologia di The Silver Case fino a pochi anni fa inedita in Occidente, nuovi e vecchi appassionati occidentali hanno potuto scoprire il tassello iniziale per comprendere questo particolare autore. Per questo è stato interessante scoprire il filo rosso autoriale che lega gran parte della sua carriera, in quella filosofia di vita e game design da lui stesso nominata Kill the Past.
Nell’aneddotica classica di Suda viene spesso riportato che prima di essere stato assunto per il suo primo ruolo nell’industria videoludica facesse il becchino presso una agenzia di pompe funebri. Niente in realtà di scabroso o segnante, perché lui stesso riferisce in alcune interviste che era principalmente l’addetto alle composizioni floreali, ma gli è bastato per osservare la vita da una prospettiva diversa, in particolare sul peso del proprio passato.
Non è un caso che il suo primo lavoro come scenery writer per il gioco di wrestling Super Fire Pro Wrestling III Special sia l’amara e controversa storia di un campione che dopo aver toccato il culmine della sua carriera, sacrificando tutti i suoi affetti nel mentre, decide di togliersi la vita con un colpo di pistola. Da questo piccolo scandalo nasce la carriera di un autore lunga quasi un quarto di secolo e del suo folle immaginario a metà fra l’onirico lynchiano, il noir surreale e il pulp tarantiniano.
Non farò un’analisi approfondita di Kill the Past (per quello consiglio l’esaustivo documentario dello youtuber e archivista nostrano Gekigemu) ma piuttosto raccontare come, inconsapevolmente, questo pensiero da parte in un inconsapevole guru giapponese mi sia stata di aiuto negli ultimi mesi.
In un settore che premia i seguiti more of the same delle opere di successo e spesso scadendo nel fenomeno del sequelitis, il Suda 51 dei primi anni aveva inventato un sistema ritualistico per permettere di mantenersi sempre libero dai fantasmi del passato: Kill the Past è infatti la prima saga videoludica non formata da storie e strutture narrative serializzate, ma dalle tematiche e leitmotif ricorrenti che legano i vari titoli come spesso accade nel medium cinematografico, permettendo al suo creatore di sperimentare liberamente non solo esteticamente ma anche nel gameplay,
I protagonisti goichiani, così come il loro autore, sono personaggi che hanno la necessità antropologica ed ontologica di superare il proprio passato.
Nella mentalità di Suda, un individuo può realmente voltare pagina nella propria vita e vivere il domani dopo aver finalmente affrontato ed “ammazzato” il suo passato, che torna a manifestarsi nei modi più disparati e surreali, come doppelganger, sogni distorti o sotto forma del nostro personale sicario.
Ogni titolo di questa saga, infatti, è diversissimo dal precedente. Da una visual novel come The Silver Case fino allo sparatutto su rotaie di Killer7 per finire nell’action di No More Heroes, ogni gioco è stata una possibilità per Suda di continuare ad evolversi come autore e toccare nuovi stili cestinando quello che era venuto prima, simbolicamente rappresentato dall’assassinio di un personaggio del titolo precedente o di un suo omonimo. Gli universi espansi o realtà parallele, stratagemmi narrativi che vanno molto di moda ultimamente, non hanno granché significato qui né diventano il punto della questione, poiché per Goichi è tutta una questione di lasciarsi il passato alle spalle.
In Flower, Sun, and Rain l’investigatore privato Sumio Mondo finisce in un hotel su un’isola tropicale per smantellare un’organizzazione terroristica che progetta di far saltare in aria un aereo (il gioco uscì pochissimi mesi prima dell’11 settembre, quindi potete capire perché non uscì dal Giappone) ma fallisce miseramente nell’intento. Mondo rimane intrappolato in un loop temporale dentro l’hotel finché non dovrà risolvere il caso, rivivendo la tediosa e apocalittica routine. Non solo l’intera vicenda alla Giornata della Marmotta, ma anche gli inquietanti e comici inquilini del residence sembrano bloccati in questo paradisiaco eterno presente da cui non vogliono fuggire, ottenendo solo lo sdegno e disgusto del protagonista.
Da questo continuo riscrivere e innovarsi sembrerebbe che Suda 51 abbia trovato il Sacro Graal punk dell’autorialità, ma la verità è che più corri in avanti senza guardarti indietro più diventa facile che i fantasmi del passato tornino a tormentarti. Suda per quasi un decennio è stato marchiato dalla stampa occidentale come quello “strano” tramite i suoi lavori più mediocri e commerciali realizzati per publisher americani come EA o Warner Bros. Progetti puramente di intrattenimento che gli sono stati indebitamente attribuiti per via dell’estetica trasgressiva e citazionista, ma che mancavano della sostanza tipica dei titoli di Suda. Nel caso di Shadows of the Damned l’intera idea di fondo è stata cambiata almeno cinque volte, partendo da una storia legato a Il Castello di Franz Kafka fino a diventare la storia infernale e annacquata del cacciatore di demoni Garcia Hotspurr.
Per questo lo spin off Travis Strikes Again è stato significativo, a prescindere dalla qualità del titolo: dopo più di un decennio in cui non sedeva nella cabina di comando, per Suda questo titolo rappresentava l’applicazione del metodo Kill the Past sul suo personale.
Così come il suo autore, l’assassino otaku Travis Touchdown ha vissuto isolato in una roulotte per sette anni per rifugiarsi dalla notorietà che ha distrutto la sua quotidianità e famiglia. Tramite un viaggio dentro i mondi virtuali di una console maledetta, il Death Drive Mk. II, affronta eroi e assassini che hanno rappresentato le varie fasi del percorso artistico di Goichi, - compreso un personaggio proveniente da Shadows of the Damned - che nella tradizione del suo metodo, si libera alla fine del livello tramite una spettacolare esecuzione a base di mosse di wrestling.
Qualcosa però è cambiato in questi scontri: se in gioventù i personaggi goichiani venivano smantellati facilmente senza particolari problemi, in questo gioco per la prima volta il loro assassinio porta momenti di riflessione introspettiva in Suda, le cui parole confluiscono in quelle del personaggio principale.
Nel finale del gioco a Travis viene proposto di vivere su Marte (non provate a chiedermi come si è arrivati qui, sarebbe davvero troppo complesso da raccontare) lontano dalla sua vita terrestre e dai suoi problemi, ma l’antieroe rifiuta perché si rende finalmente conto di dover venire a patti col suo passato.
(Ri)scoprire la carriera e la poetica di Suda 51 in questo strano momento della mia - ma anche di tutti- vita durante pandemia è stato insolitamente pedagogico: dopo un ritorno a casa dei miei genitori dopo pochissimi mesi di vita da fuorisede, il burnout dopo una esperienza accademica deludente e una fugace (non) relazione - in cui si parlava troppo di passato, casualmente - il mio morale era piombato ai minimi storici. Inizialmente volevo solo fuggire andando nuovamente a vivere da solo in una stanza in affitto e l’idea di cambiare completamente carriera per cercare una strada più sicura economicamente, ma l’incrocio fortuito con i giochi di Goichi ha fatto scattare qualcosa dentro di me.
Per alcune persone risulta più facile semplicemente voltarsi e rinchiudere le esperienze traumatiche in un cassetto, ma quel pazzo di Goichi Suda tramite i suoi giochi e la sua stessa vita mi ha insegnato che il vero passo in avanti va fatto con un confronto diretto dei nostri scheletri nell’armadio per superarli.
La mattina stessa che ho concluso Killer7 ho sentito l’impulso di sventrare la cameretta in cui ho vissuto per vent’anni cassetto per cassetto, riportando alla luce anni e anni di ricordi di scuola, giocattoli rotti e passioni nerd adolescenziali dopo anni di collezionismo e accumulo seriale compulsivo.
Mi sono reso conto di essermi costruito una tomba faraonica a nemmeno venticinque anni, circondato da averi materiali la cui sola esistenza ora mi incatenava a una damnatio memoriae al contrario. Quegli oggetti non erano più espressione della persona che sono diventato in questi ultimi anni, e per questo ho venduto il vendibile a prezzi stracciati, donato il donabile ad amici e conoscenti e buttato tutto quello che non valeva più nulla.
Forse questo periodo di crisi continua è pensato per quelli della mia generazione, ma anche per i più giovani, a ripensare a tutto quello che siamo stati prima e decidere quali bagagli continuare a portarci o abbandonare lungo la strada. Per alcuni non sarà così facile, nemmeno per me lo è stato, ma se intendiamo “uscirne migliori” così come i tanti titoli fuorvianti dei quotidiani provano da un anno a inculcarci, il segreto è fidarsi delle parole sconclusionate di un game designer folle come Goichi Suda.