L’ultimo atto è cruento, per quanto bella sia la commedia in tutto il resto; alla fine, ci gettano un po’ di terra sulla testa, ed è finita per sempre. (Pascal, “Pensieri”)
“Le voci dell’acqua”, uscito all’inizio di questo cupo 2019, è presentato come “la prima graphic novel” di Tiziano Sclavi, per la collana Comics di Feltrinelli, inaugurata l’anno scorso con Recchioni e Pennac. “Graphic novel” è un termine che non amo molto, e mi verrebbe da obiettare che Sclavi, padre di Dylan Dog, ha scritto col suo personaggio numerosi romanzi a fumetti, perfino più ampli di questa essenziale, asciutta, dolente novella lunga.
Tuttavia è innegabile un cambio di passo in quest’opera, che si distacca dagli obblighi del fumetto popolare – che Sclavi ha trasformato completamente dall’interno, ma rispettandoli – e si avvicina piuttosto ai suoi romanzi, “Le etichette delle camicie” e “Non è successo niente” (1998). E tuttavia – qui sta l’abilità ineffabile di Sclavi, la potenza della sua voce narrante – il lettore del Dylan Dog sclaviano non potrà non sentire evocati temi ricorrenti, asciugati dal genere e dal popolare ma perfettamente risuonanti lo spirito profondo dell’antieroe sclaviano.
In tutto questo, va detto, fondamentale è l’apporto di Werther Dell’Edera, che crea un perfetto controcanto alla potenza della scrittura sclaviana con un segno ideale: altrettanto fortemente autoriale, ma altrettanto radicato nel popolare del testo di Sclavi.
Il protagonista, Stavros, ci appare in copertina sospeso, come tarologicamente Appeso nel blu della cover. Stavros è il nome greco del Crocifisso, perfetto per questo sofferente gioco di morti e resurrezioni (narrative, tramite il montaggio sincopato e spiazzante) che è al centro di tutta la produzione del gran maestro degli zombie fumettistici.
La luce si accende col prologo, che si ricollegherà circolamente all’epilogo, ove la luce si spegne. Una circolarità perfetta, alla Finnegans Wake: non semplice simmetria, ma una narrazione che potrebbe ripartire, nel suo alternarsi di blocchi sconnessi, tornando dall’ultima pagina alla prima (non a caso, forse, le pagine non sono numerate).
Stavros ricorda nel segno nervoso di Dell’Edera un altro greco del recente romanzo a fumetti, Asteryos Polyp di Mazzucchelli: se là però il segno era ostentata geometria, perfetta nel suo raffinato e algido compiacimento, nel Dell’Edera sclaviano c’è un rimando alle squadrature delle avanguardie (la copertina interna del capitolo “Voci”…) ma il disegno è decisamente più arruffato, intricato, ingarbugliato, in parallelo perfetto, come detto, al ritmo di Sclavi, che usa la sua sapienza costruttiva per creare un ritmo non armonico, ma scaleno.
Le voci dell’acqua che parlano al protagonista (la quarta di copertina ci depista sulla schizofrenia; ma la chiusura circolare complica le cose, in vari modi) sono in modo evidente – al di là delle rivelazioni intertestuali – le voci del dolore dell’umanità, che il Nuovo Crocifisso sente su di sè. La costruzione di vignette smarginate, definite solo dallo smussarsi dei segni, senza cornice evidente, rimanda alla grande lezione di Will Eisner, padre dichiarato della graphic novel a partire dal suo “Contratto con Dio” (1978) nello splendore miserabile della New York ebraica.
Stride (non intendo, necessariamente, in negativo) il lettering di Luca Bertelé, dichiaratamente “seriale” nei suoi balloon perfettamente ovali, nei suoi caratteri nitidi e leggibilissimi. In un’opera di grande cura (e, per molti altri aspetti, serenamente, spietatamente respingente verso il suo lettore) non appare possa essere un caso o una imposizione editoriale (come invece probabilmente il nome cubitale in copertina, sgradito a Sclavi stando a recenti interviste, ma – da lettore appassionato – francamente liberatorio dopo troppo understatement bonelliano e fumettistico). Sembra anche qui uno sbilanciamento verso il polo del “popolare”, che tutta l’opera ripudia e poi sollecita (e anche un sottile rifiuto snobistico della cifra più ingenua del “romanzo a fumetti autoriale”, il “lettering disegnato male” che è narrazione in Gipi, e talvolta birignao vezzoso in altri).
Potente è anche il momento in cui la sceneggiatura di Sclavi rifiuta di farsi fumetto e si dà come descrizione asciugata di quello che sarebbe stato facilissimo rendere in una semplice sequenza: è infatti il preludio a “Città”, dove la sinfonia della pioggia che evoca le voci non può non ricordare (contrastivamente: non c’è nulla di imitativo) “Memorie dall’invisibile”, l’albo-cardine di Dylan Dog – a lungo una Bibbia da studiare per ogni nuovo sceneggiatore, di cui anche l’attuale curatore Recchioni ha ribadito l’importanza. La pagina di sceneggiatura sclaviana, con un “Piove” insistito evocato con pagine di lirismo dannunziano e ironia sublime, è diventata celebre anche al di fuori dell’ambito degli addetti ai lavori in senso stretto, per l’altissima qualità della scrittura (al pari di alcune leggendarie pagine di Alan Moore).
I prodigi evocati dalle voci, nei disturbanti balloon di cui abbiamo detto, sono passi tratti dalle Storie ab urbe condita di Tito Livio, in cui sono riportati i cupi presagi di Roma nel 217 a.C., a un passo dal crollo sotto la sferza di Cartagine. È la distruzione che incombe sul nostro mondo, la velleitaria e trombonesca quarta Roma dell’occidentalismo, e che nel finale (spiazzante, perché dà una fonte ai balloon, che non dovrebbero averne) si connette alla durissima profezia apocalittica evangelica verso chi ha ascoltato la buona novella e la ignora.
Ma è anche passo caro ai cultori dell’archeoufologia, per via di quelle navi che si vedono nei cieli a cui Sclavi ha dedicato una potente trilogia aliena nella fase matura di Dylan Dog: alieni che qui torneranno nella solita sospensione tra allucinazione e profezia. La vendetta contro la madre castrante rimanda a numerose pagine di inquieto biografismo (sempre nella sospensione specifica del letterario, che non può essere pura autobiografia), mentre i moduli narrativi – di Stavros e di perfetti estranei – si affastellano volutamente labirintici e privi di senso, in un ordine (ritmicamente perfetto) che potrebbe tranquillamente essere diverso narrativamente, nel suo scopo di evocare il freddo nonsenso dell’esistenza. Il sogno del volo può ricordare “Il volo dello struzzo”; il ricordo di un amore sfumato rimanda a “Il lungo addio”. Ma sono, come si conviene, echi blandi, strozzati, remoti. Il Mortedì conclusivo volge la vicenda verso la sua contorta ed aperta circolarità, nel segno vagamente kafkiano che è una delle cifre più autentiche delle claustrofobiche narrazioni di Sclavi (ma un Kafka, direi, filtrato da Buzzati: ovvero da un autore che non si può non avvicinare, e che rifiutava sdegnato tali paralleli). Un cupo surreale milanese, o perlomeno nordico. Lo stanco finale dell’opera (e l’opera come “finale sclaviano”, quale pare per molti aspetti dichiararsi: come, nel romanzo, era stato “Il tornado di valle Scuropasso”, nel 2006) mi ha ricordato la sorprendente sincerità, ugualmente esausta, dell’ultima pagina della Coscienza di Zeno: dopo le lunghe e sardoniche schermaglie freudiane, l’evocazione di una bomba che ci cancelli tutti. Di origine umana, o aliena che sia.
Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo inventerà un esplosivo incomparabile e un altro uomo più malato ruberà tale esplosivo e si arrampicherà al centro della Terra, dove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udirà e la Terra, ritornata alla sua forma nebulosa, errerà nei cieli, priva di parassiti e di malattie. (Svevo, “La coscienza di Zeno”, finale).