STAI LEGGENDO : Persona 3 e Persona 4 sono immortali come la vita che raccontano

Persona 3 e Persona 4 sono immortali come la vita che raccontano

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Persona 3 Portable e Persona 4 sono arrivati sulle piattaforme moderne, dando accesso a esperienze di vita che vanno oltre il gioco.

Crescere è un compito difficile, sia per chi lo fa che per tutti quelli chiamati a fare da guida in tale processo. Ed è, almeno penso, scontato per tanti di noi venir su come collezioni di ispirazioni prese da ogni dove. Nel mio caso i videogiochi sono stati un campo fertile di riflessioni, spunti, analisi e tanto altro.

Tra tutti questi, non mi vergogno a dire come la serie di Persona sia la punta di diamante della mia formazione come individuo. Può sembrare sciocco dirlo, ma affrontare Persona 3 e Persona 4 da adolescente con tanti, tanti problemi è stato non solo catartico, ma anche rivelatorio.

Mi hanno mostrato come nel mondo potessero esistere spazi fuori da una realtà spesso cinica, non tanto come luoghi ideali dove esplorare la pace, bensì posti dove gruppi di adolescenti riescono a rivendicare i mezzi per ribaltare le proprie vite, sconfiggendo i demoni rappresentanti i mali più o meno comuni che tanto mi spaventavano.

Magari sarà stato il fatto di essere alcuni dei miei primi JRPG urbani, magari sarà l'introduzione ai dating sim fatti in maniera più filosofica che romantica, non sono ancora sicuro di evidenziare un elemento come cardine del mio legame, piuttosto è l’insieme ad avere meriti in ogni angolo in cui lo si guarda, proprio come un ottimo romanzo di formazione dei più classici e a cui non ho paura di accostare i due giochi targati ATLUS.

Dopo tanto, tantissimo tempo sia Persona 3 che Persona 4 sono arrivati più o meno ovunque grazie alla loro ripubblicazione moderna. Non vi nascondo i difetti evidenti a tutti: non c'è stata grande attenzione nel porting e alla fine sono comunque giochi che hanno una certa età, a meno di rifarli da zero. Particolarmente infelice la scelta di portare Persona 3 Portable invece della versione FES, ma sensata nell’ottica di un rumoreggiato remake.

Indipendentemente dai loro inciampi, oggi sono più facili da vivere rispetto a quando li giocai io, ma c'è un motivo per cui preservo la mia PlayStation 2 con i dischi originali (beh, più o meno), ed è perché il loro fascino è incasellato nei specifici ricordi che ho creato, nel valore che le loro storie hanno nel momento specifico in cui si vivono nella loro originalità catodica.

In termini da recensore, che ormai odio, si potrebbe parlare ore e ore della trama di entrambi e della ricchezza non solo dei loro personaggi ma anche dell'anima da RPG a metà tra simulazione studentesca e battaglie senza confini. C'è chi lo ha fatto meglio di quanto potrei fare io su queste righe scomposte, sono particolarmente contento di come ne ha parlato il mio collega Marco Patrizi su Tom's Hardware perché ne riconosco il suo profondo amore per ATLUS e MegaTen in generale, nonché una conoscenza veramente approfondita degli JRPG in generale.

 

Io credo però che, oltre alle caratteristiche obiettive, giochi come Persona 3 e Persona 4, ma anche Persona 5 per rimanere tra i giovini, siano quei rari esempi in grado di trascinare emotivamente le persone che si lasciano trasportare da essi. In virtù di tale caratteristica andrebbero trattati nello specifico, mettendo in risalto la propria esperienza personale.

 

Non è un compito facile in qualità di giocatore, sia chiaro, anzi è quasi un impegno quello che si prende con il gioco e alcuni di noi danno per scontato che tutti seguano un titolo con specifico trasporto per un lungo lasso di tempo, quando in realtà nello scenario odierno - bombardati di titoli come siamo - "seguire" un singolo progetto con totale immersione è quasi impossibile.

 

Persona però ti ripaga di quell'impegno, ti fa vivere la vita studentesca (perduta da noi grandicelli) con le meraviglie e la crescita che ne consegue. In particolar modo lo fa Persona 4 con l'aiuto dell'ambientazione del Giappone rurale, che lascia ampio spazio alle storie singole dei personaggi e di quanto i loro desideri vengano in qualche modo limitati, soppressi o male interpretati dall'ambiente in cui crescono e nel quale si sentono più che stretti. Perfino gli antagonisti soffrono di questo morbo, trasposto magnificamente nel "male" canonico del senso fantastico dell'avventura, rivelato solamente agli sgoccioli di tutta l’avventura ma dichiaratamente presente dal minuto zero.

 

Proprio perché si parla di percorso di vita, entra in gioco anche il concetto di famiglia come gruppo di individui con sangue più o meno affine e della casa che abbraccia ben più delle quattro mura in cui si dorme. Persona 4 ti dimostra che è possibile armonizzare gli amici e i familiari attraverso l’azione di ognuno dei due gruppi e delle lezioni che ti danno, superando scogli impossibili con l’ascolto, l’onestà e l’accettazione del lato più “sbagliato” di noi.

 

Qui c’è la centralità delle Ombre che fanno da nemici principali dei dungeon ambientati nei desideri distorti del cast del gioco, mostrando al giocatore una lotta concreta tra le qualità che ci costringiamo a voler avere e la nostra natura più sincera, quella con cui vorremmo davvero affrontare il mondo e che è composta anche da paure, insicurezze e identità che il mondo che ci circonda vuole reprimere con tutte le sue forze.

Altrettanto fa Persona 3 nella sua grande metropoli, forse meno concentrato sulle identità personali e più sui desideri e le ambizioni. Qui i protagonisti sono calati in una lotta che non cercano contro entità fuori dal loro controllo, decisamente più in linea con quello che era lo spirito dei MegaTen e dei primi due Persona.

 

L’adolescenza in questo caso diventa un peso gravoso quando si viene chiamati a essere giustizieri, perché la propria vita e le proprie emozioni influenzano l’intensità dei propri poteri, come in un certo grado avviene anche in Persona 4. Infatti ognuno degli eroi di entrambi i giochi possiede un demone alter-ego che può essere evocato dalla loro psiche e tale demone può potenziarsi nel momento in cui si “cresce” come individui, accettando pienamente la propria natura e arrivando a una rivelazione personale che – sempre a mio giudizio – ti rende adulto o maturo o consapevole.

 

In Persona 3 tale processo ha una centralità non indifferente, poiché la lotta contro il male è l’unico sprone per avanzare la storia e più le difficoltà si fanno forti, più i problemi della vita personale diventano un’incombenza da affrontare.

 

Persona 3 mostra la necessità della sofferenza, grande o piccola che sia. A nessuno piace soffrire ma provare dolore fa parte del grande processo del diventare le persone che in realtà siamo, ci permette di venire a contatto con delle rivelazioni a cui difficilmente daremmo ascolto se non tramite la necessità e una “hammer session”.

 

Non a caso per evocare il proprio demone, o Persona, in Persona 3 i protagonisti devono letteralmente spararsi in testa (ed è l’unico capitolo così violento in tal senso) con una certa difficoltà iniziale. Nessuno, idealmente, vorrebbe ferirsi o arrivare a vivere un trauma, ma alle volte è inevitabile esporsi a dei rischi per continuare a camminare o rialzarsi: ci vuole un coraggio estremo per buttarsi nel vuoto.

 

Ecco, Persona 3 ti mostra come diversi ragazzi hanno preso a piene mani quel coraggio e l’hanno fatto proprio per abbracciare i propri sentimenti o pensieri, arrivando a creare dei legami ben più forti di quanto potessero immaginare sia con gli altri che con la loro parte meno bella di se stessi.

E poi c’è tutto il contorno scolastico, quello della città, la vividezza dello scorrere del tempo e degli appuntamenti da prendere nel corso della giornata. Elementi di gameplay direbbe qualcuno (giustamente), io invece li ritengo fattori per creare la perfetta atmosfera per l’immedesimazione o per tenere ferma l’immagine di star vivendo una vita vera e propria nel quotidiano di uno studente giapponese di varia estrazione.

 

Nessun concetto di quelli che ho espresso sarebbe possibile se al giocatore non fosse richiesto di amministrare le giornate tra una lezione e un incontro con i propri amici, e non nascondo che per una persona introversa che ha avuto problemi a relazionarsi con tante persone tale sistema può anche essere un inaspettato conforto, per quanto “finto”.

 

Quello che non era falso era la vicinanza all’utente che il gioco fa provare forzandolo nel loop delle 24 ore di Inaba o Iwatodai ed è solo tramite essa che si può far breccia nei cuori di qualsiasi giocatore. Tale è la qualità inossidabile dal tempo delle due produzioni, a prescindere da quanto siano belli come JRPG o moderni come grafica: vivere la vita per davvero, incasellata in 100 ore di dialoghi a cuore aperto, scelte significative, affetto e difficoltà.

 

Nessun altro gioco, ancora adesso, ha un’esperienza eguali e perciò, se vi sentite ancora adolescenti o state attraversando un periodo complicato, fatevi un favore e concedetevi questo tempo per crescere insieme a dei ragazzi giustizieri.

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