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Midsommar, una tranquilla estate in Svezia

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Midsommar è un horror atipico, tutto luce, colori accesi e buoni sentimenti che ci racconta le relazioni tra uomini e donne, aggiungendo violenza, sorrisi e paganesimo

Negli ultimi anni, avremmo dovuto ormai aver capito che se si va in Svezia non finisce bene.

Nel 2017 è uscito per Netflix The Ritual di David Bruckner, mentre da pochi giorni è al cinema Midsommar di Ari Aster, al suo secondo film, che l’anno scorso ci aveva stupiti e inquietati con Hereditary, un dramma familiare pieno di inquietudine, di immagini disturbanti e sequenze oniriche in cui si mescolavano Rosemary’s Baby di Roman Polanski e Le streghe di Salem di Rob Zombie. Era un film scuro – visivamente –, claustrofobico e angosciante.

Midsommar è simile e diverso, d’altronde uno dei mantra di Hollywood è “Same but different”.

La storia è quella di Dani (Florence Pugh), una ragazza americana che in un attimo – non senza campanelli d’allarme, e non senza aver provato a fare qualcosa ma non abbastanza – perde la sorella e i genitori. Dani ha un ragazzo, Christian (Jack Reynor), che ha in programma di andare in Svezia per la festa di mezz’estate di una comunità hippie con un credo molto particolare.

Ci dovrebbe andare con i suoi amici e compagni della facoltà di Antropologia, Mark e Josh (Will Poulter William Jackson Harper), e lo svedese Pelle (Vilhelm Blomgram), che viene proprio da quella comunità. Aggiungiamo che Dani è una ragazza estremamente insicura e che è pronta ad annullarsi  – a fare sempre un passo indietro e a scusarsi continuamente – davanti al suo ragazzo pur di stare insieme, e che gli amici di Christian stanno cercando di convincerlo a lasciare la ragazza perché stare con lei è troppo pesante e gli sta succhiando la vita.

Ovviamente, vista la tragedia che ha colpito Dani e vista l’incapacità di Christian di prendere una decisione, la ragazza si unisce al viaggio in Svezia. Con un carico di conflitti sotterranei e di tensioni irrisolte come questo, cosa può andare storto?

Midsommar è un film ambizioso che si distanzia da molto dell’horror (e del cosiddetto post-horror) che abbiamo visto ultimamente in sala. Innanzitutto, e questo balza immediatamente all’occhio, la fotografia del film è un tripudio di luce: l’unica sequenza al buio riguarda l’inizio, il dramma che fa crollare Dani. Da quel momento in poi, tutto si svolge al Sole. È un azzardo, per Aster: rinuncia al mezzo più semplice per incutere timore nello spettatore; la paura del buio ce la portiamo dentro da secoli, fa parte del nostro inconscio collettivo.

Non abbiamo, invece, paura della luce: il sole è vita, come ci insegna gran parte delle religioni.

Alla luce vera e propria si aggiungono i colori scelti: la comunità di Hårga veste completamente di bianco, i loro capelli sono quasi tutti biondi, gli edifici sono di legno chiaro o giallo, ci sono fiori dappertutto. Sembra proprio una bella comune, in cui tutti sono gentili – quando non proprio affettati – e sorridono sempre, mettendosi a disposizione degli americani per illustrare le loro tradizioni vecchie di secoli; sono pronti a condividere con loro alloggi, droghe – tutte naturali, eh – e pranzi all’aperto sui prati del villaggio.

Sono così gentili da risultare sempre più inquietanti: il loro comportamento, il modo in cui parlano, nulla sembra naturale e la regia di Aster aiuta a trasmettere la sensazione. Da una parte ci sono movimenti di camera stranianti e inquadrature ribaltate – fisicamente sottosopra oppure riflesse negli specchi, dove sembra che si verifichino gli avvenimenti più importanti, a comunicare la doppiezza dei personaggi e del mondo, insieme al desiderio di mostrare due realtà: una manifesta e una nascosta, comprensibile solo con l’analisi volontaria di se stessi e di ciò che accade (non è un caso che, mentre gli altri sono studenti di antropologia, Dani si stia invece laureando in psicologia) –; dall’altra parte invece ci si trova in un ambiente tanto aperto negli spazi quanto chiuso a livello di meccaniche narrative, da cui fuggire sembra impossibile e in cui ci si imbatte in dettagli e indizi sempre più disturbanti.

Si inizia con luoghi proibiti, si continua con testi sacri scritti da veggenti nati dall’endogamia – e con l’ammissione della necessità di accogliere periodicamente stranieri per accoppiarsi –, con dipinti e arazzi che descrivono incantesimi e sacrifici, fino a una cerimonia funebre piuttosto pittoresca.

Infatti, nonostante Midsommar rientri chiaramente nel genere del folk horror che si rifà a The Wicker Man di Robin Hardy, al contrario di The Witch di Robert Eggers qui non ci si basa esclusivamente sull’inquietudine strisciante e sulla possibilità del sovrannaturale. Anzi, del sovrannaturale non vi è proprio traccia: le allucinazioni date da funghi ed erbe e la fotografia vecchio stile ci proiettano in un ambiente che ci ricorda le sette realmente esistite, a partire dalla Family di Charles Manson ma senza la presenza di un unico leader carismatico.

Ma, soprattutto, rispetto al sottogenere Midsommar ci regala delle esplosioni di violenza esplicitissima, mostrata con un gusto quasi clinico e morboso, nei momenti in cui meno ce la aspetteremmo – d’altra parte Aster ci aveva abituati a questo anche in Hereditary –, ancora più disturbante perché, come dicevamo, tutto accade alla luce del sole; non solo fisicamente, ma anche metaforicamente, con il benestare di tutti, anche dei nostri protagonisti americani.

Ma non è tutto oro quello che luccica, e se Midsommar si può considerare un ottimo horror d’autore dal punto di vista della regia e della cifra stilistica personale di Aster (che qui è effettivamente autore nel senso cinematografico francese/europeo del termine, nel senso che il film l’ha sia scritto che diretto), è anche vero che proprio nel suo essere un horror a volte scricchiola, e specialmente sui protagonisti. In alcune recensioni si parla di inesistenza delle loro motivazioni, di meccanicità, ma questo non pare condivisibile: a dir la verità, molte volte le motivazioni esistono e sono bisbigliate, suggerite – ma sempre intuibili – mentre altre volte sono proprio urlate in faccia allo spettatore.

No, il punto sta nel gruppo di protagonisti, che ricalca quello di praticamente ogni slasher movie degli ultimi trent’anni, a partire dal macho e dalla bionda per arrivare al buffone e al nero; e se certe volte Aster cerca di ribaltare la prospettiva, di cambiare le carte in tavola e quasi imbastire un gioco metanarrativo con lo spettatore per disattendere le previsioni di quest’ultimo, purtroppo molte altre si rischia di ridursi a giocare al totomorto con i personaggi.

Ed è un problema, perché Midsommar non è uno slasher movie, ma un film profondamente psicologico che analizza il trauma e l’elaborazione del lutto e che, soprattutto, analizza le relazioni e i rapporti uomo-donna, quelli fatti di sudditanza, di minorità e di emancipazione, imprigionando la coppia Dani-Christian in un luogo da cui non possono più fuggire da ciò che sono e da ciò che devono diventare.

E aggiungendo un bel po’ di sorrisi e paganesimo.

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