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Marvel, spostati: Scott Pilgrim vs. the World compie 10 anni!

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Nel 2010 uscì un film che ancora oggi riesce a competere - per qualità - con le grandi produzioni hollywoodiane: Scott PIlgrim vs the world. Ne celebriamo il compleanno nell'unico modo che conosciamo: analizzandone i dettagli per esaltarne i pregi.

Se mi dovessero chiedere, così a bruciapelo, quale regista pescare dal calderone della nerd cultura, dove convivono felicemente action, sci-fi, cinefumetto e supereroi, indicandolo come il più interessante della sua generazione non avrei dubbi: Edgar Wright. Edgar Goddamn Wright.

Wright è una sorta di Mel Brooks del cinema di menare, un genio vero della parodia comica con una mano incredibile nel girare scene d’azione e coreografie di combattimenti, montando il tutto con un ritmo frenetico, forsennato, ma al tempo stesso straordinariamente preciso.

È quello di A Fistful of Fingers, della serie televisiva Spaced, del film culto L’alba dei morti dementi, del finto trailer dentro Grindhouse di Quentin Tarantino, di quella bombetta di Hot Fuzz… e ci sarebbe tanto altro da dire ma fermiamoci qui, facciamo finta che sia il 2010 ché oggi vi devo parlare di cosa tirò fuori dal cilindro tre anni dopo Hot Fuzz.

Fin dagli inizi del suo curriculum privo di colpi sparati a vuoto, Wright è sempre stato per me l’altra faccia di un certo cinema di intrattenimento, la sua è una versione più hardcore e meno canonica, con molta più fantasia, audacia e voglia di sperimentare.

I suoi film li metto sempre lì, insieme agli Hellboy di Guillermo del Toro, i Deadpool di Tim Miller, Logan di James Mangold, lo Spider-Verse di Persichetti-Ramsey-Rothman e il primo Kingsman di Matthew Vaughn.

E quando cinque mesi fa, prima del Coronavirus, della quarantena, delle autocertificazioni, facevamo felici e contenti le nostre classifiche dei filmoni del decennio (bei tempi, eh?), un posto d’onore l’ho riservato senza alcun indugio al quarto colpaccio di Wright: Scott Pilgrim vs. the World, uscito 10 anni fa e da qualche giorno disponibile su Netflix.

Ve l’avevo detto che ve ne parlavo, no?

L’avventura cartacea ad opera del fumettista Bryan Lee O’Malley sul giovane Scott Pilgrim di Toronto innamorato della newyorkese Ramona e costretto a sconfiggere in combattimento i suoi sette malvagi ex per poter continuare a frequentarla, diventa nelle mani di Wright – con un budget che probabilmente alla Marvel usano per pagare la manicure a Robert Downey Jr. – qualcosa di avanguardistico, un candelotto di dinamite irripetibile, una fusione inedita, prepotente e spettacolare tra linguaggio cinematografico, fumettistico e videoludico.

Non credo di esagerare se dico che non esisteva e non esiste tuttora niente come Scott Pilgrim, le major che avrebbero di lì a poco fatto i soldoni portando i supereroi al cinema si sono ben guardate dal replicare un approccio così estremo e appassionato per le loro storie, preferendo una mano più morbida e convenzionale.

In poche parole: Scott Pilgrim sembra venire da 10 anni nel futuro, non da 10 anni fa.

È stato questo film a farci fare un tifo da stadio per Wright sapendo che stava lavorando da un decennio con Joe Cornish alla sceneggiatura di Ant-man e lo avrebbe pure diretto. Perché, ok, i lavori precedenti erano lì a dimostrare le sue enormi doti, ma Scott Pilgrim è stata la prova superata alla grandissima per immaginarcelo al timone di una nave grossa.

Purtroppo sappiamo tutti come andò a finire, ma in una dimensione parallela dove la Marvel non mette mano alla «migliore sceneggiatura per un loro film mai scritta» secondo Joss Whedon e non costringe Wright a mollare il colpo a due giorni da inizio riprese per “divergenze creative”, Wright che gira un film Marvel è la scelta più giusta e sensata della galassia. E sarebbe stata la vera svolta per il cinema supereroistico mainstream.

Perché dentro Scott Pilgrim ci sono gli shōnen giapponesi, i picchiaduro 8bit, le onomatopee animate, raccordi di montaggio per simulare passaggi tra pagine, riferimenti, sovraimpressioni, ellissi spaziotemporali. Tutto, dal primo all’ultimo frame, è pensato per far comunicare in un modo mai così efficace tre linguaggi diversi (cinema, fumetto e videogame) e restituire sullo schermo un’esperienza unica. Persino il logo della Universal viene adattato per l’occasione e diventa di fatto una sorta di intro musicale al concertone che stiamo per vedere.

In mezzo a tutto ciò, Wright prosegue imperterrito il suo personale sfondamento dei generi attraverso la parodia.

Se A Fistful of Fingers guardava allo spaghetti-western, L’alba dei morti dementi all’horror romeriano e Hot Fuzz al buddy cop, qui a finire nel mirino è la commedia romantica indie, un sottogenere che – chi dimentica è complice – in quegli anni stava mietendo parecchie vittime. Sì, ragazza che limoni sola ascoltando I Cani, è inutile girarci intorno: per ogni Eternal Sunshine of the Spotless Mind uscivano una dozzina di (500) giorni insieme.

Fu una strage.

E quel che è peggio è che a furia di vedere risvolti psicologici tra giovani uomini e giovani donne in mezzo ad arpeggi di chitarra alla Vasco Brondi, dopo un po’ pure il povero Michel Gondry iniziava a starti sul cazzo senza una vera ragione.

Wright si appropria di gran parte dei topoi, delle caratteristiche e delle atmosfere di questo tipo di rom-com: la passeggiata nel parco innevato con sosta all’altalena, le chiacchiere nel negozio di dischi, le band col batterista rigorosamente femmina, le ragazze con una collezione infinita di tisane, i discorsi banali sulla musica, la musica, i vestiti, i capelli. Tutti dettagli che creano un legame forte tra Scott Pilgrim e quel mondo, ma attraverso la comicità Wright ne evidenzia le contraddizioni e si prende gioco dei suoi personaggi, in primis del protagonista. Il mondo è lo stesso ma Wright lo cambia di segno e ci porta altrove.

Eternal Sunshine of Scott Pilgrim's Mind

La ciliegina sulla torta sarebbe stata la scelta di uno dei volti di quel mondo lì come protagonista, ma che fosse al tempo stesso tutto sommato simpatico e soprattutto a suo agio in una action-comedy. Serviva qualcuno di immediatamente riconducibile a quei cuoricini che battono sulle note dei The Smiths, ma che il pubblico di Wright potesse anche apprezzare nel vederlo menare la gente. E nel 2010 c’era solo una faccia capace di caricarsi addosso un tale odio e riuscire comunque a farla franca senza prendere una caterva di botte.

La sua

Michael Cera aveva fatto Juno ma anche Suxbad. Aveva fatto Nick & Norah ma anche Anno uno. Aveva fatto Paper Heart e Youth in Revolt ma anche Arrested Development e Extreme Movie.

Era il ragazzo mingherlino, bruttino e sfigatino, tutto magliette a righe, Weezer e capelli urendi, che però si salva dalle bastonate perché amico di Seth Rogen. Era affermazione e negazione del mondo indie al tempo stesso. Dentro ci sguazzava benissimo, ma ne era anche la caricatura.

Era il primo album de Lo Stato Sociale: va bene l’ironia, ma al Magnolia per rimorchiare ci vado eccome. Fosse nato in Italia, Cera, avrebbe fondato Hipster Democratici.

Nella visione di Wright Cera è perfetto per interpretare Scott Pilgrim. E perfetto lo è anche il resto del cast: Mary Elizabeth Winstead, Anna Kendrick, Aubrey Plaza, Brie Larson, Ellen Wong, Kieran Culkin, Alison Pill, Bill Hader, Brandon Routh, Jason Schwartzman, Chris Evans. Tutti azzeccatissimi, supergiovanissimi e in formissima.

Ma purtroppo tutta questa grinta a volte non basta per assicurare un successo.

Uscito in America il 13 agosto 2010, Scott Pilgrim arrivò da noi il 19 novembre per modo di dire perché io non ricordo UNA sala che lo proiettasse e questo è un dettaglio che non riesco proprio a trascurare quando penso al fatto che fu un flop al botteghino. Costato 60 milioni di dollari, in totale ne incassò solo 47, nonostante le ottime recensioni. Non so cosa accadde di preciso, ma oltre ad una distribuzione non all’altezza mi verrebbe da pensare che né Wright, né Cera, né (soprattutto) la graphic novel canadese da cui il film è tratto godessero di una fanbase abbastanza ampia.

Inoltre nel 2010 eravamo ancora solo agli albori del processo di affermazione dei cinecomic che avrebbe interessato l’intero decennio, per cui solo una volta conquistato il pubblico con i cavalli di battaglia ci si sarebbe potuti permettere, ad esempio, di dare in mano ad un ex regista della Troma le avventure di un procione parlante nello spazio e riscontrare comunque successo. Ma prima doveva esserci almeno un Avengers.

Scott Pilgrim invece arrivava così, dal nulla. Senza un universo già avviato alle spalle, senza una saga di successo di cui essere lo spin-off, senza una fanbase abbastanza forte, senza un’adeguata distribuzione, senza un nome di richiamo.

Era solo e ribelle.

Pareva giunto da un’altra dimensione e quando lo abbiamo visto abbiamo capito che veniva davvero da un’altra dimensione.

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