Lestat si sveglia a mezzanotte
Riprendere in mano i vampiri di Anne Rice non è mai facile e la serie AMC ha scatenato polemiche e reazioni contrastanti. Ora arriva su Netflix e la terza stagione è stata annunciata con un teaser che conferma quanto il drama sia la patria di Lestat de Lioncourt e di tutto ciò che lo riguarda.
Nel 1994 quando uscì il film diretto da Neil Jordan, non avevo internet, non ce l’aveva nessuno a dire il vero, e non avevo nemmeno, per la maggior parte, amici o amiche con cui parlare di Intervista col Vampiro. Eppure ricordo benissimo come la notizia del casting di Tom Cruise come Lestat venne accolta con forti dubbi, per usare un eufemismo. In fondo che c'azzeccava un belloccio con l’aura da bravo ragazzo, la faccia pulita da eroe americano, con il ruolo di un personaggio che incarnava i peggiori tratti del narcisismo patologico, condito con impeti omicidi?
Per molti fu quello il momento in cui Cruise passò dall’essere “solo” un attore simbolo, una star con un tipo ben preciso di ruoli e di film che gli calzava a pennello, a un’incognita e una sorpresa, un interprete, insomma, capace di stupire e di fare suo un ruolo che sulla carta non sarebbe mai stato adatto a lui.
Neil Jordan aveva offerto il ruolo a Daniel Day Lewis, che però aveva rifiutato, la stessa Anne Rice, autrice dei romanzi da cui il film era tratto, si era detta contrariata dalla scelta di Cruise come Lestat de Lioncourt, tutti puntavano il dito, dicendo che sarebbe stato un disastro.
E invece fu perfetto. Un Cruise biondo, emaciato, languido nel costume settecentesco, si muoveva tra le battute del personaggio come se fossero state scritte con lui in mente, mettendo uno sguardo maniacale dietro agli occhi freddi del vampiro, divertendosi a gigioneggiare in maniera perfettamente coerente con il Lestat letterario, facendo inorridire e innamorare spettatori e critica in un colpo solo.
Chi aveva letto i romanzi di Anne Rice non era davvero soddisfatto, nonostante tutto, non trovava davvero che il film, per quanto avesse alcune cose molto belle (cito a memoria una spocchiosissima critica quindicenne con la quale condivido nome e data di nascita) tra cui una colonna sonora pazzesca e l’atmosfera perfetta, fosse riuscito a trasmettere davvero lo spirito della storia dei libri. E, come si sa, il libro è sempre meglio del film, suvvia!
A distanza di anni, con tutto l’amore per il ciclo dei vampiri di Anne Rice intatto, non c’è nulla da dire, quel film era proprio bello. Pacchiano, anni novanta in maniera tangibile, languido e ammiccante, pieno di piccoli tradimenti che però rendevano tutto più naturale, più assimilabile della prosa quasi a sua volta settecentesca di Anne Rice.
Di come scriveva Rice si è detto tantissimo, su di lei ci sono state infinite polemiche e pochissime legate alla scrittura, a dire il vero, ma non si può negare che fosse la santa patrona dello scriversi addosso, delle frasi barocche, del gusto per le descrizioni ampie e comode comode, da poterci abitare dentro, cosa che ha sempre reso difficile trasporre le sue storie sullo schermo, grande o piccolo che sia.
Eppure non si smette di provarci, non sempre con risultati alla stessa altezza del film di Jordan. Quando nel 2002 uscì La Regina dei Dannati, tentativo di adattare il romanzo più “over the top” della trilogia originale (si andrà molto oltre quel livello di esagerazione, ma la storia del Lesat rockstar e della sua ascesa a divinità dei vampiri, la lotta con il Talamasca, le origini del vampirismo, il tentativo di diventare PATRONE DI MONDO erano oggettivamente un bel mucchietto di delirio da adattare in un film) si può serenamente dire che la colonna sonora fosse la cosa migliore dell’intera operazione, senza rischiare di suonare inclementi.
Così quando nel 2020 venne annunciato che la AMC aveva acquistato i diritti per diciotto romanzi di Anne Rice, compreso Intervista col Vampiro e i suoi seguiti, si cominciò subito a pensar male.
Si poteva fare meglio dell’adattamente di Neil Jordan? Si poteva fare peggio del Lestat di Stewart Townsend? Sì, in entrambi i casi, sì.
La serie TV
Perché la serie tv Interview with the Vampire è al tempo stesso perfetta e tremenda. Nel suo deviare senza esitazione dai romanzi, riesce ad essere meravigliosamente fedele allo spirito dei personaggi e della storia. Si prende delle libertà immense e rischi piuttosto grossi e lo fa coscientemente e senza chiedere scusa né permesso e, un po’ come il casting di Cruise negli anni novanta, alla fine si fa dare ragione a pieno.
Già dalla prima stagione la serie cambia le carte in tavola, presentando tutto non come qualcosa di separato dalle versioni precedenti della storia, ma giocando in maniera ammiccante con il meta, presentando il tutto come un reboot che sa di esserlo.
Louis De Pointe Du Lac ritrova Daniel Malloy, il giovane reporter a cui aveva rilasciato la famosa intervista negli anni settanta, e questa volta vuole rettificare: tutto quello che gli aveva raccontato a San Francisco era una versione distorta, artificiosa, piena di bugie e di invenzioni.
Nel lusso di un grattacielo di Dubai, con la tecnologia e una palata di soldi al servizio della sua vita da vampiro estremamente civilizzato, Louis racconterà questa volta tutta la verità su di lui, su Lestat, su Claudia e questa volta Daniel potrà davvero pubblicare ogni parola e finire il lavoro iniziato tanti anni prima.
Così, ogni dettaglio della storia che non corrisponde a come le cose sono andate nei romanzi viene introdotto insieme al dubbio che forse stiamo ascoltando per la prima volta la verità, o forse si tratta solo di un modo di reimmaginare il tutto per farne qualcosa di diverso, o forse entrambe le cose.
Louis è l’attore inglese Jacob Anderson, con faccia d’angelo e voce graffiante, conosciuto perlopiù per il suo ruolo di Verme Grigio in Game of Thrones e qui davvero bravo nell incarnare due Louis diversi, quello contemporaneo, che parla da Dubai, algido, sereno, composto e quello delle origini, carico di emotività e passioni.
Ovviamente il suo essere nero non è un dettaglio che si possa tralasciare e la storia cambia di conseguenza. Invece di essere un proprietario terriero nella Louisiana di fine Settecento, Louis diventa parte della borghesia nera, libera ma sempre segregata, della società di New Orleans e, nello specifico, è un giovane imprenditore che amministra alcune case di intrattenimento nel quartiere di Storyville. Insomma, gestisce un bordello e le sue impiegate. Non siamo più alla fine del diciottesimo secolo, ma all’inizio del Novecento, e l'atmosfera non ne risente affatto, anzi.
Vedere dipanarsi la storia dell'incontro tra il giovane tormentato, violento, disperato Louis e il Lestat di Sam Reid è come assistere al divampare di un gigantesco incendio, che porterà disastri e devastazione, eppure non riesci a distogliere lo sguardo dalle fiamme e a pensare a quanto siano maestose.
Sam Reid è nella tradizione, a questo punto, dei casting per il ruolo: a vederlo così non gli daresti due lire e anche se questa volta i colori e i tratti fisici di Lestat ci sono tutti, davvero non si direbbe che la personalità che traspare dai suoi ruoli precedenti sia quella giusta per la parte. Poi apre bocca e comincia a parlare - in francese, per le sue prime battute - e, semplicemente, è lui.
È Lestat de Lioncourt, seduto ad un tavolo, mentre offre da bere ai musicisti, seduce la prostituta al suo fianco, parla senza sosta del suo viaggio e non stacca mai lo sguardo da Louis, un predatore all’opera, gli ingranaggi che si muovono a tutta velocità dietro a due occhi glaciali, che già vedono dipanarsi le meraviglie e le tragedie che seguiranno.
Il Lestat di Sam Reid è una drama queen fatta e finita, che alterna momenti di decadenza gotica e sensualissima a scatti da primadonna sul palcoscenico della sua personale tragica opera, è ferale, impetuoso, imprevedibile, ma l’istante dopo si trasforma in un glaciale, annoiato, calcolatore, ancora più pericoloso, ancora più letale.
La storia di Claudia, che in origine è il dramma di una bambina fatta vampiro troppo giovane e condannata ad essere per sempre rinchiusa dentro ad un corpo di bambola immortale, qui diventa altro. Claudia è un’adolescente, sempre troppo giovane, sempre resa immortale per salvarla da un destino orribile, ma sono soprattutto la sua mente e il suo cuore ad essere perno della tragedia, la sua eterna adolescenza, con le indecisioni, le crisi di identità, i cambi repentini di idea e di umore.
Claudia soffre per le decisioni altrui, è sballottata come una figlia avuta per aggiustare un matrimonio, tra due padri incapaci di amare altro da loro stessi e finisce per essere la scusa e lo strumento della fine. È un modo di rileggere la vicenda più sottile, meno palesemente drammatico, ma altrettanto duro e diretto inevitabilmente verso la tragedia.
Perché la relazione tra Louis e Lestat, nei romanzi, è sempre un rapporto ambiguo, dove il sangue sostituisce ogni altra pulsione, dove il rapporto tra i due è sublimato, trasfigurato e non è mai apertamente una storia d’amore e di passione. I vampiri di Anne Rice, per sua stessa ammissione, sono una grande simbologia ambulante. Nella serie tv la simbologia viene messa violentemente in soffitta e Louis e Lestat sono platealmente innamorati, il loro è un rapporto burrascoso e passionale, estremamente fisico e terribilmente sentimentale. E questo amore così tempestoso, così inarginabile, travolge tutto ciò che trova sulla sua strada, inclusi i due amanti al centro del ciclone.
Insomma, è una serie con una coppia gay al centro della narrativa, una coppia gay con una figlia adolescente, che semina decadenza, terrore e meraviglia nella New Orleans di inizio secolo. Certo ci sono anche altre ragioni, ma per quanto riguarda una certa fetta di pubblico c’è da capire perché sia piaciuta poco sin da subito.
Nella trasposizione cinematografica, che pur era una delle cose più gay che fossero passate al cinema in quegli anni, tutto era suggerito, accennato, metaforico, elegante e maestoso. La serie tv invece è eccessiva, sfacciata, tragica e sì, decisamente pacchiana e grandguignolesca.
Lestat è camp, affettato, teatrale ai massimi livelli (e, sì, nella seconda stagione si andrà a raccontare il perché) e accentra tutto su di sé, l’occhio dello spettatore così come il racconto che Loius fa a Daniel a Dubai, tanto che, come dirà un personaggio nella seconda stagione, in una scena assolutamente memorabile, si potrebbe riassumere tutta l’intervista con un continuo lamento insopportabile di “Lestat! Lestat! Lestat! Lestat!”
Perché intanto l'intervista prosegue, fino al momento cruciale di lasciare New Orleans e alla decisione di Louis e Claudia di prendere in mano la situazione nella maniera più tremenda, posizionando le classiche metaforiche tessere del domino del loro destino ad una ad una.
La prima stagione si chiude con un colpo di scena forse prevedibile, ma di un effetto straordinario, che traghetta la storia verso la seconda parte in maniera magistrale.
Eric Bogosian è un Daniel amaro, cinico, un intervistatore quasi clinico nel suo apparente distacco e sembrerebbe quasi una figura di cornice, neutrale, ad uno spettatore poco attento. Non è affatto distaccato, per nulla disattento mentre incalza con domande che sembrano apparentemente innocenti, in particolare durante la seconda stagione, e si conquista il titolo di peggior terapista di coppia della storia (niente spoiler, ma chi ha visto la serie sa a cosa mi riferisco).
Chi ha fatto il casting della serie non può non aver pensato a quanto il Daniel Malloy di questa Intervista col Vampiro, figura tragica di un giornalista che cerca la verità dopo aver visto solo una curiosità e che ora non riesce a non andare a scavare più a fondo di quanto non sia sicuro fare, alle prese con la malattia che avanza e il confronto con la propria mortalità, avrebbe finito per somigliare a Anthony Bourdain e mi piace pensare che sia un omaggio voluto, anche solo per la straordinaria rassomiglianza fisica.
Seconda stagione
La seconda stagione porta con sé il cambio di ambientazione, si attraversa l’oceano verso l’Europa, ma si attraversano anche i decenni e le nazioni in guerra, fino ad approdare a Parigi poco dopo la fine dell’occupazione nazista, ed è qui che si amplia il cast con altre interpretazioni eccezionali, quelle dei membri del Théâtre des Vampires, qui così fedele all’originale dei romanzi, nel suo essere diverso in mille partioclari, che è impossibile non adorarne ogni istante.
Ben Daniels come Santiago è la punta di diamante del cast parigino, con un carisma da villain che maschera la sua duplicità dietro ad uno charme d’altri tempi, ma che al tempo stesso lascia intravedere la propria debolezza in maniera tragica e palese.
Opposto all’ Armand di Assad Zaman, Santiago è un contraltare perfetto alla segretezza e alla violenza occulta del vampiro più antico finora incontrato, quell’ Armand che guarda ogni cosa con occhio quasi innocente e sembra in balia completa delle correnti di passione, amore e fascinazione che gli altri tessono intorno a lui.Con una puntata a sorpresa che va a riprendere i fatti degli anni settanta e l'intervista originale, la seconda stagione improvvisamente preme freno e acceleratore nello stesso momento e porta in scena l’esplosione completa dei rapporti tra i personaggi, con alcuni dei dialoghi più intensi ed emozionanti della serie e dando il via al precipitare degli eventi che portano ad un finale drammatico e con colpi di scena messi in fila uno dietro l’altro come quelle tessere del domino di cui dicevamo poco fa: cadono benissimo, in ordine perfetto e anche se te lo aspettavi o perlomeno avevi dei sospetti, fanno il loro effetto e chiudono la stagione col botto.
Quella delle Cronache dei Vampiri è sempre stata una storia che parla del rapporto con il divino, con la morte, con la verità e un grande omaggio al teatro e questa serie ha messo piccole croci insanguinate su ogni casella, rappresentando tutto come una pièce teatrale dove il racconto diventa uno strumento acuminato e letale, a seconda di come la guardi, e ogni narratore è inattendibile, anche se lo dimentichi così in fretta da far spavento e dove in fondo è il verbo, la parola che racconta a plasmare la realtà.
La terza stagione arriverà nel 2025, annunciata da un teaser svelato al Comicon di San Diego sotto forma di rockumentary, ovvero un “finto” momento di intervista ad un musicista in ascesa, con un dietro le quinte che svela tutto il caos, lo stupore e la tensione che può generarsi quando sulla sedia, davanti alle telecamere pronte ad accendersi hai Lestat de Lioncourt, rockstar.
Negli Stati Uniti la serie sbarcherà a breve su Netflix e questo significherà sicuramente un aumento notevole di spettatori e un riaccendersi delle polemiche, dell’eterno dibattito tra chi sostiene che sia una trashata inguardabile, completamente irrispettosa del materiale originale, e chi invece la trova un adattamento riuscitissimo e ne acclama anche gli aspetti volutamente pacchiani e esagerati, tra chi la trova troppo woke e chi invece persino troppo poco, tra chi grida al sacrilegio per aver cambiato età, epoca, colore e storia dei personaggi e chi invece applaude e aspetta di vedere quali altre sorprese arriveranno in futuro.
Nel frattempo, per qualche ragione (c’entra un post su X ora cancellato) in un meraviglioso cozzare di mondo narrativo e showbusiness reale, i fan di Taylor Swift hanno avuto un momento di breve crociata contro Lestat, reo a quanto pare, di essere stato paragonato alla star americana e naturalmente, a sentire gli Swifties, non degno di stare al suo livello, anche non sapendo chi sia.
Lestat, una cosa così, l’adorerebbe al punto da far venire il dubbio: siamo sicuri che quello sia davvero Sam Reid?