
La percezione del valore di un videogioco è cambiata: se il mese prossimo sarà gratis, perché pagare adesso? Così, per il momento, mi nego la mia battuta di pesca a caccia di mostri marini
Mentirei se dicessi che quest'anno, AD 2023, l'ho passato a giocare: con l'eccezione di Vampire Survivors, di fatto ho acceso la mia PS5 una manciata di volte, mentre il mio Game Pass su PC l'ho cancellato qualche mese fa. Eppure ogni tanto mi torna la voglia di provare quel titolo accattivante di cui mi stanno parlando tutti, quel giochino che stanno provando i miei amici e di cui discutono le dinamiche: pur di non sentirmi escluso immagino di comprarlo e finirlo. Ma, come accaduto poco fa sul gruppo Telegram di N3rdcore, mi son ritrovato a chiedermi: vale la pena investire qualche euro nell'acquisto di un titolo (nello specifico, parliamo dell'affascinante Dredge) che magari tra 15 giorni mi ritroverò gratis sulla stessa piattaforma? In altre parole: nell'era dell'abbonamento sul modello Game Pass (o Netflix, se preferite), ha ancora senso acquistare giochi?
Il concetto di proprietà (privata)
Iniziamo da un distinguo, basilare: i giochi che acquisiamo sulle piattaforme digitali, acquistandoli o nei pacchetti in abbonamento (che si chiamino Game Pass, PlayStation Plus o Apple Arcade ecc) non sono davvero nostri. Si tratta di titoli che ci vengono concessi "in licenza", ma che non possediamo davvero: non possiamo prendere il CD, o i floppy o la cartuccia, del nostro gioco e iniziare a giocare in qualsiasi momento. Siamo soggetti alla disponibilità di quel titolo sui server della piattaforma che stiamo usando, alla esistenza stessa di quei server (che, per molte ragioni, possono essere spenti), alle bizzarrie di un mercato che raramente mette gli interessi del cliente realmente al centro dell'esperienza d'uso.
Il primo esempio che io ricordi di questo tipo di problematica risale a circa la metà dei primi anni 2000: la chiusura di MSN Music da parte di Microsoft, dopo il fallito tentativo di scalfire il predominio di Apple con il suo iTunes e i suoi iPod, decretò la fine dei brani musicali che pur molti utenti avevano acquistato pagandoli regolarmente. Semplicemente, quei brani digitali erano legati a una tecnologia di protezione (DRM) che supponeva l'esistenza di un server che autorizzasse la riproduzione su un dispositivo connesso: venendo meno quei server, perché Microsoft aveva deciso di spegnerli, quei brani finirono per diventare spazio sprecato sui supporti di memoria degli utenti.
Non fu un bel momento, fu un segnale di pericolo bello e buono: ma di quella lezione non pare abbiamo appreso granché. Oggi dipendiamo in tutto e per tutto dal "cloud": sulla nuvola io tengo tutti i miei file di lavoro, tutto il mio lavoro in effetti, dalla nuvola dipendo per i miei svaghi (TV satellitare a parte: ma quanti come me la pagano ancora?), sulla nuvola finiscono stipati anche i miei ricordi personali tra fotografie, chat, libri che leggo eccetera eccetera. Se domani mattina si spegnessero i server di Google, di Microsoft, di Apple o di Amazon, io resterei con un pugno di mosche.
Con buona pace di Karl Marx e tutti i filosofi hegeliani, il concetto di proprietà ci è stato totalmente alienato assieme alla nostra esistenza: un gioco, un film, una serie TV non appartengono a noi spettatori e giocatori più di quanto appartengono ai loro creatori e sviluppatori. Perché anche loro, per la sussistenza e la sopravvivenza, devono rivolgersi a questi intermediari che oggi sono le grandi piattaforme di distribuzione da cui finiscono per dipendere. E se, secondo Marx, il denaro era l'essenza stessa di questo concetto di alienazione della vita umana, la dematerializzazione del denaro sotto forma di pagamento a mezzo carta di credito virtuale compie l'ulteriore passo in una direzione quantomeno preoccupante.
Quanto vale un videogioco
Torniamo coi piedi per terra e analizziamo il fenomeno dei videogiochi. La narrativa imperante, fin qui, è stato che il modello all-you-can-eat fosse di giovamento per il settore: in giro c'erano sviluppatori che ribadivano quanto le loro vendite fossero aumentate dopo essere entrati in uno dei programmi di sottoscrizione, grazie al passaparola. La formula sarebbe la seguente: io gioco a un gioco che ho scaricato nell'ambito del mio abbonamento, mi diverto, lo dico ai miei amici che non hanno quell'abbonamento e che finiscono per comprarlo per giocare con me. Semplice no? Sembrerebbe di no.

Qualche settimana fa, nel corso del lunghissimo procedimento antitrust che circonda l'acquisizione di Activision-Blizzard da parte di Microsoft, è emerso un dato che fin qui non ho visto smentito: Game Pass, o meglio l'ingresso di un titolo all'interno del meccanismo di sottoscrizione su Xbox, riduce la mole di vendita dei giochi. Se il prodotto è gratis su quella piattaforma, non ci sono vendite mediate dal passaparola che tengano: di quel gioco si venderanno meno copie. Naturalmente questo calo sarà (in parte) compensato dai proventi della cessione a Microsoft per inserirlo nel suo abbonamento: danaro che, soprattutto nel caso di un titolo indie, può fare la differenza tra la sua pubblicazione finale e il deragliamento di un progetto che, seppur interessante, non ha alle spalle la solidità economica di un grande studio di produzione.
L'obiezione più ovvia a questo discorso è che gli sviluppatori possono decidere di inserire nel proprio gioco le tanto amate micro-transazioni: meccanismi di vendita di armi, skin e abilità che possono far crescere il loro guadagno se il gioco diventa popolare. Tralasciando quanto ai giocatori possa piacere il concetto di pay-per-win, se si considera la fetta di introiti che le piattaforme trattengono per il compito di intermediazione che svolgono (tutti quei server deve pur pagarli qualcuno), la matematica delle percentuali che arrivano ai creatori di videogiochi si fa sempre più severa: per ogni dollaro di venduto si scopre che agli sviluppatori finiscono in tasca pochi centesimi. E se è vero che questo significa pure che quei centesimi sono meglio di niente, perché magari altrimenti il gioco non verrebbe venduto o fallirebbe ancora prima di essere rilasciato, viene da chiedersi quanto a lungo questa situazione potrà proseguire prima di vedere un effetto problematico sul settore.
Dunque, è il caso di dire "a conti fatti", tutto si riduce a stabilire il valore che un videogioco ha per i suoi creatori, per gli utenti finali e ovviamente per le piattaforme intermediarie. Lo stesso è già capitato nel mondo del cinema, o della musica: non mi pare che in quel caso si sia assistito a un generale miglioramento delle condizioni economiche e della libertà espressiva degli addetti ai lavori.
La mia scelta: perché io valgo
Tanto per non restare nel campo Microsoft sempre e comunque, quanto saranno stati felici gli acquirenti di Horizon Forbidden West che hanno sborsato oltre 60 euro circa un anno fa, nel vederlo rilasciato nel pacchetto di abbonamento Plus a meno di 12 mesi di distanza? Non è questione di avidità, quanto di comprendere le dinamiche di un proprio investimento. Ovvio che a Sony prema mettere il secondo capitolo della saga in mano a quanti più giocatori possibili, per poi vendergli il DLC (un po' come fa da tempo, con successo, Destiny): ma c'è chi, come il sottoscritto, ci penserà due volte la prossima volta prima di investire i propri soldi al day1.

Gli effetti sulla qualità dei prodotti inseriti nel piano di abbonamento mi paiono poi abbastanza evidenti a tutti i livelli. Il rilascio di Halo Infinite su Game Pass ha giovato al titolo? A mio avviso no, anzi forse ha accelerato la sua semplificazione che l'ha azzoppato rispetto a quanto speravamo sarebbe stato (e ci avevano fatto credere sarebbe stato). Lo stesso vale per Stray su piattaforma PlayStation: ottime premesse, estetica azzeccata, storia potenzialmente intrigante, esecuzione limitata. Tanto è un prodotto gratis, che c'è da lamentarsi? Ecco, pensate a chi quel gioco l'ha comprato su Steam a prezzo pieno: quasi 30 euro per quella sequenza di tunnel in cui c'è un gatto che non fa il gatto. Se magari quell'accordo ha permesso agli sviluppatori di stare in piedi e di pensare al prossimo gioco, potrebbe però anche aver finito per fiaccare la loro ambizione di costruire il miglior videogioco possibile da mettere nelle mani dei giocatori.
Potrei proseguire con gli esempi, ma il quadro mi sembra già abbastanza chiaro. Piuttosto che rischiare, almeno per quanto mi riguarda, preferisco aspettare che un titolo diventi gratis in una piattaforma. A quel punto, visto che ho agilmente accesso a tutte tra PC, smartphone e console, lo proverò. E non è questione di voler esser taccagni: dopo aver visto quello che ho visto sul nuovo Zelda, sto pensando seriamente di acquistare per la prima volta nella mia vita una console Nintendo per giocare unicamente a quel gioco. Se il titolo vale, se c'è dietro anche un percorso che mi assicura che non sarà un solo fuoco di paglia (tra Breath of the Wild e Tears of the Kingdom c'è già da mettere assieme centinaia di ore di gioco), la mia disponibilità a spendere non si è ridotta: tutt'altro.

Sono stato ottimista rispetto alla nascita dei piani in abbonamento per fruire di contenuti e software: mi parve, all'epoca, una strada per combattere la pirateria che tenesse in maggior conto le esigenze di chi sviluppa e di chi fruisce. A distanza di anni, devo forse rivedere alcune mie convinzioni: non tanto perché non sia di fatto aumentata la disponibilità di contenuti e di modi legali per accaparrarseli, quanto perché mi pare che ancora una volta il turbo-capitalismo sta spingendo all'eccesso il meccanismo. Riducendo il valore che questa rivoluzione potrà avere, a lungo termine, per ciascun settore.