Final Fantasy XVI - Un addio al destino
Dopo aver esplorato in lungo ed in largo Final Fantasy XVI è il momento di parlarne e tirare le somme di un gioco che, senza ombra di dubbio, si posizione tranquillamente tra i titoli più "divisivi" della saga.
Non so se l’iconoclastia sia una moda, so per certo che quando bisogna affrontare una serie storicizzata e guardando Final Fantasy XVI l’iconoclastia diventa una necessità creativa.
L’atteggiamento riverente è riservato ai fan, in ginocchio davanti agli idoli, quasi una posizione privilegiata nella sua sudditanza. Sono tutti bravi a dire quanto è buono e quanto è bello Final Fantasy 6/7/9, forti del loro schematismo tutto sommato classico, o quantomeno che riverbera di echi classicheggianti nel mettere in scena situazioni ogni volta diverse e adeguate alla storia che vogliono raccontare, con innesti di gameplay oggettivamente minimi a variare quello che è il grande sistema a turni che muove da sempre il gioco di ruolo, occidentale od orientale che sia.
Da cui per altro la falsa convinzione che “se ci sono i turni è un gioco di ruolo vero”.
Più difficile è mettersi nei panni del creativo, che per necessità artistiche o commerciali quella creatura deve smontarla, aprirla sporcandosi le mani fino al gomito a dipanare una matassa così avvinghiata tra storicizzazione del franchise e fanbase.
Dove inizia una e dove finisce l’altro?
Cosa è Final Fantasy al di fuori della mente dei suoi fruitori? Cosa marca il confine tra il principe di tutti i giochi di ruolo giapponesi e la sua più intima natura? E quanto è possibile variarne la forma lasciando inalterata l’identità?
Ipoteticamente sono le questioni che vengono buttate sul tavolo ogni volta che bisogna creare un nuovo capitolo, e più la serie si allunga più diventa difficile dare una priorità ai temi sopra elencati.
Più la situazione si complica più è facile per me empatizzare con il team di sviluppo e meno con i fan che alla fine battono solo i piedi a terra, dicono che vogliono un gioco diverso per poi giocare sempre la stessa minestra, vogliono trame profonde per poi incazzarsi ogni volta che viene toccato un tema importante e contemporaneo.
Giocare a Final Fantasy XVI per me è stato cercare nel gioco le tracce di un dialogo con gli sviluppatori a cui va tutta la mia empatia e comprensione, sicuramente di più di quanto accaduto con il XV (su cui magari un giorno tornerò, giocando la versione completa definitiva per davvero e magari scoprirò la bellezza che tanti ci hanno trovato ma che io proprio boh).
La dittatura dei cristalli
Pur essendo il principe dei giochi di ruolo alla giapponese, il primo Final Fantasy è il prodotto di gente che si ammazzava di Wizardry e Ultima. Questo per dire che se avviando il gioco avete sentito vibrare una nota molto riconoscibile è perché Final Fantasy ha de sempre attinto all’immaginario del suo presente per distillare qualcosa di diverso, divergente e che a seguito delle varie sovrascritture confluisce a creare l'immagine identitaria della saga.
Qualcuno potrebbe quindi dire che l'attacco di Final Fantasy XVI richiama smaccatamente Game of Thrones, ma è più corretto dire che il gioco sposa un setting da low fantasy che è uno dei generi più popolari degli ultimi anni proprio in virtù del rilancio di visibilità sul genere, come anni fa che era tutto maghetti, young adult, urban fantasy e compagnia cantante.
Quindi attacca che è Game of Thrones e si trasforma rapidamente in Attack on titan.
La magia non è una figata, è un’incidente e una maledizione che classifica le persone come “portatori”, similmente essere un “dominante” capace di trasformarsi in un colossale eikon (il nome delle invocazioni in questo capitolo) che ti condanna automaticamente ad essere un’arma di distruzione di massa.
Ma lo status quo è ad un attimo dal collasso, le varie tensioni tra i regni, il delicato equilibrio che mantiene la pace precipita in seguito ad un tradimento. E nel precipitare della situazione, si manifesta un eikon sconosciuto, antico presagio di rovina.
Questo primo atto (completamente giocabile nella demo gratuita) la trama si sviluppa per innesti successivi, progressivamente ampliando la scala del conflitto fino allo svelamento della vera missione del gioco: liberare il mondo dalla Dittatura dei Cristalli.
I cristalli negli altri capitoli della serie reggevano l’equilibrio del mondo e chiunque li minacciasse era il nemico adesso sono rappresentati come enormi catalizzatori di etere che corrompono il suolo disperdendo una piaga che rende la vita impossibile se non per una genia di corrotti intossicati che si aggirano come zombie per queste lande desolate.
E quindi lo status quo della dittatura dei cristalli va spezzato, vanno infranti i loro cuori, va estirpata il “dono divino” della magia dal mondo.
Mythos e Logos
Non riesco a non leggere tutta la trama in chiave iconoclasta (di cui sopra). Chiave di lettura che per altro me la rende molto più simpatica di quello che realmente è.
L’uccisione simbolica del padre attraverso il topos tipico della serie di “andare ad uccidere Dio”, non un aspirante Dio, non un personaggio che accumula potere per ribaltare la natura, stavolta un Dio Creatore, dal quale affrancarsi, assumendo in se il pieno controllo e sottrarsi al Mythos e abbracciare Logos. Letteralmente liberarsi dell’aspetto mitologico (o dogmatico), superare lo stato di sviluppo sociale legato al folklore e alle tradizioni.
In qualsiasi altro gioco di Final Fantasy, saremmo noi i cattivi.
La stessa manifestazione di Ifrit, l'Eikon sconosciuto la cui apparizione è il presagio di sventura definitivo, è paradigmatica: è chiaramente lo Shin Godzilla di Anno.
La sua caratterizzazione è interessante: è la fiamma distruttrice che si contrappone alla fiamma taumaturgica rappresentata dall'Eikon della Fenice. Insieme rappresentano una dualità, istintivamente contrapposti ma inevitabilmente legati.
Il percorso di Clive è quello che normalmente attribuiremmo ad un villain: assorbire potere, trascendere la sua umanità e il destino che è stato tracciato per lui, arrivare ad uccidere Dio. Potrebbe essere Sephirot nella sua folle corsa per annientare Gaia per mezzo di Meteor.
Il ruolo che è stato tracciato per Ifrit è quello di diventare Mythos, il catalizzatore finale della distruzione del pianeta cosicché le oscure divintà che muovono le fila delle trame dei regni possano di nuovo avere un mondo da abitare, dopo aver distrutto il loro ed essersi insediati su Valisthea.
Gli esseri umani sono stati creati come pedine per la terraformazione del mondo affinché sia pronto ad accoglierli. È anche vero che nello schema di come la storia è strutturata, questo ribaltamento non è mai esasperato, è un continuo svelamento che si dipana durante lo svolgere degli eventi.
Il mondo di gioco ha una costruzione affascinante, molto occidentale, che lo avvicina a opere come Berserk ad esempio, con una conseguente scelta di colori terrei che con il progressivo incupimento della tematica e della vicenda si trasforma in un filtro cupo grigio estremamente tetro che alla lunga stanca, tende ad appiattire tutto e non valorizza i contrasti tra le varie regioni, pure qui intese in chiave “moderatamente” realistica. Unica eccezione le suggestive rovine, il lascito di un mondo precedente la cui storia è andata perduta, ma i cui frammenti emergono come reminiscenze, la loro funzione è persa, la forma invece permane.
La mappa ha un hub centrale (letteralmente), il covo dei ribelli di Cid, e varie mappe regionali mediamente sviluppate.
Scenograficamente parlando funzionano abbastanza nell’offrire un ambiente interessante in cui far succedere cose, falliscono miseramente nel momento in cui a queste mappe viene chiesto di più che di essere attraversate.
Così pure i dungeon sono praticamente assenti, a meno che non consideriamo tutte le mappe dei dungeon a cielo aperto, dato che in pratica svolgono quella funzione, e più che essere labirintiche hanno uno sviluppo prevalentemente longitudinale, ma ritorto con alcuni slarghi che svolgono la funzione di pianure.
Città che funzionano come città: non pervenute.
Croce e delizia
Il vero fulcro dell’esperienza è il combattimento, spostando chiaramente il genere di appartenenza all’action-rpg, o forse no.
In un normale action rpg, secondo me, la componente ruolistica dovrebbe essere molto più spinta, componente che qui è brutalmente sacrificata in funzione di un sistema di combattimento che nelle prime ore di gioco è impossibile non definire interessante ma che si adagia sul suo stesso meccanicismo, non riesce a distaccarsi dal suo concetto primordiale e quindi evolvere.
Tempo fa mi definii esaltato da come si fossero ispirati al combat system di Devil May Cry 5, se non che, di quel sistema prendono solo lo schema comandi del pad, e tutta quella profondità e la consequenziale creatività messa in atto dalle possibilità di cui quel sistema era capace, tutta quella locura, tutta quella esaltazione nel combattimento qui non è pervenuta, con mio grande rammarico.
Il ciclo è sempre prevedibile: combatti un Dominante nemico al crescere della trama, sconfiggilo, acquisiscine il potere che si tramuta in un ulteriore mazzo di abilità tra le quali scegliere, torna a fare fetch quest per rodare le abilità nuove e potenziare quelle che ti piacciono di più fino a che la trama non cresce di nuovo e dovrai combattere contro un altro Dominante e ricominciare il giro.
C’è una storia bellissima sepolta in questo Final Fantasy XVI mortificata da un ritmo di gioco troppo legato al genere degli mmorpg e un sistema di combattimento che svilisce la sua principale fonte di ispirazione.
Arrivato ad un certo punto mi è sembrato che quello a cui stessi giocando fosse la versione depotenziata di ciò che avevano in mente i designer in fase di progettazione.
La magia non ha nessun peso nell’economia del combattimento presa singolarmente se non per chiudere le combo, ma la sua tipologia è indifferente (se combatti un piros col fuoco questo subisce danni e questo è forse il simbolo più grave di tutta la crisi del combat system di FF16) ai fini dello scontro.
Le traccio di ciò che avrebbe potuto essere sono proprio lì: il sistema elementale è presente solo in termini visivi-scenografici ma non ha ripercussioni sull'economia dello scontro. Un eikon legato ad un elemento non avrà alcun vantaggio a scontrarsi contro un nemico dell'elemento opposto.
Da qui il totale azzeramento di qualsivoglia impostazione tattica dello scontro legata alla regione, ai mostri che si possono incontrare, alle debolezze e alle resistenze.
Anche il sistema di scambio da un eikon all'altro ci va a perdere in tal senso, dato che diventa solo un ciclare abilità indifferenti.
C’è una barra dello sbilanciamento che avrebbe avuto senso se supportata da sistema sasso-carta-forbice elementale, come accadeva in Final Fantasy XIII. Nel XVI tutto è semplificato all’osso con attacchi neutri che si dividono in danni diretti o danni “stordenti” che alla lunga appiattiscono il combattimento e limitano qualsivoglia impeto sperimentale del giocatore.
Da annoverare tra i tagli alla componente più squisitamente ruolistica dell’esperienza, la completa scomparsa del party. Ci sono personaggi che ti affiancano nella lotta, ma tu non puoi sceglierli, non hanno nessun influsso sulle battaglie in termini di danni inflitti ai nemici, effetti di status o cure.
Sono assenti dai menu, non hanno una progressione per livelli, non puoi dargli degli ordini: in pratica sono dei personaggi non giocanti che si trovano a passare di lì per caso, se non avessero una scrittura tutto sommato decente, degli archi anche interessanti e aiutano a costituire il nocciolo emotivo del racconto, ma poi finisce qui.
Forse è proprio questo la mossa più grossa che allontana il Final Fantays XVI dal gioco di ruolo come inteso dalla saga fino ad ora, con tutto quel carico di “flessibilità e adattabilità” agli scontri.
Spadate e scintille
Pur nel suo gameplay ridotto all’osso, alla sua scarnificata componente ruolistica, alla paletta cromatica terrea, Final Fantasy XVI è capace di restituire grandi sensazioni nei momenti di fomento massimo, quando il climax narrativo sale e si arriva ad uno scontro contro un dominante che, se pure in una forma schematica, riesce ad avere un impatto scenico incredibile, ribaltando letteralmente il gioco.
Non sono mai scontri particolarmente complessi ma visivamente viaggiano a livelli molto alti ed è percepibile un meraviglioso salto di scala quando ci si trova davanti ad avversari veramente grossi e a disastri colossali in scala “The end of Evangelion”, con una progressione anche giusta, a cui corrisponde purtroppo una contropartita ritmi successiva che fiacca il ritmo di gioco.
Un momento prima stiamo prendendo a capocciate una montaglia che occupa tutto lo schermo, quello dopo una vecchina in difficoltà ci manda a comprare il sale al mercato.
Un momento prima stiamo danzando sui petali di cristallo di un fiore dalle dimensioni della via lattea, quello dopo cerchiamo il gatto perduto di una bambina.
I combattimenti quando ci trasformiamo in Ifrit non sono poi troppo più complessi, mi hanno fatto tornare in mente il dimenticato Asura’s Wrath, il primo gioco che mi ha fatto addormentare con il pad in mano.
Con questo non voglio dire che siano brutti, è che sono “molto diretti”, non andremo mai ko, e se da un lato è anche giusto dal momento che stiamo giocando nei panni di una catastrofe biblica, dall’altro è anche legittimo perde un po' di mordente.
Se non fosse che è tutto portato a schermo da una realizzazione grafica allo stato dell’arte per il Giappone, quindi non pulitissimo come potrebbe risultare uno Spider-man di Insomniac, è impossibile scollare di dosso dai giochi giapponesi una certa rigidità articolare ai loro personaggi, ma è un tripudio di luci, colori, scintille e fuochi d’artificio che accendono lo schermo.
Anche se ai fini dello scontro tutto sommato non servono a niente.
Ma alla fine t'è piaciuto?
Dopo 70 e rotte ore, tutte le missioni secondarie, tutte le armi sbloccate (constatando la loro assoluta inutilità ai fini della crescita dell’effetto al salire del livello), tutto l’equipaggiamento finale craftato, non posso dire che il gioco non mi sia piaciuto, sarei masochista ad infliggermi questa tortura.
Dovendo stilare una ipotetica classifica, assolutamente non onnicomprensiva, delle ultime iterazioni della serie, posso dire che Final Fantasy XVI si piazza serenamente sopra il XV e sopra (la saga de) il XIII. È un gioco più compiuto, diverso, ma più riuscito nel suo modo strano di andare per la sua strada, negando tutte le cose che ai fini del buon senso sarebbe forse stato congruo tenere e sviluppare.
Nonostante le sue storture Final Fantasy XVI ha qualcosa di magnetico che altre produzioni non hanno. Anche quando lo lasci stare per dedicarti ad altro, poi ci torni, e questo complice una struttura lineare molto accomodante che non ti fa mai davvero perdere le fila del racconto o del gioco, che spesso nei giochi ad alto monte ore è un punto debole anche importante.
Per un giocatore come me, tutto gameplay, tutto “vediamo cosa posso fare con questo sistema”, è quasi un’eccezione essermi dedicato così tanto ad un gioco la cui natura è così guidata sotto tutti i punti di vista.
Eppure la storia mi ha tirato dentro abbastanza da voler vedere come andava a finire, vedere cosa ne sarebbe stato di quel mondo al di là degli esiti prevedibili.
Forse è ancora presto per dire che gli ho voluto bene, come ho voluto bene al 9, ad esempio, ma è già qualcosa rispetto all’aver appeso l’8 senza troppi rimorsi e l’aver lasciato l’X-2 a languire sulla vecchia ps4pro.
Final Fantasy XVI è un titolo di rottura, divisivo ma che riesce ad interessare e a divertire per i suoi aspetti narrativi e metanarrativi, per il suo sistema di combattimento e per il casino che riesce a mettere a schermo senza alcuna vergogna.