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Final Fantasy X - Ritorno a Spira

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Final Fantasy X è stato un capitolo epocale, segnando il passaggio dalla prima alla seconda Playstation.

Ogni salto generazionale da una console all’altra ha rappresentato un trampolino di lancio verso un mondo infinito di possibilità. Che poi molte delle promesse si siano rimaste sulla carta è un altro paio di maniche. Il passaggio da Playstation a Playstation 2 fu un momento peculiare tra i miei ricordi videoludici. Ancora oggi è tra le console con le quali ho meno familiarità come parco titoli, pur essendo materialmente nelle case di chiunque, spesso anche solo come lettore DVD.

Se nel corso della mia carriera di videogiocatore in emulazione avevo toccato gran parte dei titoli che mi interessavano per la prima console Sony, PS2 è stato un animale strano, mai emulato direttamente per colmare le lacune più importanti, e anche quando la possibilità tecnologica c’è stata, è mancata l’opportunità, è subentrata la pigrizia e tutta una serie di giochi che hanno contribuito a far splendere la stella di PS2 li ho recuperati nei più pratici (e legali) pacchetti di remastered che affollano gli store digitali.

Un lungo preambolo per dire che Final Fantasy X all’epoca lo vidi solo passare ma questo non avere nessun trascorso significativo col gioco è stato un punto a favore nel recuperarlo recentemente.

Stavolta cambia tutto

In aperture parlavamo di salti generazionali, delle promesse della tecnologia: Final Fantasy X doveva e voleva essere rivoluzionario.

Prima di tutto, ambienti completamente 3D, che detto nel 2001 era comunque significativo nel mondo dei Final Fantasy. Pure il precedentemente rivoluzionario Final Fantasy VII tutto sommato era un titolo ibrido, con personaggi 3D che si muovevano entro ambienti pre-renderizzati, e così fu per l’8 e il 9, un design di gioco che quindi non subiva troppe modifiche rispetto alla tradizione, se non nell’impatto visivo, le interazioni erano comunque le stesse, a cambiare era la sintesi grafica.

Questa scelta di “fare tutto in 3D” ha comportato dei sacrifici, primo tra tutti, immolare sull’altare del progresso tecnologico la World Map che accompagnava la serie fin dai suoi esordi. Sarà la prima di una lunga serie di compromessi che hanno caratterizzato la saga da un certo momento in poi, un lavoro fatto col bilancino di aggiunte e sottrazioni: i filmati sono finalmente doppiati, ma ogni volta che aprono bocca vorresti prenderli a schiaffi; puoi utilizzare tutto il party contemporaneamente, modificando il party con la pressione di un tasto direttamente in combattimento, ma alcuni personaggi sono utili come la forchetta nel brodo; un sistema di crescita che annulla il job system, ma per sbloccare il vero potenziale del personaggi sono necessari armi e accessori ottenibili sono per mezzo degli insopportabili minigiochi.

Final Fantasy X è tutto così, a suo modo avveniristico e polarizzante, estremamente affascinante e terribilmente tedioso, come se la X del titolo non indichi il numero romano 10, ma il pareggio (calcistico) tra stupore e accollo.

L'analcolico biondo che fa impazzire il mondo

Tidus è un giocatore di Blitzball di Zanarkand, la più popolosa metropoli del pianeta Spira, la cui partita è interrotta dall’attacco di una creatura colossale, Sin, con l'effetto collaterale di  trasportarlo 1000 anni nel futuro, su una Spira estremamente diversa da quella che conosceva, dominata da un fervore religioso luddista che ha quasi azzerato la tecnologia. La casta dirigente è quella dei gran maestri che comandano sulle piccole comunità sparse per il mondo e i cui abitanti hanno un peculiare rapporto con la morte, infatti ogni 10 anni l’avvento di Sin è inevitabile e solo gli evocatori possono impedire che la colossale creatura distrugga il mondo. Per fare ciò intraprendono il pellegrinaggio, un lungo viaggio attraverso i santuari di Spira per ottenere l’evocazione suprema. Ovviamente l’arrivo di Tidus coincide con la fine del “Bonacciale” il periodo di pace tra un avvento di Sin e l’altro e il nostro verrà coinvolto suo malgrado nel pellegrinaggio della giovane evocatrice Yuna.

Ritornando per un momento alla struttura, la questione del pellegrinaggio, il viaggio per tappe è effettivamente raccontato in maniera funzionale, se non proprio diegetica, tramite un level design grossomodo “dritto”. Ogni area è un percorso non troppo esplorabile a sviluppo longitudinale che prosegue per tappe, fino alla fine per raggiungere la meta successiva del viaggio. Una specie di lungo cammino di Santiago de Compostela che porta direttamente alle rovine di Zanarkand.

Il mondo di Spira è caratterizzato da un look che mi piace definire carrabeanpunk, all’apparenza molto arioso e solare, dopo il fantasy (tendenzialmente low) tra il classico e lo steampunk del IX. Ci racconta di un mondo diviso tra un aspetto molto positivo, concentrato sul presente e una spiritualità tutta focalizzata sulla morte, da qui, appunto, la centralità della figura degli Evocatori, i cui più importanti e potenti membri sono ammantati da un’aura di santità, così come i guardiani ai quali si accompagnano per il pellegrinaggio.

Gli evocatori svolgono un ruolo centrale per la comunità, trasmigrano le anime dopo la morte degli individui, queste sono rappresentate come delle particelle luminose che si separano dal corpo fino a scomparire. Se le anime non vengono trasmigrate, queste si condensano a creare i mostri.

Il pellegrinaggio è tutto incentrato sulla visita dei santuari dove sono venerate le reliquie degli intercessori, le spoglie mortali protette da teche di vetro di figure mitiche che, pregandole, danno accesso alle evocazioni, che in questo Final Fantasy perdono il nome di Eoni, collezionate tutte, attraverso il rituale dell’Evocazione Suprema, il guardiano dell’evocatore trascende la sua forma mortale per diventare Eone e sconfiggere Sin a costo del sacrificio dell’Evocatore.

L'Eterno Ritorno

Questo è il destino a cui si prepara Yuna se non fosse che l’incontro con Tidus spezza questo circolo di pellegrinaggi, sacrifici e bonacciale tra un ritorno di Sin e l’altro. Tidus che per sua stessa natura, rivelata con lo svolgimento del gioco, è un’anomalia.

La Zanarkand dalla quale proviene non è situata nel passato, è letteralmente il sogno di tutte le anime dei morti che hanno tenuto vivo il ricordo del mondo prima dell’avvento di Sin, prima della guerra apocalittica che ha quasi spazzato via il la razza umana da Spira, Sin è uno strumento della divinità YuYevon (boss finale del gioco e oggettivamente una delle boss battle più brutte della serie) per mantenere sempre costante il ciclo di nascite e morti e autoalimentare il suo culto corrotto, tenuto in vita da una casta di sacerdoti che si rifiutano di trapassare per perpetrare la tradizione e quindi il potere su una società conservatrice.

Il gioco è strapieno di tematiche molto in voga nell’animazione giapponese dell'epoca. Torna prepotentemente l’avversione verso le generazioni precedenti che hanno devastato il mondo, esce fuori un forte spirito anti-conservatore (che si riflette diegeticamente sul gameplay); l’avventura, se vista pensando a Tidus come l’eroe, ha un forte incipit del genere isekai (tipologia di storie dove persona normale viaggia da un mondo all’altro per affrontare il suo arco) e il mondo che racconta è senza dubbio interessante per la sua costruzione.

Ahime, di questo quadro sorprendente non è tutto poi così brillante, soprattutto se prendiamo in considerazione un cast di personaggi tutto sommato scialbo e stereotipato, con picchi di inutilità arrivati nelle fasi avanzate di gioco che non si vedevano da un po’. E i dialoghi che dovrebbero raccontare le grande storia d’amore tra Yuna e Tidus che sono veramente al minimo sindacale della plausibilità, a meno di non voler dare una forte chiave post-moderna all’interpretazione (e nulla mi riesce più facile) e dire che in fin dei conti Tidus è così piatto e scialbo perché è l’equivalente di un calciatore (al quale vogliamo bene per i suoi meriti sportivi, di certo non per i simposi che scrive) e soprattutto è il parto di una volontà collettiva che aveva bisogno di un agente e come tale segue il percorso tracciato dagli stereotipi.

Ha due motivazioni: l’essersi prevedibilmente innamorato della seconda ragazza che incontra e uno sconfinato complesso nei confronti della figura paterna, il leggendario Braska, calciatore pure lui che non ha mai considerato il figlio all’altezza, reputandolo un debole e che accompagno il padre di Yuna durante il suo pellegrinaggio fino a diventare il “nuovo Sin”, l’armatura di YuYevon.

Qui sarebbero molto interessanti considerazioni sul libero arbitrio di un eroe “sognato” e di quanto analogamente il giocatore è privo di quella stessa libertà d’azione perché diegeticamente legato all’impossibilità di agire altrimenti del protagonista. Da quando porto aventi questa serie di scritti ho sempre reputato interessante come alla fine il JRPG sia una grande piece teatrale che si può interpretare (ma sarebbe più corretto parlare di immedesimazione, per la suddetta mancanza di libertà di scelta) bene o male, a seconda di quanto e come riusciamo a superare gli ostacoli che il gioco ci pone.

Final Fantasy X fa un passo ulteriore su questa strada troncando tutte, o quasi, le ramificazioni, segnando una tappa importante nell’evoluzione della serie, che da questo momento in poi verrà spesso criticata per la ricorsiva mancanza di esplorabilità del mondo, la famosa “sindrome del corridoio”, un prodotto molto più asciutto che accantona l’esplorazione per focalizzarsi sullo sviluppo della storia e del combattimento.

Sferomania

Tutto quello che concerne il combattimento è un ulteriore campo di sperimentazione.
Accennavo prima a come per la prima volta il party sia giocabile tutto contemporaneamente, inoltre anche armi e protezioni sono switchabili rapidamente dallo stesso menù a tendina del combattimento, diciamo armi e protezioni ma in realtà sono letteralmente le “abilità equipaggiadili” accoppiate ad armi e protezioni.

L'equipaggiamento quindi non fornisce delle statistiche al personaggio (valore di attacco o di difesa) quanto dei modificatori, scegliendo un oggetto invece di un altro avremo quindi il 5% in più ai danni o il 10% di protezione delle magie di fuoco e cose così, il parametro di attacco, difesa, velocità e compagnia cantante si potenzia sviluppando la sferografia, il tabellone della progressione diviso in percorsi di sfere concentriche, come un gigantesco murales, che una volta accese incrementano un parametro o sbloccano un’abilità, portando alla completa dissoluzione del sistema di job come lo conoscevamo, in quanto tutti i personaggi condividono lo stesso tabellone e sono liberi di andare nella direzione che vogliono e che solo all’inizio è davvero discriminante indirizzando ogni personaggio giocabile su un "cammino" di abilità proprie.

Altra grossa limitazione sono le Armi dei Sette Astri, l’equip finale dei personaggi che possedendo la preziosa abilita Danni Apeiron permette di sfondare lo storico limite di 9.999 danni e che fa oggettivamente la differenza sui contenuti endgame o se volete semplicemente dare un’accelerata alle boss fight che per schematicità rischiano di essere un pelo tediose.

In un gioco che limita la libertà di esplorazione, per certi versi limita la possibilità ai personaggi di svilupparsi, tutti i boss obbligatori si rivelano una passeggiata, molto scenografica, ma mai davvero impegnativa. Quando al party viene data la libetà di muoversi sulla mappa (con una lista di location) tramite aereonave per sbloccare oggetti, sbloccare eoni segreti, livellare in zone un pelo più impegnative e battere qualche boss segreto, tutto il finale subisce un vero e proprio crollo verticale della difficoltà, e questo, nel mio caso, potenziando solo due armi dei sette astri (non ce la posso mai fare a schivare 200 fulmini o accollarmi quelle tediose gare di chocobo).

Ad un certo punto, i paramenti ottenuti sviluppando la sferografia erano diventati troppo più alti rispetto ai limiti imposto alle armi normali. Sono caduto nell’errore di uno sviluppo meccanico e insensato dei personaggi, incedendo troppo negli scontri casuali e nel grinding sfrenato spinto da un irragionevole senso di urgenza perché prima di affrontare l’area finale mi ero messo in testa di fare tutti gli scontri opzionali. Così ho battuto Omega e Ultima Weapon nelle rovine di Omega, senza nemmeno impegnarmi, e i miei personaggi erano su quel livello là. Mi sono rimasti preclusi gli Eoni Oscuri per la famosa tendenza a barare di questi giochi con un attacco inevitabile a inizio scontro che, nonostante il livello alto, senza una determinata protezione, ti lascia steso a terra. Mi sarebbe piaciuto vedere questo fantomatico Der Richter, raccontato come il boss più tosto del gioco, ma niente, mi è rimasto precluso dietro il collo di bottiglia dettato dell’equipaggiamento.

Final Fantasy X con tutti i suoi limiti, le sue ripetizioni, i suoi evidenti difetti sul piano della scrittura e una grafica che mostra veramente il peso dei suoi anni (proporzionalmente, quanto li mostra la grafica del VII), è stato un viaggio piacevole che splende della forza della mediocrità: non tutto è al meglio della sua forma ma tante cose imperfette contribuiscono a creare un’esperienza il cui valore è superiore alla somma della qualità delle singole parti. Siamo allo stesso tempo lontani sia dal picco di Final Fantasy VII, che sarebbe veramente da stupidi non riconoscere come tale, che dall’abisso dell’VIII, troppo più rotto e disfunzionale e con un mondo molto meno affascinante (lo so che qui entriamo nel soggettivo e ci sta).

Final Fantasy X prometteva il futuro, apriva letteralmente su di esso compiendo anche delle scelte coraggiose, in quel continuo equilibrio tra elementi tradizionali della serie e sperimentazione grafica e di design.

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