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Diabolik, chi sei? Anteprima dal red carpet di Lucca C&G

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Il terzo film dedicato a Diabolik sceglie una storie emblematica da portare a schermo per raccontare le misteriose origini del Re del Terrore.

Il problema più grande dell’Italia è il provincialismo.
Ne è afflitta da nord a sud, indistintamente.
Il provincialismo si è radicato nel Paese dal momento in cui ha perso il ruolo di baluardo della cultura occidentale, praticamente dalla caduta dell’impero romano d’occidente, se non che non se ne sono accorti fino allo seconda guerra mondiale, forse perché il concetto di provincia era effettivamente alieno al tempo delle invasioni barbariche.

E credetemi, io di provincia ne capisco, insistendo per viverci, fermamente convinto che le grandi metropoli ingrassano sulle spalle di tanti ragazzi pieni di idee e competenze della provincia che vanno ad oliare gli ingranaggi della macchina dei padroni che con la scusa di insegnarti il lavoro ti pagano una miseria, che forse sarebbe giusto decentralizzare e ridistribuire questa forza intellettuale, invece di accentrarla in un unico posto, con tutta la serie di problematiche relative, come speculazione immobiliare, condizioni di lavoro inaccettabili, costo della vita alle stelle.

Ma comunque sono le 22:25 mentre scrivo, mi ero ripromesso di farla breve e invece ho perso 10 righe a congetturare sul alcune delle mie fisse ricorrenti, forse perché non sono solo mie.

Diabolik, chi sei? è il terzo ed ultimo film della (per ora) trilogia dedicata al ladro delle sorelle Giussani diretto dai Manetti Bros. ed è un film che, se pur basato su fumetto (attenzione, su un fumetto non su di un personaggio a fumetti, o sull’idea che i lettori occasionali hanno del suddetto personaggio), sceglie coscientemente di intraprendere la strada più autoriale possibile: andare in controtendenza con la moda dei cinecomics d’oltreoceano, in un momento storico dove pure gli indiani fanno il loro universo cinematografico di superdivinità schifosamente ispirato dal punto di vista estetico ai cinecomics, attori, allo stesso tempo attori, sceneggiatori, maestranze degli effetti speciali sono in sciopero perché quel sistema produttivo è diventato intollerabile, tutto ciò mentre serpeggia tra il pubblico una certa noia, o stanchezza, che qualcuno più studiato di me ha chiamato “superhero fatigue”.

E quindi scegliere di non essere provinciali.

Una delicata riflessione sullo sguardo di chi ama

La trilogia di Diabolik mette al centro dell’esperienza non l’emulazione di un modello rodato altro, quanto piuttosto la strada della traslitterazione, un’operazione calligrafica volta a portare a schermo non solo le storie, ma anche la sensazione generale che si ha aprendo un impolverato ed ingiallito volumetto Astorina.
Come si traduce tutto ciò a schermo? Film ai quali il pubblico non era psicologicamente ed artisticamente pronto, con una recitazione affettata, delle pose plastiche da teatro di posa della RAI TBINV (tiemp bell i na vot = bei tempi andati), una rigidezza della camera quasi innaturale nelle inquadrature e un senso generalmente straniante, accentuato da una rappresentazione di Diabolik come un sociopatico col quale era impossibile provare la benché minima empatia, non solo anti-eroico, ma un villain completo. Esattamente come volevano i fumetti neri italiani degli anni ’60, la nera trinità formata, appunto, da Diabolik, Kriminal e Satanik.

Ma Diabolik negli anni cambia, soprattutto grazie all’amore di Eva Kant. Sarebbe una frase stucchevole decontestualizzata, ma Diabolik ama ed è amato da Eva, il loro è un amore puro che può esistere solo ed esclusivamente nella narrativa che non se ne frega di scadere nella ripetitività, non c’è ambiguità nel loro sentimento, e questo cambia Diabolik anche diegeticamente, perché cambia l’attore, non più Luca Marinelli, sostituito da Giacomo Gianniotti, secondo me con risultati accettabili, soprattutto per quanto riguarda la presenza scenica: Gianniotti è un Diabolik più “rassicurante” e portato per ruoli più fisici.

Per tradurvi il passaggio di testimone con un esempio che TUTTI (il grassetto può celare sarcasmo) possono cogliere, tra i due c’è la stessa differenza che passa tra lo 007 di Timothy Dalton e quello di Pierce Brosnan.

E se questo è un problema insormontabile e la parola "diegetico" vi dà l'orticaria, potete immaginare che Marinelli fosse la maschera e Gianniotti fosse il vero volto di Diabolik.

That ‘70s show

Un uomo cambiato dall’amore di una donna, ma soprattutto cambiato dal tempo. La questione del tempo in Diabolik è centrale. Diabolik inizialmente agiva nella Costa Azzurra degli anni ’60, castigando la borghesia. Ma gli anni ’60 non durano per sempre, nemmeno Clerville, la città fittizia dove vige ancora la pena di morte che fa da scenario alle storie di Diabolik e quindi, volendo fotografare tre momenti delle storie di Diabolik, con tre film, muovendosi in avanti di 5 anni alla volta, grossomodo, Diabolik, chi sei? è ambientato negli anni ’70 ed è uno stacco netto percepibile sotto tutti i punti di vista. La regia è molto più “mossa”, il film si apre con una rapina estremamente dinamica, i Manetti tornano ad usare le loro amate steadycam (ma non arrivano mai al livello di confusione visiva dei troppi emuli di Greengrass). All’atto pratico, i registi sembrano dominare meglio l’ambiente e la materia trattata, restituendo una sensazione allo spettatore molto più “slegata” e disinvolta, non più divertita degli altri due film, ma sicuramente più divertente. Se non che, quando ci siamo abituati al ritmo della pellicola, scattano i flashback e con loro un nuovo cambio di tono, una regia diversa, una colonna sonora diversa, e così costumi e scenografia. All’improvviso il film ammicca palesemente all’espressionismo tedesco, dalle parti di M – Il mostro di Dusseldorf. L’effetto è sorprendente, sia per l’aspetto generale che per gli interpreti scelti ad impersonare King (non vi dirò chi lo interpreta perché questo sì, sarebbe rovinarvi la sorpresa) e il giovane Diabolik.

Ricapitolando: un terzo del film lo fa la regia, un terzo le interpretazioni, ma una parte estremamente rilevante ce l’hanno di pari merito scenografia e costumi nel compito assolutamente non banale di rendere a schermo un’epoca passata in un posto che non esiste.

Per gli esterni vengono scelte solo strade limitrofe edifici appartenenti al razionalismo italiano (che nella cultura di massa, dato che razionalismo è un po’ dire fascista, vengono rivenduti con la terminologia tutto sommato impropria di “brutalismo”). Questa scelta rende gli esterni, con una scansione molto netta tra pieni e vuoi, le proporzioni dei vani ben determinate, l’assenza di giochi chiaroscurali, come se fossero usciti dai fondali delle tavole di un fumetto anni ’70.

Gli interni sono un campionario di quello che di meglio aveva da offrire l’interior design dell’epoca con pezzi in stile ineccepibile, composti sensatamente (non troverete lampade ad arco di Castiglioni piazzate sopra a divani per il solo gusto di riempire la scena).

Scansare il proiettile

Ho aperto il pezzo parlando di provincialismo e autorialità.

Il provincialismo è abbondantemente evitato dal momento che sarebbe stato facile fare un film à la Batman Begins, ma non sarebbe stato un film autoriale. Sarebbe stato facile ricalcare la pista tracciata da altri, e sarebbe stato anche facile fallire seguendo quella strada, se non altro per la mancanza di fondi, di effetti, di maestranze.

Ho parlato di provincialismo perché questo film, come gli altri due precedenti va esattamente nella direzione opposta al provincialismo: non sminuisce la materia trattata sentendo la necessità di lavarla nei panni del cinema di supereroi, banalmente perché Diabolik ha un valore intrinseco di pari dignità, così come ha pari dignità il cinema di genere italiano, nonostante anni e anni di vessazione abbiamo provato a cancellare quella parte della storia del cinema, votandosi a santini graziati dal bollino del “vero artista” a scapito di un sacco di registi bravissimi dimenticati dai più nel momento in cui è stato stabilito che il cinema di genere in Italia non si doveva fare.

Per me la Trilogia di Diabolik va messa lì, insieme agli altri film che hanno sancito la rinascita del genere in Italia, forse anche meglio di altri esperimenti meno riusciti.

Poi ci sta un margine di fraintendimento col pubblico e se non vi sono piaciuti gli altri due film, o addirittura avete ignorato il secondo, questo non vi farà cambiare idea, ma sta di fatto che Diabolik, chi sei? è il migliore dei tre e a me ha divertito tantissimo, per le sue ambizioni, la sua ambientazione, per il Ginko di Mastandrea che giganteggia al di sopra di tutti gli altri personaggi, per il suo bacio ad Altea, per la rapina, per i flashback e per King.

Non vi sto esortando ad andare a vederlo, anche stavolta una questione di scelte e di schieramenti: potete ancora una volta sedervi in poltrona per l’ennesimo film Marvel uguale a tutti gli altri, che vi offre la solita minestra riscaldata sul fuoco del lavoro di gente che adesso sta scioperando affinché quel modo di fare film cambi, oppure dare una chance a Diabolik, e vedere che c’è ancora cinema oltre la superhero fatigue.

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