

Cyberpunk 2077 come l'ho vissuto io
Cyberpunk 2077 è un titolo complesso, funestato di polemiche, bug e discussioni che però... però ho amato perchè ho deciso di crederci a scapito di tutto
I titoli di coda si riflettono sui miei occhi umani, troppo umani, le mani stringono appena il pad, abbandonato sul grembo, mentre una cover di Never Fade Away mi mostra tutte le persone che hanno lavorato a Cyberpunk 2077 per cercare di restare nei tempi dettati dalle quotazioni in borsa, dal marketing e da una fanbase che ormai era preda dello psicodramma.
Ho finito il gioco, o almeno, l’ho finito in questo modo, dopo avergli dedicato ogni momento libero, preda di quella bellissima sensazione di un’opera che ti chiama quando non ti stai occupando di lei e che molli solo storcendo impercettibilmente la bocca.
Ho vissuto Cyberpunk 2077 dalla posizione migliore e peggiore possibile. Da una parte è il gioco di ruolo che più di tutti è stato presente nella mia vita, fin da quando in un'estate degli anni ’90 un amico si presentò al mare con questo volume dalla copertina nera con scritta rossa e un tizio con la pistola stampato sopra. Questo mi ha permesso di godermi l’esperienza con un forte coinvolgimento personale ed emotivo che ha amplificato l’esperienza e reso più vivi nomi, luoghi, citazioni e testi. Poi ci sarebbe questa cosa che da anni vivo analizzando e parlando di videogiochi. Dall’altra parte questa vicinanza, questo trovarsi perfettamente al crocevia rischia di farmi sentire troppo vicino, incapace di vederne le complessità e analizzare il tutto col necessario distacco.
Ci proverò, consapevole del fatto di aver vissuto un’esperienza spesso diversa dalle persone con cui mi sono confrontato. Sono stato indubbiamente un privilegiato, perché ci ho potuto giocare con un computer adeguato, non sulle console nuove o vecchie, dove la situazione è stata spesso disastrosa (o buona, anche là non si capisce se il gioco va male a caso o sentiamo il bisogno di giustificare i nostri acquisti). Consapevole anche di essere inconsciamente pronto a superare difetti e problemi perché rapito dall'esperienza, ma a mia discolpa, tribunale dell'internet, il valore di un'opera non sta anche nel modo in cui con specchi e illusioni ti fa credere cose che non esistono?
Ho avuto pochi bug alcuni bruttini, qualcuno fastidioso, ma niente che mi portasse fuori dal gioco, ho avuto pochi rallentamenti, mi sono meravigliato a ogni angolo di una Night City in cui l’occhio non si riposa mai. I combattimenti sono stati un'esperienza altalenante tra stupidità e sfida, niente di trascendentale, niente di drammatico.
Giochi come Cyberpunk 2077 sono ambiziosi, ma anche tremendamente fragili, ci vuole pochissimo a romperli, come accade sempre quando cerchi di avvicinarti al reale. Basta una frase ripetuta, una interazione legnosa e improvvisamente sei “solo” in un videogioco.
Da una parte credo sia assurdo chiedere un’esperienza in cui tutti per strada ti parlano e puoi entrare in ogni casa, non solo è difficilissimo dal punto di vista tecnico, ma, banalmente, non è così che funziona quando andiamo in giro per strada. Dall’altra se dai la cinepresa in mano al pubblico ci sta che quello noti che è tutto un set, che le case del west sono finte e Cyberpunk non pare neanche particolarmente bravo a nascondere le impalcature. Da questo punto di vista la finzione di Read Dead Redemption 2 resta ancora la più raffinata (anche se di case in cui entrare ce n’erano poche e alla fine anche là le frasi si ripetevano), ma anche quella è aggirabile, ovvio.
Per godertelo devi stare ai patti, devi consapevolmente adattarti a una libertà a metà, alla regia che suona a orecchio. Come diceva Roberto Recchioni in una chiacchiera che abbiamo fatto sul gioco, un po’ devi viverlo come una di quelle attrazioni moderne da Universal Studios con i figuranti in cui se ti fermi o devi troppo dal copione che hanno scritto si vede che è finto e crolla tutto. Se uno non vuole stare ai patti, cosa assolutamente legittima, la situazione si compromette. I giochi belli sono quelli che i patti non te li fanno nemmeno vedere, sotto questo punto di vista Cyberpunk 2077, al momento, gioca a carte fin troppo scoperte, anche se io ammetto di non aver avuto molti dei problemi che leggo in queste ore.
Non li ho voluti vedere? Mi sono fatto fregare dal gioco, lasciandomi trascinare, senza cercare di rompere le sue meccaniche? Ho avuto fortuna con una IA traballante e randomica, che a volte ti cerca, a volte guarda il muro, a volte si mette educatamente in fila per farsi ammazzare, a volte ti accerchia? Non lo so, sono felice della mia esperienza ma penso che chi ne ha avuta una peggiore vada ascoltato, ma a volte realmente mi sembra di aver giocato un titolo diverso rispetto ad altri e credo che questo faccia purtroppo anche parte di uno “scollamento emotivo” che avviene con qualcosa che non ti convince, come quando stai con una persona e improvvisamente vedi solo i difetti. A me è capitato un sacco di volte con giochi che, improvvisamente, mi davano solo fastidio e non mi metto certo a dire che chi non si sta divertendo è uno scemo.
Faccio mio quanto scritto da Roberto, con cui ho avuto più di un confronto sul gioco (ti aspetto fuori) che dice " La verità, secondo me, è che CD Projekt ha creato un vero gioco di ruolo. E si badi, non sto dicendo che Cyberpunk 2077 è quel raffinato esemplare di rpg digitale in grado di garantire una piena libertà in un mondo, vasto, vivo, strutturato e credibile che ci era stato promesso. A essere sinceri, credo che il gioco sia lontanissimo da questa ambiziosa prospettiva. Quando dico che Cyberpunk 2077 è un VERO gioco di ruolo intendo dire che, come gli rpg carta e penna, funziona davvero solamente se ci metti del tuo per farlo funzionare. Se, come giocatore, non agisci mai per distruggere l'illusione che il titolo cerca di creare e partecipi attivamente alla sospensione dell'incredulità".
E dunque, grazie al mio vissuto col GDR e al fatto di essere uno che per natura si butta nelle storie di testa, assaporandole in modo estremamente personale, grazie al fatto che non ho avuto quello scollamento, forse come Homer che vede il maiale volante e dice “è ancora buono!”, ho vissuto una cinquantina di ore nei panni di V, ex corporativa disillusa, rotta dalla vita, che a Night City chiede solo di essere ricordata e di avere un cocktail col suo nome all’Afterlife.
La modellazione del personaggio un Cyberpunk è un dialogo continuo con gli autori, da una parte ci sono le strade che loro hanno preparato, dall’altra ci sei tu che piano piano scegli quale prendere. Non ci troviamo dunque di fronte a un gioco di ruolo totale, ma in cui possiamo senza dubbio dire la nostra oppure, a volte, non rispondere. E così ho scelto, e ho scelto, dialogo dopo dialogo, bivio dopo bivio, di creare un personaggio che avesse pochi ma incrollabili punti fermi e sapesse affrontare la morte con un sorriso triste e una canzone sulle labbra, cercando di farla pagare a chi l’aveva fottuta, ma senza diventare un relitto pieno di rimpianti e non detti come Johnny Silverhand.
Ecco parliamo di Johnny, che appare fin da subito come una figura mitologica del passato, che si impone, come tutti quelli che hanno fatto la storia di Night City, come una sorta di icona intoccabile. Non sarai grande come lui, come il rocker che assaltò il palazzo dell’Arasaka e del quale non è rimasto niente se non qualche disco sulle bancarelle.
Il Johnny che poi ci ritroviamo nella nostra testa è invece un gran pezzo di merda, una rockstar egoista e ossessionata dai suoi demoni da non rendersi conto di non essere neppure l’obiettivo più importante sulla piazza. Uno che quando viene rapita la sua compagna, Alt Cunnigham, la più grande hacker del suo tempo, pensa che sia solo una mossa dell’Arasaka per colpire lui. Il rapporto con Johnny, fatto di continue provocazioni da boomer che ai suoi tempi si che si andava contro le corporazioni è un rapporto con la realtà delle icone e la loro caduta. Nessuno dei grandi personaggi che popolano la lore di Cyberpunk è intoccabile: Rogue è la regina dei fixer, ma ha venduto la sua anima e si è chiusa emotivamente al mondo, Kerry Eurodyne è un rocker depresso che vive isolato nel suo bisogno di conferme, Silverhand ha ferito e umiliati chiunque gli fosse vicino, divorando tutto col suo carattere ingombrante e ci vorrà un bel po’ per entrarci in sintonia. O meglio, ci vorrà del tempo prima di poter scegliere di farlo e, occasionalmente lasciargli spazio nella vita di V.
Il sospetto è che tutto questo volendo possa essere stravolto da scelte differenti, di sicuro quelle finali, ma anche quelle precedenti. E se avessi mandato a fanculo Johnny in quel motel? E se avessi evitato di cercare una mediazione? Se avessi risposto in modo sempre più ruvido alle sue provocazioni? Devo scoprirlo.
Il rapporto fra due ghost nella stessa shell è uno degli aspetti più interessanti del gioco, attualissimo nel suo contrastare continuamente mito e realtà, gloria e meschinità, passati idealizzati e presenti in cerca di rivalsa. Pienamente cyberpunk ma anche estremamente tradizionale, così come alcune storie degne di un noir vecchio stile. Chi ha definito il gioco come il rock che piaceva ai nostri padri ha assolutamente ragione. Non c’è un vero e proprio futuro in questo cyberpunk fatto di riviste, vinili, chitarre elettriche ma anche cyberspazio, influencer e interfacce neurali.
E se Cyberpunk 2077 come posto in cui sparare e fare a fette la gente mi piaciuto, dato che ogni arma ha una sua personalità e si sente, è indubbio che il grande valore di Cyberpunk stato quasi tutto nella scrittura dei personaggi, dei personaggi, soprattutto quelli femminili, tra cui metto anche la mia V, perché di sicuro la stessa storia e le stesse scelte nei panni di un uomo avrebbero avuto un sapore ben diverso. Forse è un grande valore che sento perché sono vecchio e sparacchio nei videogiochi da tanto, chissà.
Penso però che non sia un caso che con una presenza maschile così forte, machista e ingombrante come Johnny si contrappongano molte donne così diverse da lui. La nomade Panam, ribelle, ma affezionata alla sua famiglia, la fragile geek Judy, che sogna di andarsene da Night City ma non prima di aver fatto del bene e ovviamente Rogue, la compagna del passato, con le sue bellissime rughe e i capelli bianchi che incorniciano ottiche Kiroshi di alto livello. E poi abbiamo IA che guidano le auto e si pongo dubbi etici, poliziotti alle prese con serial killer traumatizzati dai padri, gente che ti prega di non ucciderla, politici indottrinati, meschinità e bellezze.
Tra questi personaggi metto anche Night City e i suoi dintorni, che a volte ti opprime con palazzi che si incrociano, altre volte ti acceca con giornate di sole e marciapiedi arroventati, che puoi quasi sentire il puzzo della spazzatura che marcisce col caldo. Anche quando non ci sono i neon non perde mai quel senso di realtà, quella capacità di mescolare bellezza e schifo che forse solo Los Angeles e Shanghai ti sanno dare.
Oggi il gioco mi sembra perfettamente riassunto in questo scatto: una casa sul mare dove rilassarsi, solo che invece sei di fronte a lago radioattivo e inquinato che ha sepolto un villaggio e sulla riva non si cammina dalla spazzatura.
Cedendo al patto narrativo di Cyberpunk 2077 sono entrato in locali con i bassi che si sentono da fuori e mi hanno ricordato quanto mi manca una birra al bancone, ho saltato dal terzo piano di un palazzo con Grimes nelle orecchie e affettato arti al ritmo di Hole in the Sun, passeggiato per i mercatini in cerca di un ripperdock che avesse quell’amplificatore di riflessi che cercavo. Col tempo ho imparato a suonare V a orecchio, cercando sempre di vestirla e farla rispondere seguendo il mio istinto su ciò che le sarebbe piaciuto. Proprio come Johnny, abitavo il suo corpo e l’ho realmente vissuta come una parte di me che era all’interno di un altro mondo. Ho camminato per le strade di Night City con stivali rossi, una giacca dei Samurai, occhiali da aviatore, un rossetto dorato, un lanciarazzi nel braccio, calva come una guerriera, ma pronta alla dolcezza.
Ho scelto di vivere una storia di anime disperate, rimpianti ed eroismo, di dita medie sbattute in faccia al mondo, di compromessi con cui convivere, di futuri assieme che sono crollati la mattina dopo, di sopravvissuti che hanno tutto, ma quel tutto poi diventa niente perché in un sistema come quello di Night City arrivi in cima affidandoti a un bisogno di avere sempre di più che alla fine ti consuma, mentre la città va avanti e di te, se è andata bene, resta soltanto un cocktail che qualcuno berrà, sognando di corre sul filo del rasoio.
Quando tutto è finito ho avvertito un terribile senso di vuoto, perché decidendo di vivere coi paraocchi della storia per me V è stato un personaggio vero, qualcuno con cui ho condiviso ore, shot di tequila, sparatorie, lutti e lenzuola.
E tutta questa storia non può fare a meno di ricordarmi l’incredibile potere dei videogiochi, un potere però che possiamo concedergli solo noi e chi li produce e che spesso viviamo in maniera esclusiva. Per questo ancora oggi sono una grande nicchia, di cui i giocatori di Cyberpunk 2077 a cui funziona tutto così liscio da potersi abbandonare a una esperienza emotiva sono ancora meno.
Per quanto non ci sia niente da ridere su un gioco venduto male, con milioni di persone arrabbiate che chiedono il rimborso, non posso non sorridere alla situazione così meta di un titolo ambientato in un mondo composto di enormi disuguaglianze sociali in cui io posso godermi tutto al meglio grazie a un PC costoso e altri no.
E quindi ciao V, sei stata preziosa, non dimenticarmi, io no ti dimenticherò di sicuro e non vedo l’ora di essere di nuovo te il prima possibile.