Campanile a fumetti: l'umorismo surreale di Tito Faraci e Sio
Il nuovo romanzo di Tito Faraci e Sio è una spassosa discesa nel maelstrom dell'umorismo surreale: un'opera ibrida tra fumetto e letteratura promettente anche per potenziali futuri sviluppi.
“Il pesce di lana e altre storie abbastanza belle (alcune anche molto belle, non tante, solo alcune) di Maryjane J. Jayne” è il secondo romanzo realizzato in collaborazione tra Tito Faraci e Sio, dopo “Le entusiasmanti avventure di Max Middlestone e del suo cane alto trecento metri” (in entrambi i casi, le scelte per il titolo sembrano ispirate allo spirito dei film di Lina Wertmuller).
La collaborazione tra i due autori è più strutturale di quel che sembri: “Ridi Topolino” (1997) di Faraci fu la testata che, sul finire degli anni ’90, sviluppò maggiormente quell’umorismo surreale insito in Disney ma usualmente più tenuto sotto controllo nella testata principale: a quello spirito ha sempre dichiarato di ispirarsi Sio, che nel 2015 è stato quindi coinvolto da Faraci nella Disney italiana proprio per sviluppare tale filone surreale (e in quest’ambito i due hanno ideato la recente testata “Ridi Paperoga”). Sio è uno dei massimi alfieri – al fianco di Davide La Rosa - di quel “fumetto disegnato male” emerso negli ultimi anni: un segno minimale, da “omini a stecco”, veicolo solitamente di un umorismo surreale variamente declinato. Modello remoto nel segno, più che il disneyano (sorretto sempre da disegni complessivamente “classici”), è “L’omino bufo” (1972) di Alfredo Castelli, portato avanti negli anni da vari autori (tra cui un disneyano di classe come Artibani), e che in parte può apparire citato dai due autori nel dentuto "Jim Jimmy" che appare in quest'opera.
Per contro, “L’omino bufo” era una gustosissima eccezione nel fumetto italiano: l’esplosione del fenomeno del “disegnato male” si lega alla rete e alla nuova fruizione dei comics – è in parte precedente, ma il fattore scatenante è probabilmente da collegarsi anche alla prima generazione dei meme, i “rage comics” (2007) ormai parte dell’accelerata archeologia social.
L’esperimento feltrinelliano del duo (felice, se giunge a questa seconda edizione) è a mio avviso molto interessante, perché – assumendo una forma mista testo/fumetto pare ricondursi a un filone che pareva ormai declinato della letteratura comica italiana, quello dell’umorismo classico, potentemente venato di surreale.
Codificato teoricamente nel 1904 dal Pirandello saggista, che ne sviluppò poi una visione intenzionalmente cupa, l’umorismo classico italiano ebbe il suo massimo esponente in Achille Campanile (1899-1977), apprezzato da Pirandello stesso e invece poi ingiustamente escluso dal canone letterario. Campanile verso la metà degli anni ’20 codificò un genere in cui si cimentarono anche autori del calibro di Mosca e Guareschi (non tanto nell’arcinoto ciclo di Don Camillo, ma in opere come “Il destino si chiama Clotilde”), su riviste come "Bertoldo" e, in misura minore (e ormai più "politico") "Candido".
Il libro di Faraci e Sio ricorda Campanile in più punti, anche nella scelta di una straniante cornice di fine Ottocento, dove si va a tracciare la biografia della presunta “vera inventrice del fumetto”, il personaggio appunto del titolo. L’ironia metafumettistica quindi si spreca, ma sempre nel segno del surreale. La bravura degli autori sta nel tenersi in bilico tra questi due registri dell’ironia: da un lato c’è quello parodistico, e il volume come struttura ricorda quindi le “edizioni filologiche” di fumetti classici oggi (e da un po’) comuni, e che sono un segno della attuale, sacrosanta e in verità tardiva, “legittimazione” del medium. Dall’altro, lo scarto verso l'umorismo surreale, prevedibile (stante gli autori) ma sempre sanamente spiazzate, un salto nell’”altrove assoluto” (come identificava Umberto Eco, appunto, l’opera di Campanile). La difficoltà appare nel far sì che la caduta nel surreale non annulli totalmente la struttura parodistica, pur decostruendola sufficientemente da rendere lo svolgersi di questa biografia (e bibliografia) immaginaria totalmente delirante.
Tre passi nel delirio su una lama di rasoio, insomma: ma, per contro, la continua variazione dei materiali (fumetti, racconti, poesie, testi illustrati per l’infanzia come “Il pesce di lana” del titolo, ipotetici “testi critici” di commento) aiutano a dare varietà al testo mantenendo al contempo la necessaria coerenza parodistica. La ipotizzata longevità della centenaria autrice, che muore nel 1973, consente di parodiare numerosi sottogeneri fumettistici, dal supereroico a Dick Tracy. Forse l’aspetto più raffinato e inquietante sono i testi poetici: chiaramente l’elemento parodistico permane, ironizzando sullo stile ermetico moderno (in senso lato), anche con una precisa parodia di Ungaretti (“Si sta / come d’autunno / sugli alberi / gli sceriffi”: meno banale di quanto sembri, se nell’originale tratta come noto di “Soldati”). Tuttavia, esso è reso più esplicito dai testi di commento, mentre le liriche, a tratti, generano lo spiazzamento di un possibile vero testo poetico modernista: in altri contesti lo squarcio verso il surreale non sarebbe letto come parodia umoristica, ma come rappresentazione del nonsense esitenziale. E perfino un testo più parodistico come “Zumbo” (che si limita a ripetere questa parola ad libitum) sarebbe così marcatamente comico in “Zang Tumb Tumb” di Marinetti o una raccolta futurista?
Insomma, a un primo livello, abbiamo certamente un romanzo di puro divertimento secondo la migliore tradizione umoristica. Del resto, questo filone ha sempre ironizzato su eccessive sovrastrutture critiche, come in fondo implicitamente si fa anche qui: e forse è il motivo per la per altri versi incredibile sottovalutazione di Campanile e soci. Dall’altro, però, e col costante timore di una sovrainterpretazione, il gioco letterario è raffinato e, più che una riflessione sul nonsense della vita (come ci dice il finale, brillante ma quasi obbligato nel suo meccanismo comico) diviene una riflessione sul (non)senso del medium fumetto gustosa e, sotto l’apparente bonomia, a tratti sulfurea. L’elemento più promettente, forse, è proprio questa forma mista, integrata, di fumetto e (vari tipi di) testo letterario: una strada finora poco tentata (e più a rovescia: i “nobilitanti” testi di “Watchmen” che Michele Medda, provocatoriamente, si rifiutava di leggere) e molto promettente. Anche qui, un filone che al limite ha avuto qualche antesignano dalle parti surrealiste e futuriste: ma nella sua relativa verginità, una strada che potrebbe essere interessante (anche per altri autori, e con altri metodi) percorrere.