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Appunti per una cronistoria del punk nel cyberpunk

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Il cyberpunk come genere, e più in generale come movimento culturale e artistico, è arrivato a essere sdoganato e reso fruibile a un pubblico molto ampio, praticamente globale. Ciò sembra però essere successo a discapito della sua aura ribelle, underground e antisistema: in altre parole, della sua vena punk.  

Cyberpunk 2077, gioco che ha convogliato su di sé tutto il bene e il male dell’industria videoludica, tra crunch, cultura dell’hype, rapporto tra critica e pubblico e tra produzione e contenuti, sembra aver sancito quello che già era nell’aria da qualche tempo: il cyberpunk come genere, e più in generale come movimento culturale e artistico, è arrivato a essere sdoganato e reso fruibile a un pubblico molto ampio, praticamente globale.

Ciò sembra però essere successo a discapito della sua aura ribelle, underground e antisistema: ialtre parole, della sua vena punk 

Esistono, tuttavia, opere più o meno recenti che riescono a mantenere questa attitudine e a conservare uno spirito che voglia ribaltare le aspettative dei fruitori, mutandole radicalmente, scuotendoli così dal loro stato di torpore. Individuare delle istanze fondamentali per il genere può essere utile per scoprire o riscoprire quanto il cyberpunk possa ancora comunicare, reinventandosi ma rimanendo fedele a se stesso (voi direte: certo, ne scrivi su un sito che parla di cultura pop, quindi ormai il mercato ha inglobato, e ingolfato, lo stesso cyberpunk con soluzioni scontate e banali, cambiandolo definitivamente e irreparabilmente”. Potreste avere anche una parte di ragione, ma non è così semplice).  

Tutto quanto segue non ha nessuna pretesa di essere esaustivo. Come da titolo, sono appunti per una cronistoria, che sarebbe interessante delineare per esporre come diverse reti, fatte di nodi più o meno strettamente intrecciati, si sovrappongano fra loro, andando a comporre quello che è il nucleo più intrinsecamente punk del cyberpunk in generale.  

La stagione magica del cinema giapponese 

Il cinema giapponese degli anni Ottanta si dimostra il più vitale nel trattare il cyberpunk, in particolare per quanto riguarda le sue componenti più sovversive. Sōgo Ishii gira, scrive e monta due film dal basso budget destinati a dare un impulso al movimentoCrazy Thunder Road (1980), un ritratto nichilista e violento del mondo giovanile, rappresentato da una gang di motociclisti, che veicola un netto messaggio di ribellione, e Burst City (1982), ambientato in un futuro distopico, dove si mescolano musica punk, proteste contro la costruzione di una centrale nucleare e scontri con la polizia. Ciò che colpisce di entrambi è l’accostamento tra un immaginario prettamente antiautoritario, unestetica che guarda al post-atomico e l’uso di un montaggio ipercinetico e dinamico. Intanto, nello stesso anno di Burst City, inizia a essere serializzata una serie manga di culto, tra le più influenti degli anni a venire, e che verrà trasposta nel 1988 in uno degli anime culto per eccellenza: Akira di Katsuhiro Ōtomoche presenta diversi elementi e tematiche legati allo stesso retroterra culturale dei film precedentemente citati (gang di motociclisti, nichilismo diffuso, ribellione contro l’autorità, giovani privi di genitori sia a livello letterale che metaforico), mentre dall’altra parte del Pacifico esce nei cinema Blade Runner

Nel 1989 è un altro terremoto, fortunatamente solo cinematografico, a scuotere il Giappone e poi l’Europa: Tetsuo, film in bianco e nero diretto, scritto, montato e prodotto da Shin’ya Tsukamoto. 

Girato con un budget ristrettissimo, mette in scena ripetute fusioni e trasformazioni tra carne e metallo, ponendo il corpo e la materialità dello stesso come base per esplorare il rapporto tra dolore ed esistenza e una società che muta gli uomini in macchine, tutto questo attraverso un montaggio schizzato, in cui coesistono sequenze in stop-motion, accelerazioni e immagini a tratti violentissime, combinate a una fotografia palesemente ispirata al cinema espressionista tedesco. 

Tetsuo è stato il primo capitolo di una trilogia che Tsukamoto ha poi portato avanti negli anni successivi. Queste sono visioni che sfociano spesso nel body horror, così come quelle di Shozin Fukui, regista che ha iniziato proprio come assistente di Tsukamoto e ne è stato evidentemente influenzato, nonostante poi lo stile e le tematiche tendano a divergere leggermente da quelle del suo maestro. Fukui, prima con 964 Pinocchio (1991) e poi con Rubber’s Love (1996), usa il cyberpunk e l’horror per raccontare la schiavitù mentale e fisica, le paranoie della tecnologia (attraverso il contrasto tra rapimenti e liberazioni) e i risultati di esperimenti estremi con essa (connessi alla tortura, al dolore e al cambiamento).

Tutti questi film, in un modo o nell’altro, propongono una forte componente punk legata al cyber, non solo nell’estetica, nell’immaginario, nell’ambientazione (spesso post-industriale) e nei temi, ma anche nell’impianto filmico, spezzando la linearità narrativa, usando come detto un montaggio frenetico e spesso la macchina a mano.

Questa stagione quasi magica del cinema giapponese si concluderà nel 2001, anno nel quale ancora Sōgo Ishii chiuderà il cerchio con il folle Electric Dragon 80.000 V, che in chiave punk e quasi supereroistica, mette in scena, di nuovo in bianco e nero, lo scontro tra due uomini che hanno il potere di incanalare la corrente elettrica, dove la componente cyber è sia suggerita che mostrata, segnando la fine di un momento altissimo del cinema giapponese, in parte successivo, non a caso, allo scoppio della bolla economica, dove le mutazioni sociali si riflettono inevitabilmente sul corpo. 

I fumetti tra passato, presente e futuribile 

Per quanto riguarda i fumetti, basterebbe solo citare un titolo, italiano, che esce per la prima volta nel 1978 e che influenzerà decine (forse centinaia?) di film, libri, altri fumetti e plasmerà, almeno secondo me, una buona parte dell’immaginario visivo cyberpunk, anche per la sua intrinseca identità completamente opposta al “senso comune” e all’autorità costituita, totalmente ribelle: RanXerox. 

RanXeroxpersonaggio inventato e inizialmente scritto da Stefano Tamburini e disegnato e colorato da Tanino Liberatore (e anche da Andrea Pazienza nei primissimi episodi in bianco e nero) per la rivista Cannibaleè un androide ricavato dai pezzi di una fotocopiatrice ed è amorale, ultraviolento, blasfemo e scorretto, un “coatto sintetico” secondo le parole di Tamburini. 

Queste sue caratteristiche si riflettono anche sull’imprinting globale di ogni episodio che lo ha per protagonista, dove l’obbiettivo degli autori, come è noto, erano quelli di scardinare ogni paradigma del fumetto dell’epoca.

L’ambientazione è spesso Roma: una capitale sporca, devastata, violenta, dove cavi penzolano dai muri e tubi sbucano dal terreno, piena di infiltrazioni, distopica (un hotel-grattacielo sorge al centro del Colosseo)L’attitudine complessiva è quella di un’opera visionaria e che abbina con grande equilibrio aspetti cyber e aspetti punk, con una tendenza più verso i secondi, e che alle avventure condite di sesso, droga e soldi, abbina tavole disegnate magistrale (anatomie splendidegestione di spazio e movimenti dei personaggi che rasentano la perfezione, scelta dei colori azzeccatissima, e molto altro), rendendo questo fumetto un caposaldo mondiale del genere. 

Tenendo lo sguardo su un disegnatoritaliano, questa volta contemporaneo, mi sembra giusto segnalare la storia “Master of Pain”, scritta da Aaron Gillespie e disegnata e colorata da Arturo Lauria, uscita nello speciale musicale dello storico magazine americano Heavy Metal nel 2019. 

È una storia di sole nove pagine, ma che racchiude tutte le qualità del cyberpunk di livello (quindi con un abbondante dose di punk), con un sottotesto politico non indifferente, colori al neon sparatissimi, vignette racchiuse tra pattern che ricordano circuiti e metalli, violenza brutale e personaggi emarginati e pronti a tutto. 

Se si guarda agli Stati Uniti, un prodotto che mantiene una solida vena punk mescolandola efficacemente con il cyber è la serie di dodici numeri Empty Zone (2015-16), scritta e disegnata da Jason Shawn Alexander e colorata da Luis Nct per Image Comics. Unendo topoi dell’horror (risveglio dei morti) e una protagonista con problemi di alcol che deve fare i conti con i fantasmi del suo passato, mette in scena un modo distopico successivo a un blackout globale, dove tutti hanno impianti cibernetici (compresi gli zombie), attraverso uno stile pittorico e colori desaturati.

Spesso però è il nero a fare da padrone tra le tavole, per sottolineare come il mondo sia calato nell’oscurità, morale e civile, così come l’animo della protagonista. Saltando nuovamente al Giappone, mi sembra giusto segnalare Tsutomu Nihei, un autore visionario che, mescolando il cyberpunk con l’horror, ha spesso dato vita a storie cupe, ricche d’azione ma anche concentrate sulle mutazioni corporee (e, di riflesso, psicologiche) che subiscono o incontrano i personaggi.

Il tratto di Nihei è carico, denso, fatto di neri pesanti (anche se nei suoi più recenti Knights of Sidonia (2009-15) Aposimz (2017-) ha cambiato completamente direzioni muovendosi verso una linea più rarefatta e un utilizzo misurato del nero), e l’uso dei retini carica e riempie ulteriormente le paginequasi per favorire una perenne oppressione ambientale. In merito a ciò, sarebbe interessante analizzare a fondo il rapporto che sia crea tra personaggi e ambienti nelle opere del mangaka, dove il secondo sovrasta sempre i primi, ma questi riescono a infiltrarsi nelle sue pieghe per scardinarlo dall’interno e demolire la sua potenza, decostruendolo, quasi fossero topi che abbattono un elefante. 

Una cyberselezione punkludica 

Uno dei videogiochi cyberpunk più interessanti che mi è capitato di giocare in questi anni, che mantiene una forte componente punk, è >observer_ (2017), sviluppato dallo studio polacco Bloober Team. 

Ambientato in un 2084 in cui le corporazioni hanno preso il controllo dopo una piaga digitale che sconvolto il mondo, si impersona un osservatore, un detective neurale (interpretato da Rutger Hauer) capace di connettersi alle menti delle vittime per estrarre indizi, il cui compito è risolvere alcuni casi di omicidio apparentemente legati a un fenomeno paranormale all’interno di un edificio in stato di quarantena. 

Si tratta di un videogioco perfetto? No, tuttavia ha una qualità preziosissima: un’anima. 

A volte si perde in meccaniche ripetitive sia nella parte noir (la risoluzione degli enigmi) sia in quella horror (la fuga dal mostro), ma guadagna tantissimi punti in diversi altri ambiti: le sequenze cyber-oniriche sono uno spettacolo per gli occhi e colpiscono per l’inquietudine che riescono a trasmettere, tra glitch e ripetizionie l’ambientazione è totalmente alienante (gli spioncini come mini schermi che mostrano solo un occhio fanno quasi paura e sono distopici al massimo), tanto comunicare sensazioni ed emozioni in maniera viscerale e diretta.

Un gioco storto e sporco quanto basta per mantenere un’attitudine punk ed essere cyber quanto basta per funzionare efficacemente. 

E ora qualcosa di completamente diverso. 2064: Read Only Memories (2015) è un avventura grafica sviluppata dallo studio MidBoss realizzata completamente in una fantastica pixel art. 

La trama è ambientata durante il periodo natalizio del 2064 a Neo-San Francisco. La corporation Parallax ha creato una linea di prodotti chiamata Relationship and Organizational Managers (ROMs), una linea di robot assistenti personali.
Il giocatore assume il ruolo di un giornalista che cerca di rintracciare il 
suo amico rapito e l'ingegnere Parallax Hayden Webber, misteriosamente scomparso. Si viene quindi subito a scoprire che loro sono aiutati da Turing, creazione di Hayden e prima macchina senziente al mondo, in grado di apprendere qualsiasi cosa e soprattutto di provare emozioni. 

Sono diverse le tematiche interessanti che vengono toccate, come l’identità di genere, il rapporto uomo-macchina e il contrasto tra razionalità ed emotività, abbinate a un character design eccezionale e a certi passaggi ed elementi di game design mutuati da Snatcher di Hideo Kojima per Konami. 

La componente che per me è davvero punk in 2064: Read Only Memories è il mood complessivo leggero, svagato e divertente, con sprazzi di nostalgia, che sembra inizialmente non volersi prendere troppo sul serio, ma in realtà sferra i colpi sotto la cintura in momenti studiati e calibratissimi, che dimostrano l’attenzione e la cura di John “JJSignal” James e soci.

Questo approccio lo-fi è veicolato intensamente anche dalla colonna sonora composta da 2Mello, che si rifà anche a un certo gusto city-pop, e da un’estetica anime usata per la promozione del videogioco: tutti questi aspetti scardinano la visione cupa e distopica del cyberpunk classico, proponendo qualcosa di differente, ma che ritorna all’”origine” nel momento in cui è funzionale alla narrazione. 

Cyberpunk 2077

A prescindere da tutti i problemi tecnici, può essere punk un gioco spinto in pompa magna, che lega palesemente consumo a intrattenimento? Non credo, eppure sotto la patina e la mano di vernice metaforica su tutte le istanze problematiche (sì, si è seriamente discusso più della possibilità di abbinare su un corpo pene e seno e delle taglie degli stessi, piuttosto che sulle effettive conseguenze in termini di cambiamento di percezione su una tematica così attuale), qualcosa rimane. 

Per esempio i Maelstrom, gang di criminali iper-modificati con impianti cibernetici, dediti all’occulto, e totalmente fuori di testa. Il caos incarnato e robotizzato, gli elementi incontrollabili che si muovono nelle faglie del sistema. Il loro character design funziona alla grande e forse è una delle cose più punk a livello visivo che si possono trovare nel gioco. 

Questo perché? Perché conservano un’aura ddo it yourselfdove l’errore viene conservato e diventa uno dei simboli per migliorarsi, nonostante in questo caso sotto l’ottica criminosa. Purtroppo questo, nel gioco, non scala al livello successivo, ovvero sfruttare l’attitudine punk come agente di cambiamento radicale verso ogni fronte socio-economico e questo è secondo me un grande potenziale non sfruttato da CD Projekt RED (segnalo in merito un’analisi [link], piuttosto tagliente ma molto interessante, del punk in Cyberpunk 2077). 

Conclusione(?) 

Questi brevi appunti per una cronistoria del punk nel cyberpunk non vogliono essere definitivi, anzi: vorrei fossero forieri di altri spunti e riflessioni in merito per arrivare a una catalogazione il più completa possibile di un grande corpus di opere.

Il cyberpunk ha raggiunto ogni angolo del mondo, codificarlo in qualche modo potrebbe essere utile a tutti per capire le direzioni che preso e quelle che prenderà. 

 

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