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Al Cavaliere Nero non gli devi rompere il cazzo

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Frank Miller, il suo legame con Batman e l'imbarazzo di chi ha sempre cercato di buttare a sinistra un autore che incarna l'american way più reazionaria

Quando, nel 1988, Il Ritorno del Cavaliere Oscuro venne presentato in Italia, fu vittima di un grave fraintendimento a causa del contesto. Venne infatti serializzato sulle pagine di Corto Maltese, rivista edita da Milano Libri, e proposta al pubblico dalla direttrice Fulvia Serra come una feroce satira dell'edonismo reganiano. E il pubblico e la critica italiana la presero come tale, senza farsi domande, lodando l'arguzia di Frank Miller. Del resto, Fulvia Serra era stata anche la storica direttrice di Linus, una rivista di fumetti e cultura tradizionalmente a sinistra, e non avrebbe mai pubblicato un fumetto destrorso, giusto?

Sbagliato.

Quello che Fulvia Serra non aveva capito è che Miller faceva sì una satira dei repubblicani e del governo, ma la faceva da destra, non da sinistra. Miller era non un arguto sagace democratico in vena di scherzare, quanto un "fascista" anarchico e zen, nella tradizione di gente come John Milius o Don Siegel. Il suo Ritorno del Cavaliere Oscuro non ironizzava sul governo Reagan perché iniquo, ottuso e repubblicano. Lo faceva perché invadente, oppressivo e nemico di quello spirito di indipendenza e di liberismo propri della parte migliore (e di quella peggiore) dell'american way.

E non è un caso che Miller avesse deciso di raffigurare Superman, personaggio creato da due immigrati ebrei ed emigrante pure da lui (da un pianeta vittima dell'olocausto), come un potentissimo servo colluso del sistema, una creatura capace di vivere solo grazie alla luce del sole e, per questo, accecata dall'astro e incapace di vedere la verità. Tutto il contrario del “dannato” Batman insomma, figlio di un magnate che si era fatto da solo, giustiziere solitario e mascherato (al pari di tanti vigilanti mascherati che si facevano veramente giustizia da soli all'epoca dei pionieri americani, dai Regolatori al Ku Klux Klan). Una illuminata creatura della notte in grado di vedere quelle stelle, mappa razionale e reale dell'universo, che la luce sole, cela alle creature diurne. Un uomo che non accettava padroni ma che era padrone del proprio destino e, per questo, padrone del destino di quelli più deboli e incosapevoli di lui, gli ignavi. E se ci vedete una pesante lettura massonica in tutto questo, è perché c'è.

Ma parlavamo del fraintendimento. A causa di esso, tutta l'opera successiva di Miller, nel corso degli anni, è stata affrontata dalla critica italiana con sempre più maggiore disagio. La svastica usata come shuriken da Miko in Sin City? Un riferimento colto alla cultura orientale.
Che è verissimo.
Ma è anche una provocazione culturale bella e buona.

La poetica nichilista di Marv e Dwight?
Un omaggio alle tematiche del genere letterario hard boiled.
Vero anche questo, ma il genere hard boiled, guardacaso, vanta non pochi autori decisamente reazionari, a cominciare da Mike Spillane (che di Miller è stata l'ispirazione principale per Sin City).

La mistificazione della filosofia spartana di 300?
Ecco, su quella anche i più veterocomunisti tra i critici entusiasti di Miller hanno barcollato parecchio, crollando definitivamente dopo la pubblicazione di Holy Terror (una versione alternativa di Batman alle prese con Al Qaeda e tutto il mondo islamico in generale) e le dichiarazioni dello scrittore contro il movimento Occupy.

Quindi, siete avvertiti: se non avete mai letto il DKR e vi state per apprestare a farlo, non caricate l'opera di valenze che non ha.
Non è la corriva visione degli anni '80 di un giovane autore liberal.
Se cercate questo, andatevi a leggere American Psycho di Bret Easton Ellis.

Il DKR non è nemmeno una profonda riflessione critica sulla figura del vigilante, figlia di un autore cerebrale e pienamente consapevole.
Per quello c'è Watchmen.
E non è una visione dissacrate del mito del supereroe (se è questo che vi interessa, vi consiglio lo splendido Marsall Law e l'altrettanto bello Brat Pack).

Il Ritorno del Cavaliere Oscuro è un'opera viscerale di un autore incredibilmente dotato, un capolavoro di linguaggio, invenzioni, potenza e intensità.
Ed è pure un fumetto reazionario e anarco-liberale fino al midollo.
Se è un problema per voi, lasciate perdere la sua lettura. Ma vi pedereste qualcosa di eccezionale.
E, se poi non vi dovesse bastare, c'è pure il Dark Knight Strikes Again.
Sono passati tredici anni tra un'opera e l'altra, cosa è successo nel frattempo? Il reaganismo è finito, il glam metal dimenticato, l’Unione Sovietica è storia, l’austerity clintoniana è venuta e passata, come il grunge. Ma, soprattutto, Le Torri Gemelle sono crollate e dalle loro macerie è nato il regno del terrore. A difendere la vita e gli interessi del il povero consumatore occidentale, George W. Bush e la sua Guerra Santa 2.0

Mai come in questo momento c’è bisogno che il Cavaliere Oscuro torni a colpire.
Prima dell’uscita della miniserie, le leggende si moltiplicano: si dice che la DC abbia pagato a Frank Miller oltre un milione di dollari per realizzare questo sequel e che la storia verterà su uno scontro tra Batman e Osama Bin Laden. Che da questa miniserie nascerà un nuovo universo supereroistico interamente progettato da Miller stesso. E via discorrendo. L’unica cosa certa è che tutti lo aspettano con il fiato sospeso e che venderà un fantazillione di copie.

E l’uscita del numero uno lascia tutti spiazzati. Miller sfoggia uno stile di disegno ultra essenziale e fortemente caricaturale, un incrocio blasfemo tra l’ultimo Hugo Pratt e il primo Bob Kane. A rendere ancora più traumatica la cosa, Lynn Varley abbandona le sue velature analogiche in favore di un uso della colorazione digitale assolutamente straniante che la fa sembrare, a seconda delle pagine, una geniale punk eversiva intenzionata a sovvertire le convenzioni di una colorazione standardizzata, o una principiante alle prese con i suoi primi esercizi al computer.
E poi c’è la storia. Che è una beffa crudele.

Miller non solo non realizza un seguito all’altezza del capolavoro che lo ha preceduto, ma non ci prova nemmeno. Quello che fa, invece, è farsi beffa di tutto e tutti.
Ride, il vecchio Frank. Di sé stesso e dell'aurea di sacralità che ha investito il suo lavoro.

Ride della DC, che lo ha coperto di soldi e che si aspetta un'opera dai toni epici e, invece, si ritrova per le mani un lavoro così satiricamente corrosivo da sembrare quasi opera del Joker.
E, soprattutto (e questa è la cosa che i nerd non gli perdoneranno mai) ride dei supereroi e della loro inalienabile ingenuità.

L’unico personaggio che Frank Miller prende sul serio, l’unico che risparmia dalla sua furia iconoclasta, è lui, il dannato Batman, che nel DK2 ci viene rappresentato come un maestoso e terribile terrorista dell’ordine e della mediocrità costituita. Nessun dubbio che Miller si identifichi al cento per cento nella versione che ci viene data del Cavaliere Oscuro in quest'opera.
E quindi, a conti fatti, cosa resta di questo imprevedibile sequel, oggi? Come va guardato questo fumetto che tanto ha dato da discutere?

Io la vedo così: esterno, siamo in un cimitero. Il cielo è nero, carico di nubi gravide di pioggia e di orrori. Al centro della scena, una lapide. È la tomba degli uomini in calzamglia. Un lampo squarcia le tenebre. Una risata agghiacciante riecheggia nell’aria. STRIKING TERROR. THE BEST PART OF THE JOB.
Il dannato Batman vivrà per sempre. I supereroi sono già morti.
AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHA

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